Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
IL DOPOGUERRA IN ITALIA E L’AVVENTO DEL FASCISMO
Il dopoguerra in Italia assunse aspetti più drammatici rispetto alle altre potenze europee,
poiché presentava strutture economiche meno avanzate e il processo di democratizzazione era
appena all’inizio. Furono i cattolici ad introdurre il primo importante fattore di novità nel 1919
con la costituzione del PPI ad opera di Don Luigi Sturzo, che presentò un programma di
impostazione democratica strettamente legato alla Chiesa. L’altra grande novità fu
rappresentata dell’impetuosa crescita del Partito Socialista italiano, in cui era schiacciante la
prevalenza della corrente di sinistra (massimalista), il cui leader era Giacinto Menotti Serrati
(direttore dell’Avanti!), che si pose come obiettivo immediato quello di dar vita ad una
repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato. In polemica con quest’ottica, si
crearono nel Psi gruppi di estrema sinistra che si battevano per un impegno costante nel
progetto rivoluzionario: fra questi emergeva il gruppo napoletano che faceva capo ad Amedeo
Bordiga e quello torinese di Antonio Gramsci. Mentre Bordiga puntava tutto sulla creazione di
un partito ricalcato sul modello bolscevico, Gramsci era più affascinato dall’esperienza dei
soviet.
Di spicco nel 1919, fu la fondazione dei Fasci di combattimento ad opera di Benito Mussolini.
Politicamente, il nuovo movimento si schierava a sinistra e si dichiarava favorevole alla
repubblica; ma al contempo ostentava un eccesso di nazionalismo ed una feroce avversione
verso i socialisti. Questo movimento si fece notare fin da subito per il suo stile aggressivo e
violento.
Dal punto di vista degli equilibri internazionali, l’Italia era uscita dal conflitto rafforzata;
raggiungendo non solo i tanto sospirati confini naturali, ma aveva visto anche scomparire dalle
sue frontiere il proprio nemico storico. Secondo i Patti di Londra, la Dalmazia (a maggioranza
slava) spettasse all’Italia mentre Fiume (a maggioranza italiana) restasse all’Impero asburgico.
Nella conferenza di pace tenutasi a Versailles, Vittorio Emanuele Orlando e Sonnino si trovarono
a scegliere tra un applicazione integrale di suddetti patti oppure abbracciare i nuovi principi
della nuova politica delle nazionalità. Essi cercarono di eludere una scelta effettiva, richiedendo
sia i territori previsti dal Patto di Londra, sia la città di Fiume in base al principio di nazionalità.
Tali richieste incontrarono però l’opposizione degli alleati ed in particolare di Wilson. Nell’aprile
del 1919 per protestare contro l’atteggiamento del presidente americano, orlando e Sonnino
abbandonarono Versailles; ma un mese dopo dovettero ripresentarsi a Parigi senza aver
ottenuto alcun risultato. L’insuccesso diplomatico di Orlando, lo indusse a dimettersi, e ad
esser sostituito da Nitti.
Gli avvenimenti del 1919 avevano suscitato in larghi strati della popolazione un sentimento di
vittoria mutilata:
ostilità diffuso. Si parlò infatti di un’espressione coniata da D’Annunzio . La
manifestazione più clamorosa di questa protesta si ebbe nel settembre 1919, quando alcuni
reparti militari insieme ad altri volontari, capeggiati da D’Annunzio, occuparono la città di
Fiume. L’avventura fiumana durò circa 15 mesi e si trasformò in un’inedita esperienza politica.
Fra il 1919 e il 1920, l’Italia fu attraversata da una serie di convulse agitazioni sociali e di
profondi mutamenti causati dall’aumento del costo della vita; anche se le varie piccole
rivoluzioni procedettero ognuna per conto proprio o addirittura una contro l’altra. Le prime
elezione del dopoguerra, nel 1919, col metodo della rappresentanza proporzionale vide
l’affermarsi dei socialisti come primo partito, seguito dai popolari. Le tendenze elettorali non
permettevano però la formazione di una maggioranza, e dal momento che i socialisti
rifiutavano ogni collaborazione coi gruppi borghesi, l’unica possibile fu quella tra popolari e
liberal-democratici.
Indebolito dall’esito delle elezioni, il governo Nitti sopravvisse fino al giugno 1920, anno in cui
fu chiamato al governo l’ormai ottantenne Giolitti; il quale nei 12 mesi in cui tenne la guida
dell’esecutivo, diede nuovamente prova di grandi abilità ed energia. I risultati più importanti
furono in politica estera: condusse un negoziato con la Jugoslavia, che si concluse con la firma
del trattato di Rapallo, con la quale l’Italia conservò Trieste, Gorizia e Istria, a cui si aggiunse
Zara (della Dalmazia); mentre Fiume fu dichiarata città libera (che sarebbe poi divenuta italiana
nel 1924). Più serie le difficoltà riscontrate in politica interna, dove il governo impose la
liberalizzazione del prezzo del pane e avviò il risanamento del bilancio statale. Fallì tuttavia il
disegno politico che consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie del movimento
operaio accogliendo in parte le istanze di riforma. Alla fine di agosto, in risposta alla serrata
(chiusura degli stabilimenti) attuata da un’azienda milanese, la Fiom (federazione italiana degli
operai metallurgici) ordinò ai suoi aderente di occupare le fabbriche. La maggior parte dei
lavoratori in lotta visse quest’esperienza come l’inizio di un moto rivoluzionario, ma in realtà il
movimento non fu in grado di uscire dalle fabbriche, seppur sul piano sindacale gli operai
uscirono vittoriosi dallo scontro. I dirigenti riformisti della Cgl furono difatti accusati di aver
svenduto la rivoluzione in cambio di accordi sindacali; inoltre Serrati ed i massimalisti
rifiutarono di sottostare alle condizioni imposte per prendere parte al II Congresso nazionale del
Comintern: perché le ritenevano lesive all’autonomia del partito. Nel gennaio 1921, durante il
congresso del Partito, a Livorno, ma fu invece una minoranza di sinistra ad abbandonare il Psi,
per fondare il Partito comunista italiano.
