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TORNIAMO ALL’ASSESSMENT TERAPEUTICO
Abbiamo visto lo schema con la suddivisione tra tradizionale e terapeutico, che è una divisione non pratica
ma di mentalità e di epistemologia di fondo, entrambe fondamentalmente fanno la stessa cosa:
somministrano i test ma con obiettivi e modalità diverse anche se con standardizzazione identica, da una
parte c’è chi non intende l’assessment solo come una raccolta di informazioni svolta ad avere un giudizio
esterno della persona ma considera la situazione testistica una situazione relazionale che già attiva dei
cambiamenti. All’interno di questo ci sono terapeuti o testisti che condividono dall’inizio alla fine il
processo di valutazione e altri invece che lo decidono più rigidamente a priori, e all’interno dell’assessment
collaborativo che è quello che noi percorriamo troviamo quello più strutturato e meno strutturato. Quello
meno strutturato è quello che segue un po’ l’evoluzione della relazione col paziente e non ha delle fasi
prestabilite. Semi strutturate significa che ha già in mente una procedura, uno schema di processo da
seguire, poi eventualmente lo può cambiare.
Tutto questo discorso sull’assessment si trova nel libro di Finn
Quindi abbiamo visti gli obiettivi dei due diversi assessment, la differenza più rilevante sta negli obiettivi,
anche nel terapeutico l’obiettivo è la diagnosi ma se noi abbiamo una teoria della mente diversa non
faremo piu una diagnosi prettamente individuale e del disturbo, della personalità, della patologia ma la
intenderemo come una diagnosi della relazione perché è quello che noi vediamo e sperimentiamo della
persona ed è quello che lei sperimenta di noi, noi sperimentiamo relazioni, il concetto di io separato dal
contesto è un concetto più filosofico che reale, siamo qualcuno perché siamo in relazione sempre e
continuamente con il contesto, con la nostra esperienza passata etc. L’aggiunta è che vogliamo far
diventare questa esperienza una esperienza che attivi cambiamento, in questa teoria della mente non è un
cambiamento performativo ma è un attivare un contesto dove si favorisca il cambiamento che arriva dalla
persona che lo può produrre cioè il soggetto stesso.
L’idea che Finn scrive nel libro è che i testisti siano persone che fanno più fatica a stare in una relazione
terapeutica e quindi si affidano a un mezzo tecnico ritenuto più tutelante della loro soggetività. Quindi Finn
dice che dobbiamo smetterla di prenderci in giro, e renderci conto che ogni volta che somministriamo un
test a qualcuno si tratta di un evento interpersonale che ha un impatto su quella persona nel bene o nel
male, talvolta lo vogliamo ignorare per semplificare il nostro lavoro in modo da poter somministrare piu
test ma ogni volta non riconosciamo che il nostro lavoro non è un prelievo di sangue, e diamo quindi un
messaggio sbagliato su quello che è il nostro lavoro.
Inoltre abbiamo detto che nell’assessment terapeutico cambia la posizione che noi affidiamo alla persona,
questo perché noi abbiamo un’idea della relazione, una teoria della relazione, quindi agiamo in modo tale
da costruire una relazione diversa. Se non abbiamo una teoria della mente come teoria della relazione
come modo di stare in relazione con gli altri non ci pensiamo a questa cosa, quindi la scelta di coinvolgere la
persona in tutte le fasi è dettata da una scelta teorica, da un posizionamento teorico. Quindi li
coinvolgiamo fin dall’inizio nello stabilire gli obiettivi di questa esperienza che ci poniamo, e vedremo come.
Li coinvolgiamo nell’osservare se stessi già durante il test. Li coinvolgiamo nel discutere il significato del test
che non è più una cosa che appartiene solo al tecnico e che conosce solo il tecnico ma è un’esperienza di
cui è esperto anche e soprattutto il pz. Li coinvolgiamo anche nel tentare delle soluzione ai problemi che
portano perché di solito vengono con una delega completa rispetto a quale sarà il modo con cui risolvere i
problemi e chi è il miglior esperto di se stesso se non il pz stesso? Li coinvolgiamo nel preparare i resoconti,
non faremo più relazioni asettiche come se fosse una persona sconosciuta, ma faremo relazioni più
concrete e più dirette alla persona che le utilizzerà cioè il pz. Vedremo esempi. Infine coinvolgeremo la
persona nel distribuire le informazioni, non siamo solo noi che contattiamo l’inviante o il committente, il
comune la scuola il giudice etc, ma possiamo anche pensare che la persona possa esprimere il suo consenso
o dissenso rispetto a quello che noi abbiamo steso nella relazione, possiamo anche mettere la sua posizione
nella relazione, scrivendo magari che non è d’accordo su qualcosa anche se se lo facciamo bene è difficile
che arriviamo a un dissenso perché dovremmo aver costruito insieme passo passo una collaborazione attiva
nell avere una visione condivisa, e poi li coinvolgeremo nel riferirli all’inviante quando possibile.
