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PAOLO VI E L'APPLICAZIONE DELLA RIFORMA CONCILIARE (19661971)
1. Sensus Ecclesiae
1.1 Sentire con la Chiesa
Poco prima della chiusura del Concilio, Paolo VI tenne, il 7 maggio 1965, un discorso ai Gesuiti riuniti per la 31°
Congregazione generale. Il papa affidò loro il compito di contrastare l'ateismo moderno nelle sue varie forme.
Bartolomeo Sorge, commentando tale discorso ha parlato di “ateismo culturale”, “ateismo pratico” e “ateismo delle
strutture di peccato”. Era questa la visione che papa Montini aveva del contesto storico in cui il Concilio
concludeva i suoi lavori e delle principali sfide che si ponevano alla Chiesa cattolica.
Alla prima sfida si doveva rispondere con un dialogo nella verità che, attraverso formulazioni più moderne,
rendesse comprensibile il dogma all'uomo contemporaneo, immerso nell'ateismo culturale. Il papa sentiva di dover
lavorare perchè l'aggiornamento conciliare fosse reale, ma senza snaturare il “deposito della fede”. Alla seconda
sfida, quella dell'ateismo pratico, si doveva rispondere con un modo nuovo e più autentico di essere Chiesa, con una
riforma interiore e spirituale. La terza sfida, quella dell'ateismo delle strutture di peccato, doveva portare tutta la
Chiesa ad un vissuto che realizzasse l'altro segno messianico: l'annuncio della Buona Novella ai poveri e perciò la
giustizia e la pace. Questo l'insieme di problemi che caratterizzò il pontificato montiniano dal 1966 al 1971.
Poteva sembrare che le sfide configurassero una difficoltà crescente. In realtà fu il contrario. E Paolo VI sentì
come impegno più gravoso la vigilanza sulla dottrina: vi era in lui un residuale orizzonte di cristianità, che gli
faceva credere che la maggioranza degli uomini e delle donne, nei Paesi cristiani, conservassero una fede salda, da
sviluppare. In questo senso, l'aggiornamento poteva vedersi come un'opera che si poteva compiere una volta per
tutte, attraverso una nuova sintesi adeguata al moderno: questa uova sintesi era il magistero conciliare. Gli eventi
mostrarono invece come ogni sintesi si rivelasse debole e che l'insegnamento del Concilio non dovesse intendersi
come un sistema, ma come un metodo.
Vi era sempre, in realtà, nell'animo di Paolo VI, la speranza di una fioritura sociale cristiana, di un mondo
veramente rinnovato evangelicamente e più giusto, attraverso l'opera delle comunità cristiane: un'opera silenziosa,
umile, paziente, piccola ma diffusa dappertutto. Era la piccola via che si ispirava a de Foucauld e che, nella
povertà, raggiungeva le fabbriche e le officine, i quartieri popolari e i villaggi rurali con una presenza mistica.
L turbine della riforma postconciliare travolse questa “piccola via” dell'umiltà e la sua possibilità di fiorire e
imprimere la sua forma alla Chiesa universale. Essa sarebbe, tuttavia, riemersa nell'ultima fase del pontificato.
In ogni caso, la via dell'umiltà come anima spirituale del sensus Ecclesiae, implicava l'umiltà dei fedeli ma anche
dei Pastori, non solo sul piano personale ma nell'intrinseco legame tra ministero e magistero. Ciò rendeva necessario
lo sforzo, da parte dei Pastori, di tenere insieme gli sviluppi della ricerca teologica alta e la sensibilità media dei
fedeli. Questo era richiesto in particolare al papa: non solo una mediazione tra vescovi tradizionalisti o
conservatori e vescovi progressisti o innovatori, in funzione dell'unità della chiesa; non tanto un'attenzione
rispettosa al peso della ex minoranza conciliare, per arginarla e contenerla; quanto una vera mediazione della
valida ricerca teologica con i sentimenti e stati d'animo dei semplici fedeli. Paolo VI mirò ad una sintesi attraverso
una dimensione pastorale del ministero petrino: ciò si rivelò parziale e non sufficiente. Sta qui la debolezza del
pontificato di Paolo VI nei primi, decisivi, anni del postconcilio. Fu una debolezza comunque solo parziale.
Gli anni del postconcilio di Paolo VI furono anni di grandissima creatività teologica. Si condensarono, in quegli
anni, opere teologiche cattoliche fondamentali e di grande spessore, accompagnante da una fitta pubblicistica di
dibattito teologico, in grado di intercettare vasti pubblici di lettori e di entrare nella vita di base della chiesa
cattolica e nella formazione di tanti laici. Basti citare la rivista “concilium” fondata nel 1965.
Si aprirono molti scenari di ricerca, metodi nuovi, cantieri di approfondimento teologico ma prima esplorati. È
necessario tener conto del più grande evento storico rappresentato da questo straordinario sviluppo: che,dopo Paolo
VI , si sarebbe progressivamente spento o sarebbe stato condannato e combattuto da Roma.
La debolezza del postconcilio di Montini fu fu determinata da un eccessivo temporeggiamento e dall'oggettivo
ritardo di alcune scelte. Anche dopo la riforma del Sant'Officio con la Integrae servandae, i teologi di riferimento
della nuova congregazione per la dottrina della fede erano tutti ancora delle vecchie scuole e attestati sulle
posizioni romane preconciliari. L'Università Lateranense rimaneva ancora il centro culturale ispiratore e
sostenitore delle tendenze tradizionaliste.