L’occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono, in Italia, la fine del biennio
rosso. Intanto, fino all’autunno del 1920, il ruolo del Fascismo era stato prettamente marginale
nella vita politica; ma tra la fine del 20 e l’inizio del 21, il movimento subì un rapido processo di
mutazione che lo portò ad accantonare l’originario programma radical-democratico, a fondarsi
su strutture paramilitari (squadre d’azione) ed a puntare tutto su una lotta contro il Psi e le
organizzazioni contadine padane. Questo mutamento si spiega in parte con la scelta di
Mussolini di cavalcare l’ondata antisocialista che seguì il biennio rosso, in altra parte va
ricollegata alla particolare situazione nella campagne padane, dove il fascismo si sviluppò.
L’atto di nascita del fascismo agrario si fa coincidere con il 21 novembre 1920, quando, a
Bologna, i fascisti mobilitarono le proprie truppe per impedire la cerimonia d’insediamento della
nuova amministrazione comunale socialista. Vi furono scontri e per una serie di tragici errori, i
socialisti spararono sulla folla, composta in gran parte dai loro sostenitori. Da ciò i fascisti
trassero pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia. Nel
giro di pochi mesi, il fenomeno dello squadrismo si diffuse in tutte le province padane, in
Toscana, Umbria e Puglia. I socialisti si trovarono, così, a combattere una lotta impari con un
nemico che godeva di un ampio margine di impunità. Quasi mai la forza pubblica si oppose
all’azione squadrista: Giolitti infatti, pur evitando di favorirlo apertamente, guardò con
compiacenza lo sviluppo del movimento, pensando di servirsene per ridurre le pretese socialisti
e popolari, pensando (soprattutto) di poterlo in seguito costituzionalizzare, assorbendolo nella
maggioranza liberale.
Si inquadrava in questa strategia la decisione di convocare nuove elezione nel 1921 che si
conclusero, però, nuovamente a favore del Psi (che aveva avuto solo una leggera flessione) e
con il rafforzamento dei popolari (che si riconfermavano secondo partito).
L’esito delle elezioni di maggio mise fine all’ultimo esperimento governativo di Giolitti, che si
dimise nel Luglio. Il suo successore Bonomi, tentò di far uscire il paese da questa sorta di
guerra civile, con il patto di pacificazione (1921) tra socialisti e fascisti. Il patto consisteva in un
generico impegno per la rinuncia della armi da ambo le parti. Il patto rientrava però
perfettamente nella strategia di Mussolini che puntava ad inserirsi nel gioco politico ufficiale.
Durante il congresso dei Fasci, a Roma, Mussolini si rese però conto di non poter fare a meno
della massa d’urto dello squadrismo agrario e sconfessò il patto di pacificazione; e si passò così
alla trasformazione del movimento fascista in un vero e proprio partito, il PNF, nel 1921.
Nel febbraio 1922, il governo passò nelle mani di Luigi Facta, con il quale l’agonia dello stato
liberale entrò nella sua fase culminante. Il fascismo si fece parallelamente sempre più
protagonista della scena politica grazie agli esiti positivi di operazioni sempre più ampie e
clamorose. All’offensiva fascista, i socialisti non seppero opporre risposte efficaci. Si rivelò,
sciopero legalitario generale
difatti, disastrosa la decisione di proclamare il 1 agosto uno in
difesa della libertà costituzionali. I fascisti colsero il pretesto per atteggiarsi come unici custodi
dell’ordine. Nei primi di ottobre 1922, prima che il fascismo prendesse il potere, i riformisti di
Turati abbandonarono il Psi per dar vita al Psu (partito socialista unitario).
In questa delicata fase, Mussolini giocò come al solito su due tavoli: da un lato iniziò trattative
con i più autorevoli esponenti liberali in vista di una partecipazione fascista nel nuovo governo,
rassicurò la monarchia (sconfessando le passate simpatie repubblicane), si guadagnò
l’appoggio degli industriali; dall’altro lasciò che l’apparato militare fascista si preparasse
apertamente alla presa del potere con un colpo di Stato. Cominciò così a prender corpo il
marcia su Roma,
progetto della che ebbe luogo il 27 ottobre 1922. Un piano del genere non
avrebbe avuto alcuna possibilità se avesse incontrato una ferma opposizione da parte delle
autorità; anche se decisivo fu l’atteggiamento del re Vittorio Emanuele III, che rifiutò (la
mattina del 28) di firmare un decreto che proclamava lo stato d’assedio.
Il rifiuto del re aprì le porte di Roma alle camicie nere ed al loro colpo di Stato. Mussolini non si
accontentò della soluzione auspicata dal re e dagli ambienti moderati (partecipazione fascista
al governo, guidato da un esponente conservatore), ma chiese e ottenne di essere chiamato lui