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La scuola giuridica napoletana e il commento al Liber Augustalis
Questi giuristi napoletani, pur non adottandolo come testo di studio, usarono commentare il Liber Augustalis, cioè la raccolta di costituzioni che era stata promulgata da Federico II. Questa rivalutazione della scuola napoletana operata da Meijers è stata condivisa dallastoriografia successiva, la quale ha messo in risalto anche l'impegno dei giuristi napoletani appunto nel commentare il Liber Augustalis. E infatti questo Liber fu oggetto di una serie di glosse: c'è un manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, che comprende un apparato di glosse detto "Vetus Apparatus"; c'è poi la glossa ordinaria al testo federiciano che fu composta dal giurista Marino da Caramanico.
Al pari della raccolta legislativa federiciana, anche quelle dei sovrani delle dinastie successive (i Capitula dei monarchi angioini e le Pragmaticae dei re aragonesi) rimasero fuori dellascuola e furono arricchite da apparati di glosse elaborate dai giuristi napoletani.
giuristi meridionali, al pari di quanto accadde al testo delle norme processuali in vigore in uno dei grandi tribunali del Regno, la Corte della Vicaria. Fuori dallo Studio rimasero anche le consuetudini della città di Napoli (le consuetudines neapolitanae) approvate nel 1306 dal re Carlo II. Noi abbiamo visto che il diritto romano costituiva un dato fondamentale, conosciuto tramite la compilazione giustinianea nell'Italia centro settentrionale. Abbiamo anche visto che questo diritto giustinianeo costituiva una delle grandi matrici delle consuetudini, per cui è chiaro che nell'Italia centro settentrionale, la rinascita dello studio giuridico del diritto giustinianeo trovava una base solida nella tradizione concreta di quelle regioni. Ma perché anche nell'Italia meridionale allora il diritto romano era riconosciuto come vigente? Qui bisogna rivolgersi ai giuristi meridionali. Ad esempio, Marino da Caramanico (autore della suddetta glossa ordinaria al Liber)Augustus) riteneva che il diritto romano erastato osservato nelle regioni meridionali in virtù della volontà del monarca e che, a differenzadel diritto longobardo, del diritto franco, fosse un diritto che si trovava a fondamento delleconsuetudini di tutte le regioni del regno. Quindi c’era questa idea di una sorta di permissioregia alla vigenza del diritto romano. Questa tesi è ripresa anche da un altro giurista, Andread’Isernia, che sostenne che la storia giuridica dell’Italia meridionale doveva essere articolatein due fasi, divise dal mito donazione di Costantino, secondo il quale Costantino avrebbedonato alla Chiesa il dominio dell’Italia meridionale, separando quest’ultima dall’Impero.Allora secondo Andrea d’Isernia era successo che fino alla donazione di Costantino il dirittoromano era in vigore nell’Italia meridionale al pari di quello che succedeva nelle altre regionidell’Impero. Successivamente era
Lo stato è stato tenuto in vigore perché era visto dai sovrani come espressione della massima razionalità, della massima giustizia e della massima equità. Dobbiamo però ora fare un chiarimento sul ruolo del monarca. Il monarca nel Medioevo aveva il ruolo principale di, da una parte organizzare la difesa unitaria delle terre che a lui si riferivano, dall'altra quella di mantenere, difendere, tutelare e far rispettare il diritto che spontaneamente era nato nelle regioni del suo regno (cioè le regioni che a lui facevano capo). Questo rispetto del diritto spontaneamente nato nelle regioni, aveva però un limite: il sovrano non poteva ammettere che questo diritto nato spontaneamente contenesse delle norme contrarie ai superiori principi di equità, di giustizia e di razionalità. Per cui, laddove avesse colto una consuetudine che a questi principi superiori si opponesse, era suo dovere intervenire per modificarla. Per sostituire cioè una consuetudine,
un uso iniquo, con unanorma equa, razionale e giusta. Quindi l'intervento legislativo del sovrano era ispirato allavolontà di costruire giustizia con leggi eque e razionali, sostituendo norme inique e razionali. Questo significa che laddove invece il diritto fosse risultato equo, giusto, razionale, il re nonaveva nessuna possibilità di intervenire. Se noi riportiamo allora questo quadro allasituazione del diritto romano, noi vediamo qual è il senso di questa tesi di Andrea d'Isernia. Cioè, egli dice che il diritto romano vige nell'Italia meridionale perché tutti coloro che hannoguidato in maniera unitaria le terre meridionali dopo la donazione di Costantino, non sonomai intervenuti a modificare questo diritto, perché quest'ultimo è la massima espressionedella equità, della giustizia e della razionalità. Quindi, il diritto romano era in vigore nel Regnoper la sua intrinseca natura di norma giusta, equa.
E' razionale e il sovrano non poteva fare altro che accoglierne la vigenza.
ARGOMENTO XXIV – Il diritto canonico nel Medioevo
Quando abbiamo parlato della rinascita dello studio del diritto romano ad opera di Irnerio e della scuola del glossatori, abbiamo detto che questa rinascita avveniva in una sfera culturale segnata anzitutto dalla riforma gregoriana, cioè dalla riforma con cui Papa Gregorio VII, ma anche altri, cercarono di affermare la libertà della Chiesa nei confronti dell'autorità laica. Proprio per fondare questa loro pretesa, si riallacciavano al diritto romano. Quindi, il collegamento tra la rinascita del diritto romano e questo nuovo indirizzo della Chiesa è chiaro fin dalla fine dell'XI secolo, inizio del XII secolo.