Finn ha elaborato una sequenza di 6 fasi dell’assessment semi strutturate, che possono corrispondere a 6
sedute ma anche a piu sedute:
1. Una seduta iniziale
2. Una seduta di raccolta dei test standardizzati, uguale per tutti, si somministrano secondo standard
3. Una seduta di intervento
4. Una seduta di discussione e riepilogo di quanto emerso nella fase precedente, non si parla più di
relazione finale o di restituzione, ma discussione e riepilogo perché abbiamo cambiato
epistemologia
5. L’invio di una lettera di riepilogo dei risultati al cliente e discutere con lui dei risultati, non tutti lo
fanno, molti individuano nella restituzione scritta un potenziale negativo di fraintendimento e di
pericolo, evitano per esempio di restituire risultati ritenuti incoerenti con la relazione terapeutica
che si sta vivendo, oppure con la domanda, altri invece restituiscono oralmente ma non scritto. Non
dare niente, neppure un restituzione orale, significa impostare la relazione in un certo modo in cui
il paziente non ha bisogno di ricevere delle informazioni che sono ad uso e fine unicamente del
terapeuta o dell’inviante o del committente.
6. Seduta di follow-up, la persona tornata alla sua vita cerca di mettere in atto i cambiamenti e un
domani può tornare a vedere come le cose sono andate dato che era un rapporto di collaborazione
Non è possibile comunque non prendere posizione su queste cose, è il discorso di prima, uno può prendere
la prassi consolidata in un istituto di tipo ospedaliero e metterla in atto perché tutti hanno fatto così, ma
uno può anche dire “non è proprio quello che vorrei fare forse”, quindi prendere posizione è inevitabile ad
ogni passaggio
Domanda: ma se il pz è il massimo esperto di se stesso perché non sa già qual è la soluzione ai suoi
problemi? Innanzitutto il pz è massimo esperto di se stesso ma soprattutto del suo disagio, del suo
problema che conosce benissimo e sente ogni giorno. Dobbiamo avere una teoria della mente che ci
permetta di capire perché non riusciamo a connettere le informazioni di cui disponiamo in maniera
ottimale per uscire dalla situazione disfunzionale. Quindi sottolineiamo il fatto che le informazioni che
servono per uscire da quella situazione io le ho già, non è che lo psicologo dall’esterno capisce ciò che il pz
non vede e non capisce, piuttosto vede le stesse cose che lui gli racconta, che gli fa vivere nella relazione
terapeutica, e grazie alla relazione, cioè all’incontro con un punto di vista diverso, a una teoria della
relazione diversa, si possono mettere insieme le cose di cui il pz già dispone in maniera già diversa in modo
che si esca da quella situazione disfunzionale, e che il pz ricolleghi simbolicamente (simbolo significa
mettere insieme le cose) in maniera diversa da quella con cui mette insieme le cose continuamente, darsi
una spiegazione diversa, una narrazione diversa, ma io gli elementi della narrazione li ho già e li vivo tutti i
giorni sulla mia pelle ma devo costruire grazie all’incontro con una diversità una narrazione diversa che mi
permetta di uscire da una certa situazione disfunzionale.
1. ANALISI DELLA DOMANDA
L’iter per i malati di oncologia
La prima cosa è guardare la domanda. Da chi arriva la domanda? Arriva dal medico prima di tutto. La prima
relazione da analizzare è quella col medico. Può esserci di tutto in quella domanda, il fatto che vede la
persona soffrire, può essere che la persona ha chiesto di andare dallo psicologo, può essere che la persona
sofferente crea un problema non alla persona in sé ma al reparto. Quindi prima di tutto si analizza la
domanda. In questo caso utente e committente non sono nella stessa posizione, quindi bisognerebbe
ricongiungere le due cose e almeno sgombrare il campo che il vero motivo dell’intervento non sia la
persona ma il committente stesso che delega ad altri la domanda.
Dopo aver fatto questo lavoro col committente si può anche vedere la persona, ma in ottica di questo tipo
non diamo per scontato che la persona abbia bisogno di noi e del cosiddetto supporto in questo momento
della sua vita, è una cosa che poniamo come possibilità. In questa prima fase l’obiettivo è definire la
persona come quella che è legittimata a porre domande, come quella che è legittimata a capire qualcosa di
se. Non abbiamo nessun potere e legittimazione di definire a priori se una persona ha bisogno di supporto
o di altro, possiamo solo chiedere e offrire delle possibilità ma se non vengono accolte è più un nostro
bisogno quello di intervenire.
IN GENERALE uscendo dal contesto oncologico, io non posso iniziare un’assessment collaborativo
terapeutico senza chiedere alla persona cosa lui vuole conoscere di se stesso. Il passaggio dal chiedere una
trasformazione di sé al voler conoscere è già un’evoluzione dal punto di vista mentale. Di solito vengono
per chiedere “mi tolga questo sintomo”, “mi cambi questa cosa”. Quando noi rimettiamo al paziente il fatto
che è lui che deve dire che cosa rivedere che cosa non va nella sua vita, già cambiamo la posizione del
paziente e già poniamo che l’obiettivo non è primariamente cambiare le cose ma attivare una conoscenza,
cioè iniziamo a vedere che cosa possiamo capire insieme, che cosa LUI vuole capire. Questa è la prima fase,
le sedute di contrattazione: dove si costruisce una relazione col paziente diversa da quella che di solito il
paziente ci pone. Già qui si attiva una competenza, cioè è il paziente che si deve attivare per capire se
stesso, deve definire cosa vuole vedere