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La perfezione è raggiunta soltanto quando la coppia è equilibrata ed organica rispetto alla società,
in armonia al suo interno (alla fine delle 8 prove) e al suo esterno (dopo l’ultima prova, una trasposizione allegorica
delle seduzioni sensuali che fanno dimenticare i doveri sociali, dove lampanti sono le analogie tra la prigionia d’amore
di Maboagrain e il dorato isolamento di Erec dopo le nozze, e il cavaliere sconfitto diviene una personificazione
dell’amore irrazionale, chiuso in un egoistico piacere dei sensi, superato dall’amore nobile e razionale al servizio degli
altri).
“Ma tanto amore Erec provava per Enide, che non gli importava delle armi e non andava ai tornei, e non trovava altro
piacere all’infuori di lei. I compagni ne erano rattristati, spesso si lamentavano del fatto ch’egli l’amasse
eccessivamente.
Ben mi dovrebbe risucchiare la terra, perché il migliore di tutti i cavalieri ha completamente rinunciato alla cavalleria
a causa mia. Dunque sono proprio io che l’ho disonorato; per nulla al mondo l’avrei voluto!”
Cligés
Il suo secondo romanzo conservato si apre con l’elenco delle sue opere precedenti, come una sorta di biglietto da visita,
che spazia dall’Erec et Enide a volgarizzamenti dell’Ars Amandi di Ovidio, reinterpretata in chiave moralistica cristiana
come una condanna dell’amore carnale, uniti ad una rivisitazione della recentissima materia Tristaniana in un’opera
purtroppo andata perduta, la Storia del re Marco e d’Isotta la Bionda.
Mai come in questo caso, simili nozioni si riveleranno utili per ricondurre il romanzo alle tre categorie di matiere,
conjointure e sen codificate dallo stesso Chrétien.
Cligés è figlio di Alessandro, erede al trono imperiale di Costantinopoli ed armato cavaliere da re Artù; a causa della
falsa notizia della morte di Alessandro, suo fratello Alis ha usurpato il trono e chiesto in sposa Fenice (simbolico il
nome), figlia dell’imperatore tedesco, senza sapere che ella aveva già concesso il suo amore al valoroso Cligés.
Costretta alle nozze con il nuovo, illegittimo imperatore, Fenice è dibattuta tra i suoi obblighi coniugali e i veri desideri
del proprio cuore: per non corrompere il suo onore giacendo con Alis, berrà una pozione magica preparata dalla fedele
ancella Tessala, che farà credere al consorte di avere accanto a sé nel talamo la moglie.
Una successiva pozione aiuterà i due amanti a coronare il loro sogno d’amore, senza macchiarsi della colpa di
tradimento e di adulterio: Fenice beve un filtro che le provocherà una morte apparente, e viene sepolta in una torre
fatata dove si ricongiunge con Cligés. Dopo esser stati scoperti, i due saranno tuttavia costrettia fuggire in Bretagna
presso la corte di Artù, il quale si impegna ad allestire un esercito per punire Alis, nel frattempo morto però di rabbia per
esser stato raggirato. Cligés può così tornare in patria ed essere legittimamente proclamato imperatore di Costantinopoli,
a fianco della sua amata Fenice.
Più complesso e più macchinoso dal punto di vista strutturale, il romanzo innesta l’avventura sull’impianto del romanzo
dinastico (si apre con un flashback che racconta la storia della sua famiglia), moltiplica i luoghi dell’intreccio
(dall’Oriente bizantino alla Bretagna della Tavola Rotonda, passando per la Germania dei grandi feudatari),
problematizza le relazioni e la psicologia dei personaggi, creando un triangolo alla maniera Tristaniana, allargato alla
figura della nutrice/aiutante benevola.
Il Cligés è stato definito come un Anti-Tristan o un Neo-Tristan; in effetti, di fronte all’attuazione negata del loro amore,
i comportamenti e le risoluzioni dei persoaggi sono speculari: Fenice, a differenza di Isotta, non si concede a due
uomini (“Non potrò mai adattarmi alla vita che condusse Isotta, poiché il suo cuore fu tutto di un uomo, e il suo corpo
di due proprietari. Giammai il mio corpo si prostituirà, e mai ci saranno due beneficiari”), ma si conserva per il solo
che veramente ama, non rendendosi dunque colpevole d’infedeltà, tradimento e slealtà, e liberandosi dai vincoli
dell’unione coniugale senza averne, apparentemente, violate le regole.
(“Colui che ha il mio cuore ha anche il mio corpo! Tutti gli altri sono esclusi”)
Ed è proprio la volontà di sottrarsi a un fals’amor e perseguire il vero amore nel pieno rispetto dei nobili valori cristiani
a rendere plausibile, moralmente accettabile, il ricorso alle arti magiche da parte dell’aiutante di lei, non uno ma ben
due filtri; il secondo, non un filtro d’amore che intacca la ragione dei protagonisti, ma un filtro di morte (apparente) che
ne consolida e potenzia le risoluzioni.
Tornando alle tre categorie iniziali, la matiere del romanzo è composita: Chrétien afferma nel prologo di essersi basato
su un “libro molto antico” a noi ignoto, probabile espediente metaletterario introdotto per rafforzare l’autorità della
storia, derivata forse da fonti popolari ed orali.
Originale inoltre la conjointure, che combina diverse componenti geografiche e letterarie dell’epoca in una struttura
organica di marca arturiana. Su tutte, i materiali relativi alla leggenda di Tristano e Isotta (il Cligés sarebbe posteriore al
Tristan di Thomas, ma non forse a quello del Béroul), e credenze celtiche combinate all’innegabile influsso della
“materia antica”, rispecchiata dai nomi dei personaggi.