Tali tendenze prevalevano anche nell'organo incaricato delle decisioni nell'ex Sant'Officio, cioè l'assemblea plenaria
dei cardinali. A dominare era sempre il prefetto Ottaviani e, anche dopo il suo ritiro nel 1968, la sua influenza fu
ancora determinante nella scelta degli apparati e dei consultori. Non era poi chiara la distinzione delle competenze
tra Congregazione romana e le commissioni delle Conferenze episcopali che si occupavano di fede e dottrina. Non
era stabilita una procedura nitida e obbligatoria per gli interventi di ammonizione dei teologi, da parte della
congregazione, in modo da limitare tali interventi alle questioni teologiche di ordine dottrinale. La commissione
teologica internazionale fu istituita l'11 aprile 1969, quando oramai si erano prodotte molte distonie. Tra i vari
casi, fu eclatante quello di mons. Ivan Illich (direttore del Centro Intercultural de documentacion di Cuernavaca e
noto intellettuale, storico e pedagogista), convocato dalla congregazione per la Dottrina della fede nel giugno 1968
per una contestazione inquisitoriale che si esprimeva in una lunga lista di quesiti. La commissione teologica
internazionale aveva un suo Statuto provvisorio, approvato da Paolo VI il 12 luglio 1969, che la poneva presso la
congregazione per la dottrina della fede, con il compito di prestare aiuto non solo alla congregazione ma alla stessa
Santa Sede, cioè al papa, nel vagliare le questioni dottrinali di maggiore importanza.
Il dibattito teologico fu il decisivo scenario di fondo delle vicende ecclesiali cattoliche di quegli anni e dello stesso
intrecciarsi di sentimenti e opzioni pastorali contrastanti.
Si apriva il vasto campo dell'attuazione del Concilio Vaticano II. Che metodo si sarebbe usato? C'era il rischio di
un'attuazione preconciliare del Concilio: tutta guidata da Roma. Non si poteva però immaginare, neppure, un
decentramento tale da affidare totalmente il Concilio alle chiese locali.
La via intrapresa da Paolo VI fu quella di una stretta dialettica tra strumenti a servizio dell'attuazione unitaria
della riforma, predisposti dal centro ma con la partecipazione dalla base, e relazioni personali con le chiese locali.
Tali relazioni si sviluppano attraverso il Sinodo e le visite reciproche ma corroborate dai contatti delle
congregazioni romani e della diplomazia pontificia (che doveva passare da una funzione istituzionale
amministrativa ad una più pastorale) con le conferenze episcopali nazionali, con le singole diocesi me anche con i
fedeli.
La chiesa cattolica universale che stava davanti a Paolo VI non era una societas perfecta in tutto e dappertutto
uguale,monocromatica e uniforme, così che si potesse ipotizzare un'attuazione conciliare sincronica e all'unisono. Si
potevano invece, distinguere 4 aree differenti.
La prima è quella dei Paesi al Nord Atlantico ( Belgio, Olanda, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania e
Austria) che si potevano immaginare già pronti alla riforma e tali da non richiedere particolari attenzioni: in realtà
erano Paesi in cui la riforma conciliare giungeva quasi in ritardo e il protrarsi della Chiesa totalitaria aveva già
provocato danni, problemi e indebolimenti strutturali.
La seconda area è quella barocca ( Italia, Spagna, Portogallo, America Latina), in cui a un episcopato
conservatore e tridentino corrispondeva una massa di fedeli tenuta in posizione di minorità obbediente, con un
forte analfabetismo religioso. Erano paesi monoconfessionali e in situazione di cristianità, ma in rapido
mutamento sociale e culturale, con evidenti segnali di nuove ed emergenti difficoltà per la chiesa. Poiché la
maggioranza dei cattolici si trovava proprio in questi paesi, in essi, più di tutti, si giocavano le sorti vere del
Vaticano II sul piano storico generale.
La terza area era quella delle “chiese del silenzio”, cioè di quelle chiese che vivevano in paesi a regime comunista. I
problemi delle dinamiche conciliari più che inesistenti erano compressi dalle persecuzioni che erano attuate dai
regimi totalitari e dal loro ateismo di stato. Ne derivava uno spettro diversificato di difficoltà che andavano dalla
chiesa polacca, la più forte e radicata, alla chiesa cinese, di cui non si sapeva quasi nulla e che era spaccata tra la
chiesa clandestina fedele a Roma e la chiesa patriottica, asservita al regime.
Infine vi era la quarta area, quella delle nuove chiese dell'Africa e dell'Asia, in situazione di minoranza e che
vivevano il passaggio della decolonizzazione.
Alle diversità geografiche si devono aggiungere le differenze ideali e di indirizzo, compresenti in quasi tutti i Paesi,
pur con diversi dosaggi. Il monolitismo ecclesiastico della chiesa totalitaria, veniva superato in una diversità di
posizioni e di atteggiamenti verso la riforma voluta dal Vaticano II.
1.2 Fughe in avanti e gattopardismi
Paolo VI si mosse in modo diverso verso le varie aree del cattolicesimo contemporaneo.
Sul piano della delineazione di uno schema conciliare adeguato, l'area più difficile da inquadrare fu la Chiesa
dell'Est. Paolo VI sostenne antitotalitarismo e l'anticomunismo.
Ma la via principale fu un aggiornamento dell'azione di Pio XI verso i totalitarismi: avviare una
diplomatizzazione dei rapporti, per proteggere le comunità cattoliche locali. Montini decise di sviluppare e di
strutturare con metodica consapevolezza una diversa strategia, già inizialmente avviata da Giovanni XXIII nel
1963, confermata da Paolo VI e da lui ratificata il 12 settembre 1965 nel contesto delle catacombe di Domitilla.
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