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COURT.
Dunque, il tema della MORTE, nella sua estrema radicalità, costituisce, uno dei più grandi tabù, della nostra
società, non pensata, non detta, nel vano tentativo di esorcizzarla, forse, di celare, con l’ineffabilità del
silenzio, l’orrore del vuoto e dell’uomo alle prese con il nulla, essa viene semmai sempre più esibita 25
Promessi a una forma
piuttosto che interpretata ed elaborata, attraverso la spettacolarizzazione ad opera dei media,
decoscentizzando l’uomo rispetto al suo autentico significato e rendendolo incapace di sostare in modo
critico di fronte ad essa.
Eppure, è proprio la coscienza della fine, del limite, del termine, che determina, in larga misura, la
condizione umana, e detta la cifra antropologica ma anche ontologica ed etica dell’uomo, per il quale non è
la morte a costituire problema, ma, proprio la coscienza di essa, che è caratteristica umana e solo umana e
non appartiene a nessun altro vivente perché questi muoiono ma non sanno di dover morire, vivono la
propria vita limitata, come ogni vita, dalla morte, ma della morte non sanno nulla.
E’ perciò che ogni società, ogni cultura, esprime una concezione della morte da cui discende, in larga misura
e parallelamente, conseguentemente, una concezione della stessa vita. La morte diviene principio
interpretativo e dunque tratto culturale e insieme forma di esistenza, ma soprattutto il limite, che è ciò che
delimita, dà alla vita FORMA.
E se, come s’è detto, per tutti gli altri esseri viventi, inconsapevoli di essere mortali, la vita si risolve in un
semplice passare, in un trascorrere il tempo della loro vita, ignari, inconsapevoli anche di cosa il tempo sia,
l’uomo, come afferma M. Zambrano, scopre invece il tempo, prende coscienza del fatto che la vita è
tempo, anzi, che esso ne costituisce l’essenza, ed è come il ‘fondo permanente di tutto ciò che viviamo’
E da qui, da questo fondo, alla coscienza della morte.
Ma se è solo in momenti di angoscia, di vuoto, di perdita, che l’uomo scopre il tempo, il senso del tempo,
niente più della consapevolezza dolorosa della propria precarietà e vulnerabilità, che sono segno e anticipo
di morte, ha il potere di condurlo alla scoperta di tale realtà estrema ed ultima; scoprendo il tempo e
scoprendosi come tempo, egli si scopre finito, scopre che il suo destino temporale è, appunto la morte.
E proprio in virtù del fatto che sa di dover morire, che l’uomo è il solo che progetta l’esistenza e si progetta
nell’esistenza, nel tempo del proprio esser-ci, tempo che, per Heidegger, è scandito dalla Cura, dalla quale
dipende la possibilità per l’uomo di farsi forma e farsi forma, dando forma al tempo del proprio esistere:
senza la consapevolezza del limite, del termine, nessun senso avrebbe il progetto e la vita sarebbe, anche
per l’uomo, un mero trascorrere (come lo è per gli animali), un’erranza eterna ed infinita vuota di forma e
di senso.
Riprende la critica alla tecnologia tipica della nostra età moderna..
Non v’è da meravigliarsi, dunque, che l’uomo d’oggi sperimenti così spesso la vacuità delle occupazioni,
l’inutilità delle ‘distrazioni’, che viva prevalentemente immerso nel mondo inautentico e banale della
‘’chiacchera’’, e che il suo vivere sia caratterizzato dalla fretta, dall’irrequietezza, dalla corsa al successo, al
denaro, al consumo, da un vagare impressionistico da un’esperienza a un’altra, che quasi nulla lascia dietro
di sé, e soprattutto non lasciano spazio a quello ‘spaesamento’, a quel distacco dalle cure quotidiane del
vivere, che favorisce il pensiero critico e meditativo e la riflessione sulla condizione umana e soprattutto
sull’umana finitudine.
GADAMER – Dove si nasconde la salute: contrapposizione tra salute e malattia (discorso di antropologia
medica) si effettua il paragone stesso per il pensiero e l’esperienza della morte, di cui assai spesso si è
inconsapevoli (come per la salute), se ne avverte la presenza inquietante solo come un’eco lontana, una
cove sommersa e soffocata, ‘come una musica conosciuta, di sottofondo che risuona dentro di noi in modo
flebile, quasi impercettibile’, e in ciò consiste quella che lo stesso Gadamer definisce il carattere ovvio
dell’esistenza umana e della sua fine, finché, con l’irrompere impetuoso di qualcosa come un lutto, un
dolore, una malattia, che della morte sono annuncio e sintomo, essa risorge e risuona in tutta la sua
potenza fino a togliere il respiro.
Occorre dunque in primo luogo riconoscere il carattere di mistero della morte e del morire perché solo 26
Promessi a una forma
questa consapevolezza del limite del nostro conoscere, soprattutto di ciò che comunemente chiamiamo
conoscenza, apre alla possibilità di capire, apre ad un pensare, che è radicamento nella vita, con le sue
passioni e le sue tenebre, poiché in essa ha la sua ragione e la sua origine, più che dalla sradicata purezza di
un pensiero, privo di libertà, un pensiero pensante, delle domande radicali, che sia in grado di
comprenderla e dirla, in ciò che in essa vi è di dicibile. Il mistero della morte diviene, infatti, il mistero
stesso della vita, poiché ad essa è vincolata al punto tale che ci appartiene più della vita stessa: la nascita
può essere casuale, la morte è certa.
