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EMILE DURKCHEIM
Una posizione consiste nel relativizzare la distinzione, cioè nel considerare la sua variabilità storica,
culturale e sociale. Già nel 1895 la questione era stata affrontata da Emile Durkheim, fondatore della scuola
socioetnologica francese e maestro di Marcel Mauss. Nel suo studio concernente appunto il normale e il
patologico afferma che anche quando scegliamo come tratti salienti della malattia il dolore e la sofferenza,
e come tratti distintivi sella salute il piacere e il godimento, questi si rivelano inutili in quanto non servono
affatto a chiarire la distinzione. Da tale osservazione discende una consapevolezza critica importante: la
normalità e l’anormalità non sono essenze ma, appunto ‘’norme’’ prestabilite, pertanto l’evento della
malattia non può essere definito ‘’a priori’’, se non si comprende prima attraverso quali processi sia stata
stabilita la norma. Non essendo una ‘’essenza’’ lo stato di salute è variabile, non solo dal punto di vista di
differenti società, ma anche all’interno di uno stesso contesto sociale. Il fatto che i vecchi e i bambini siano
più esposti ai fattori di distruzione non significa certo che la vecchiaia e l’infanzia siano malattia e solo l’età
adulta rappresenti la salute; così le mestruazioni indeboliscono ed espongono il corpo femminile al
malessere, ma non per questo sono da considerarsi patologie come sarebbe invece la loro assenza. In
definitiva per Durkheim, da un lato ‘’la malattia ci costringe soltanto ad adattarci in modo diverso dalla
maggior parte dei nostri simili; dall’altro lato la salute è una condizione fisiologica ‘’ideale’’ identificata con
le norma costruita dalla maggioranza della specie (sociale). Non si può neanche concepire senza
contraddizione una specie che di per se stessa, ed in virtù della sua costruzione fondamentale, sarebbe
irrimediabilmente malata. Questa è la norma per eccellenza e dunque non potrebbe racchiudere nulla di
normale’’.
Relativizzando la ‘’norma’’ all’ordine sociale Durkheim mostra come l’opposizione normale/patologico non
costituisca una soglia ‘’naturale’’ e fissa. La variabilità sociale e culturale della soglia che separa la salute
dalla malattia è quindi un dato fondamentale per cominciare a rendere più dialettica la distinzione.
Considerare la relatività sociale della coppia salute-malattia è solo un primo passo che non è sufficiente a
portarci al di fuori della dicotomia.
Occorre elaborare strumenti che consentano di volta in volta di comprendere come nei diversi contesti
storico-sociali questa soglia venga socialmente e culturalmente ‘’costruita’’ e attraverso quali dinamiche
essa venga giocata nello spazio sociale nel quale si afferma come norma dominante.
Emergono allora nuovi problemi: chi definisce le soglie di separazione fra la salute e la malattia, fra
‘’normale’’ e ‘’anormale’’ nei diversi contesti storico-sociali? Come accade che tali separazioni si affermino e
vengano considerate oggettive e naturali? Chi sono i produttori di tale oggettivazione e naturalizzazione?
Con quali forze esse vengono imposte? Quali forme di docilità o di resistenza e quali tattiche i soggetti
attivano nei confronti della distinzioni istituzionali fra normale e anormale? Le incorporano, vi resistono, le
riproducono, le manipolano, le sovvertono, le trasformano? 12
FRANCO BESAGLIA
In rapporto a questi problemi, un importante ripensamento critico della coppia salute-malattia deriva
dall’opera dello psichiatra Franco Basaglia. L’analisi di Basaglia parte proprio dalla constatazione del fatto
che la soglia che separa la salute dalla malattia non è fissa, ma varia al variare delle condizioni storiche,
sociali, politiche, economiche, culturali; e inoltre sostiene che per superare la dicotomia occorre riflettere
sui rapporti di forza che in ogni contesto di volta in volta definiscono la normalità e l’anormalità. Le
riflessioni di Basaglia muovono allora da un’analisi concreta dei rapporti di potere e da un impegno attivo
nella critica dei processi istituzionali, connessi alla produzione delle categorie di ‘’sano’’ e ‘’malato’’
all’interno della società italiana negli anni ’60 e ’70. Anche Basaglia mette in guardia dal considerare ovvia e
naturale la distinzione fra salute e malattia, ma l’incapacità o il rifiuto di problematizzare la distinzione è, a
suo avviso, un atteggiamento non solo culturale, ma fondato su motivazioni politico-economiche. Ovvero
la salute è paragonata all’efficienza, in questo caso all’efficienza lavorativa, cioè sono sano quindi posso
lavorare, quindi possono mantenermi, e quindi posso adempiere ai miei doveri. Viceversa la malattia vuole
dire il contrario, vuole dire abbandonare in qualche modo la propria vita ‘’sociale’’ e privarsi della propria
esperienza personale della malattia stessa affidandosi alla scienza interrompendo il continuum con la vita.