Il sen del roman è così svelato dalle scelte programmatiche del suo autore: rinnovare i fondamenti della fin’amor, e
rappresentare una nuova etica amoroso-cortese non più liricamente irrealizzabile come quella trobadorica
(non si dimentichi che l’amore cantato dai trovatori è un sentimento adultero),
né illegittimamente realizzata come quella tristaniana,
bensì cavallerescamente praticabile, rispettando la sacralità e l’onorabilità dell’unione coniugale
(tra l’altro, in velata polemica con le politiche dinastiche e matrimoniali dell’epoca).
Yvain o Li Chevaliers au Lion/Il Cavaliere del Leone
Staccandosi dal Cligé, e ristabilendo la centralità della Bretagna come luogo reale e metaforico delle aventures del
protagonista, il romanzo si ricollega idealmente e strutturalmente ad Erec et Enide, rispetto al quale mostra tuttavia uno
sviluppo artistico più maturo.
Racconta di Yvain, ardito cavaliere della Tavola Rotonda che, per vendicare l’onta patita dal cugino, sconfigge lo
storico nemico e ne sposa la vedova Laudine grazie all’aiuto della damigella Lunette.
Dopo le nozze, il compagno d’armi Gauvain/Galvano sprona Yvain a non abbandonare i propri impegni cavallereschi, sì
che i due partono insieme per partecipare a giostre e tornei. Laudine, pur accettando la decisione del marito, gli pone
come condizione di far ritorno entro un anno, pena la perdita del suo amore.
Ma l’eroe dimentica la data fissata, viene abbandonato dalla consorte e, pazzo dal dolore, si isola nella foresta vivendo
come un selvaggio sino a quando viene scoperto dalla dama di Noroison, che lo guarisce con un unguento magico.
Yvain si rimette in forze, difende la sua benefattrice dall’attacco del malvagio conte Alier, ma non acconsente a restare
con lei: fedele a Ladine, si mette in marcia, deciso a compiere tutte le nobili prove possibili per rinsaldare il suo onore e
riconquistare l’amata.
Soccorre un leone (nei bestiari e nell’iconografia medievale, simbolo del Bene) dall’assalto di un serpente (Male),
guadagnandosi la riconoscenza dell’animale, che d’ora in avanti sarà sempre al suo fianco;
salva Lunette ingiustamente condannata a morte;
vince il terribile gigante Arpino della Montagna (personificazione della vulnerabilità della forza ispirata dalla
malvagità); libera alcune operaie schiavizzate, e finalmente viene perdonato da Laudine, ritrovando pace e serenità al
suo fianco.
Consueta la matiere, in un romanzo interamente intessuto di e su temi che appartengono al patrimonio ancestrale
popolare.
Identica la strutturazione tripartita che organizza la conjounture, scomponibile in tre sezioni narrative rispondenti ad una
logica progressiva: una situazione iniziale di felicità provvisoria (matrimonio di Yvain e Laudine) è destabilizzata da un
improvviso fattore di crisi (questa volta, non il distoglimento dalla pratica cavalleresca a causa dell’amore assoluto
verso la consorte, ma l’eccessivo zelo che il protagonista mette nell’evitare le stesse accuse di recreantise finendo col
rompere il patto d’amore/il convant per aver dimenticato la promessa fatta alla moglie), crisi che conduce Yvain alla
follia costringendolo poi all’azione (aventure, missioni) per ristabilire l’equilibrio perduto, questa volta in modalità
definitiva (perdono concesso all’eroe, consacrazione dell’unione coniugale).
A dinamica uguale corrispondono dunque presupposti molto diversi.
Anche Yvain è colpevole di dismisura, ma in senso opposto ad Erec.
Il suo problema non è la voluptas, alla quale non cede, ma l’orgoglio, e la ferita arrecata alla consorte dalla rottura
dell’accordo (assurta a simbolo assoluto del tradimento perpetrato da qualunque fals’amor) dovrà essere sanata
attraverso la solidarietà incondizionata e sincera nei confronti di tutte le donne che dimostreranno di aver bisogno del
suo aiuto.
Il percorso di miglioramento dell’eroe è volto dunque a superare i limiti di una prospettiva individuaistica ed ego-
riferita a vantaggio di un’etica regolata dall’altruismo, al servizio del bene collettivo: Yvain, l’amante che ha umiliato la
sua signora, si trasforma nel paladino delle donne infelici, e il suo trionfo non è solo quello del condottiero vittorioso,
ma è l’apoteosi della rettitudine, che aggiunge un valore morale imprescindibile alla base di ogni impresa cavalleresca,
come sottolineato dal paragone iperbolico con Dio:
“Le prigioniere scarcerate non credo che avrebbero fatto nemmeno a colui che creò il mondo -se fosse disceso in terra-
tanta festa quanta ne fecero ad Yvain”.
Nello stesso percorso di perfezionamento risiede il sens del romanzo, un cammino attraverso il quale il protagonista
giunge infine ad impersonare il campione del sistema ideale di valori del mondo arturiano, consacrando l’unione
indissolubile di cuore e armi, amore e cavalleria.
Lancelot o Li Chevaliers de la Charrete/Il Cavaliere della carretta (1170)
Messo in lavorazione verosimilmente in contemporanea con l’Yvain, non venne portato a termine da Chrétien, che lo
interrupper all’altezza della prigionia di Lancillotto nella torre, affidandone la conclusione a quel Godefroi