Così interrogarsi sulla morte significa interrogarsi sulla vita e sull’esistenza umane, anzi, sull’essenza stessa
del senso dell’esistere, ma la ricerca di questo senso non si esaurisce mai in una pura attività conoscitiva
ottenuta attraverso l’intelletto e la mera ragione, esso sfugge, infatti ad ogni determinazione concettuale.
Se è vero che caratteristica fondamentale dell’uomo è il suo essere vulnerabile, esposto e a rischio e
proprio per questo, ha bisogno della cura, che salva e custodisce le potenzialità umane, rendendone
possibile la realizzazione e quindi ha bisogno dell’altro uomo che si rapporti a lui, che sporga verso di lui,
allora, la morte, proprio come espressione di massima vulnerabilità, è la realtà che più di ogni altra
contribuisce a determinarne la cifra e diviene luogo privilegiato per comprendere fino in fondo che cosa
significhi essere uomini e quale sia, appunto il senso del nostro essere al mondo nella finitudine, nella
precarietà, nel continuo essere esposti al rischio di perderci.
L’uomo di oggi, figlio della crisi e del disincanto, vive perlopiù ripiegato in se stesso, nel suo narcisismo
autoreferenziale, tendenzialmente indifferente, incapace di relazioni autentiche, improntate alla reciprocità
e alla condivisione, incurante dei destini del mondo, ma anche un uomo massificato, omologato,
prigioniero del conformismo e così, pur avvertendo, magari in sordina, proprio come quella musica in
sottofondo cui allude Gadamer e senza saper dare loro un nome, il malessere, l’angoscia, l’orrore, la paura,
l’impotenza, che la morte evoca, vive, però perlopiù, nell’inconsapevolezza, vive come anestetizzato
rispetto al problema della morte, senza riuscire a vederne l’intreccio indissolubile con la vita, che proprio da
esso prende senso. Vive nel presente, in un vuoto di tempo che rompe la diacronicità della vita e vive come
se fosse eterno, complici anche i progressi della medicina e le condizioni di vita che sempre di più
allontanano il momento della fine e sembrano quasi promettere questa eternità, vive nel mito dell’eterna
giovinezza e nel terrore di mostrare i segni di declino fisico che l’età che avanza inevitabilmente mostra ed
è continuamente alla ricerca di una felicità fittizia, evanescente, ottenuta al di fuori da quella cura di sé che
dovrebbe invece dirigersi verso la ricerca dell’autenticità, della propria autorealizzazione.
Ma ad essere colpevolmente implicata nel processo di rimozione della morte è, spesso, la stessa CULTURA,
ce a questo riguardo, si è mostrata sempre più ‘’remissiva’’, rispetto a quel sistema – sociale, politico,
economico – che induce a perseguire tutto ciò che rappresenta una distrazione rispetto alla riflessione e al
pensiero critico, venendo meno, così al suo compito primario che è quello di essere, non solo espressione,
ma, soprattutto, coscienza critica di tale sistema. Solo ricollocando la morte nell’ambito della cultura, anzi,
è solo la consapevolezza che la tematizzazione della morte costituisce la chiave di volta di ogni cultura
degna di questo nome, che essa, può divenire principio di comprensione del mondo e dell’uomo ed
elemento propulsore della sua formazione.
E se è grave la latitanza della cultura in generale rispetto al tema della morte, alla sua incapacità o
mancanza di volontà e coraggio i fare di essa problema e di affrontalo criticamente, ancor più grave è il
silenzio quasi totale da parte della PEDAGOGIA, un silenzio rotto da qualche rara voce, perlopiù inascoltata
e considerata inopportuna e scandalosa, rimossa anche essa, perché dire la morte, pensarla, assumersene
la responsabilità a livello di educazione e di formazione (si pensi solo al bambino di fronte alle domande
sulla morte), richiede un coraggio che l’attuale pedagogia non ha e non vuole avere, perché pensare la
morte, cercare di dire il dicibile su di essa ma, soprattutto, farsene carico come pedagogisti, come
educatori, significa aprire scenari ed orizzonti pericolosamente infidi. Così, crede di colmare quel vuoto
autocomprendendosi come sapere tecnico volto a produrre tecnologie didattiche, apparentemente neutro
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Promessi a una forma
e, sovente, vuoto di pensiero critico; nella migliore delle ipotesi preferisce rifugiarsi nella ricerca di valori
educativi universali, non sempre dimensionati alla condizione umana e quindi destinati a sfociare nel
moralismo astratto, in un teoreticismo incurante del fatto che ogni uomo è unico e irripetibile e che
l’oggetto della pedagogia non è l’uomo in generale, ma l’uomo concreto, carnale, situato, radicato nella
vita.
Il dominio della tecnica, che pure produce anche risultati utili, si è insinuato prepotentemente nel modo
della formazione, in forma di tecnologia didattica, volta a potenziare insegnamento ed apprendimento a
livello prevalentemente scolastico, ma il problema nasce quando pretende di risolversi in essa, quando i
contenuti di tale apprendimento diventano quasi ininfluenti, certamente non sorvegliati e ancor meno
sorretti dal pensiero critico, con il risultato che rischian