Le intuizioni di Besaglia, oltre a sviluppare una critica dell’oggettivismo biomedico, segnalano la necessità
di costruire ponti analitici, interpretativi e al tempo stesso operativi che connettano l’esperienza del
benessere e del malessere al contesto sociale ed economico.
ERNESTO DE MARTINO
Ernesto de Martino ritiene che per affrontare le esperienze umane di salute e malattia non sia sufficiente
una pur utile relativizzazione culturale: l’operazione necessaria per comprendere la stessa variabilità
culturale delle categorie di salute e malattia è quella di demolire la distinzione stessa. Senza questa
condizione preliminare, l’antropologia resterebbe subalterna a una visione naturalista e biologista, che
taglia i ponti con i processi culturali, sociali e politici, ed è destinata a considerare la diversità delle forme e
delle pratiche culturali connesse al malessere non come un importante patrimonio di saperi e di
esperienze, ma come ‘’superstizioni’’, ‘’errori’’, ‘’ false credenze irrazionali’’, poiché lontane dall’oggettiva
‘’verità scientifica’’. Per de Martino l’opposizione salute/malattia è una doppia menzogna e per uscirne
suggerisce di assumere dunque come criterio per distinguere il sano dal malato non la ‘’realtà’’ ma la
‘’realtà storica’’.
Ricerca etnografica compiuta da de Martino nei paesi della LUCANIA, dove considera la rappresentazione
magica della malattia, una ricerca laboriosa e ricca di informazioni concernenti appunto questo delicato
tema in cui egli sviluppa ulteriormente la sua teoria della ‘’crisi della presenza’’, osservando esperienze
esistenziali e sociali concrete dalle quali si generano le rappresentazioni culturali e le pratiche simboliche
della malattia, anche in rapporti ai saperi della biomedicina, della teologia e della religione cattolica. Nella
Lucania degli anni ’50, la nozione di ‘’malattia’’ è intrecciata con quella di ‘’fascinazione’’, termine che
indica ''un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia
senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta’’. Inquadrando nella
configurazione culturale ella fascinazione l’esperienza della malattia, de Martino esplora una dimensione
sociale e storica più ampia di quella delineata dallo spazio biomedico e da quello religioso. Il malessere (la
malattia in Lucania), la sventura, l’infortunio vengono rappresentati in un sistema simbolico che coinvolge
realtà immateriali, inoggettivabili e sovrannaturali, immaginate come domìni della magia o della religione
cristiana, sia nelle sue forme colte e istituzionali sia in quelle popolarizzate. La sua analisi culturale delle
rappresentazioni, dei saperi e delle pratiche connesse all’esperienza del malessere punta dunque a
scomporre il concetto di ‘’malattia’’ nella dialettica fra la ‘’presenza’’ e la sua ‘’crisi’’, e a rilevare l’idioma
corporeo attraverso il quale tale dialettica si rende manifesta e quindi manipolabile, nelle pratiche rituali,
mediche e religiose. 13
In breve grazie a de Martino si ha la svolta nell’antropologia e si supera la dicotomia (doppia menzogna)
della salute e della malattia anche in concomitanza alla ricerca sul campo in Puglia sul Tarantismo, in cui
racconta le forme della sofferenza fisica, narrate nei racconti biografici o eseguite nelle metafore della
danza. È attraverso tale percorso che l’antropologo giunse successivamente a criticare la separazione
salute-malattia definendola ‘’doppia menzogna’’. Dopo la ricerca sul tarantismo pugliese, condotta con la
presenza, tra gli altri, di un medico psichiatra, de Martino giunge a considerare assurda, dal punto di vista
scientifico, anche la separazione fra le discipline umanistiche e le discipline biomediche e psichiatriche,
poiché entrambe si occupano del vivente. Tale separazione appare ai suoi occhi al tempo stesso come una
causa e un effetto della scissione salute/malattia.
L’insegnamento demartiniano alle scienze antropologiche e anche a quelle biomediche, risiede nella
decisiva scelta scientifica di considerare la salute e la malattia come processi storicoculturali e sociopolitici,
svelando in tal modo la particolare inadeguatezza del termine ‘’malattia’’ a cogliere la complessità e la
variabilità delle forme di incorporazione della storia, cioè dei diversi modi di stare al mondo e delle diverse
capacità di incorporarlo e trasformarlo.
Scomporre la malattia: la parola, la cosa, il racconto
Di fronte alla molteplicità di esperienze individuali, di significati e di pratiche sociali, politiche e culturali
connesse all’esperienza del malessere e alla sua interpretazione, l’antropologia medica ha reso evidenti i
rischi e gli inganni di un linguaggio che rimanga intrappolato nelle dicotomie, e la conseguente urgenza di
elaborare nuove nozioni e nuove parole soprattutto sulla parola ‘’MALATTIA’’. Lo scopo era quello di
rinominare il fenomeno indicato dalla biomedicina come ‘’malattia’’, restituendo ad esso la pienezza
multidimensionale di una complessità insieme esistenziale, sociale e culturale.
Nel campo delle antropologie della lingue inglese, e prevalentemente quelle statunitensi, tale operazione di
revisione terminologica è stata avvantaggia