Ma la Chiesa aveva già da tempo formulato una precisa idea del diritto, perché riteneva che fin dalla sua fondazione aveva ritenuto che il diritto potesse distinguersi in diritto divino e diritto umano.
Il diritto divino trovava la sua fonte nelle sacre scritture e nell'ordine naturale delle cose. Il diritto umano riguardava invece tutte le consuetudini che si andavano affermando nei rapporti intersoggettivi. La Chiesa aveva già, fin da allora, affermato il principio della adprobatio consuetudinis, cioè aveva detto che il diritto umano doveva corrispondere al diritto divino. Non poteva infrangere il diritto divino, per cui la Chiesa stessa si arrogava il potere di verificare se gli usi, le consuetudini di diritto positivo, di diritto umano erano o meno conciliabili con il diritto divino. Nel caso in cui questo diritto umano non fosse contrario, fosse diverso dal diritto divino, la Chiesa si arrogava il potere di vietare l'uso di queste norme ai suoi fedeli.
Naturalmente il diritto positivo della Chiesa era forgiato non soltanto dalle consuetudini, ma anche da una serie di decisioni, che venivano prese dai concili, che sono delle assemblee dei vescovi. Questi possono essere
ecumenici (ai quali partecipano tutti i Vescovi dell'interacristianità), oppure possono essere concili locali e provinciali, composti dai vescovi di una o più provincie. Le decisioni di queste assemblee erano indicate con il termine di "canoni" (dal greco canon = misura e, quindi, regola). Da qui il termine di diritto canonico alle norme della Chiesa. Naturalmente in queste assemblee l'argomento primario erano le questioni di fede, l'interpretazione dei libri della Rivelazione e della Tradizione. I Concili d'Oriente per lungo tempo si erano impegnati nella definizione della natura di Cristo e i Concili d'Occidente avevano invece preferito soffermarsi sul tema della salvezza per grazia o per opere dell'uomo. Da tempo le delibere dei Concili erano state raccolte in una serie di lavori, dove peraltro venivano messe contemporaneamente sia le decisioni che riguardavano la materia prettamente ideologica, sia quelle norme che riguardano
le materie giuridiche. Il diritto della Chiesa poteva riguardare due settori: quello che disciplinava intuitu personae (cioè l'organizzazione del clero), oppure intuitu materiae (cioè alcune materie che la Chiesa riteneva unicamente spettare alla propria competenza). Tutte queste raccolte in cui si trovano sia canoni teologici sia canoni giuridici, sono tramandate per tutto l'Alto Medioevo. La rinascita del diritto romano, cioè l'opera di Irnerio, l'opera dei glossatori, la ricostruzione dei testi giustinianei e la loro interpretazione, sollecitò anche il campo della Chiesa, il campo ecclesiastico. Abbiamo che, intorno al 1140, un monaco camaldolese di nome Graziano, fece una prima raccolta di canoni, che riguardavano soltanto materie giuridiche. Questa raccolta ha il titolo di Concordia Discordantium Canonum, detta anche semplicemente "Decretum". Questa raccolta è anzitutto importante perché per la prima voltaAbbiamo una netta separazione tra una materia teologica e una giuridica.
Questa raccolta, difatti, come già detto, si occupa esclusivamente e riunisce esclusivamente canonigiuridici. Non solo, ma è anche importante perché viene fornito un testo chiaro e preciso della tradizione testuale di questi canoni giuridici.
Chi era questo Graziano?
Di lui si sa poco. Ci sono stati una serie di studi sul Decretum, ma poche sono le notizie relative all'autore di questa opera. Nella tradizione storiografica si sa che egli fu un monaco camaldolese, attivo in un monastero bolognese, nato nella zona tra Orvieto e Chiusi. Naturalmente vivendo a Bologna era stato influenzato dalla scuola dei glossatori. Sappiamo che Graziano nel 1143 prese parte a Venezia con alcuni giuristi a una disputa sulle decime ecclesiastiche e anche, appare certo, che operò lungamente a Bologna, dove respirò il primo moto della civilistica irneriana e post irneriana.
L'opera di Graziano
Che è giunta a noi è un'opera molto ricca e viene considerata, dallastoriografia più recente, una seconda redazione, perché una prima redazione non avrebbe avuto una parte del materiale, mentre la seconda sarebbe stata più completa. Si discute se questa seconda redazione sia stata opera di Graziano oppure dei suoi allievi.
Come vediamo, già il titolo ci dice "Concordia Discordantium Canonum", e qui ritorniamo sul punto che abbiamo visto anche nei glossatori civilisti. Cioè, la lettura che i glossatori civilisti avevano delle opere giustinianee era quella della necessità di un coordinamento, di una concordia tra le norme contenute nei testi giustinianei. Il principio del richiamo del passo parallelo, che troviamo in tante glosse, al Digesto, al Codice, alle Istituzioni, alle Novelle, ha proprio il senso di fornire un'interpretazione omogenea e concorde di norme che nelle opere giustinianee potevano apparire tra loro discordanti.
Invece si voleva fornire una idea omogenea, unitaria del diritto, perché questo diritto era considerato come il diritto che doveva guidare.