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IURISPRUDENTIA

I principali esponenti della giurisprudenza romana, dalle origini fino alla metà del II secolo d.C.,

sono elencati in un lungo frammento del giurista Pomponio presente nel Digesto giustinianeo e

tratto dal Liber singularis enchiridii.

Publio Papirio, Appio Claudio e Sempronio sono ricordati come alcuni tra i più grandi iuris periti.

Dopo di questi, Tiberio Curuncanio fu il primo a dare responsa pubblicamente, infatti prima di lui il

diritto era appannaggio di un collegio sacerdotale che preferiva mantenere la scienza del diritto in

segreto e rispondere solo se consultato, piuttosto che diffonderla ed insegnarla.

Poi vi fu Sesto Elio che scrisse un’opera intitolata “Tripertita” in quanto trattava di tre argomenti

differenti: vi era una trattazione sulla Legge delle XII Tavole, l’interpretatio e una trattazione sulle

legis actiones.

Publio Mucio Scevola, Giunio Bruto e Manio Manilio sono considerati i fondatori dello ius civile

probabilmente perché le loro opere appaiono più varie dal punto di vista dei contenuti, e questo

anche a confronto con l’opera di Sesto Elio, ancora ancorata alla Legge delle XII Tavole.

Publio Mucio Scevola fu autore di scritti di diritto civile e di responsa.  10 libri

Giunio Bruto scrisse libri di diritto civile, di cui alcuni redatti in forma dialogica (dialogo con il

figlio).7 libri Manio Manilio compose 3 libri di diritto civile e una

raccolta di formulari sulla compravendita. 3 libri

Dopo costoro, Quinto Mucio Scevola (figlio di Publio M. Scevola). Egli fu l’ultimo giurista ad unire

l’attività respondente alla carica di Pontefice Massimo. Per primo trattò il diritto civile secondo

classificazioni sistematiche e lo fece in 18 libri: “De iure civili in arte redigendo”.

E’ Pomponio a parlare di sistematizzazione, ma il suo giudizio non è appoggiato da Cicerone che,

al contrario, afferma che l’opera di Quinto M. Scevola non abbia contribuito a fornire chiarezza, ma

che abbia portato, semmai, ancora più dubbi; si incarica, perciò, personalmente di riordinare la

materia utilizzando il metodo logico aristotelico. Nonostante il suo impegno, tuttavia, i giuristi

continuarono a riferirsi all’opera di Quinto M. Scevola.

Tale opera di sistematizzazione, però, riguardò non l’opera nel suo complesso, nell’impianto

d’insieme, bensì le singole materie e i singoli argomenti, trattati al loro interno sulla base di una

tecnica diairetica o divisoria basata sulla divisione in genera e species. Lo si evince dalla

concettualizzazione e semplificazione della varietà delle singole forme giuridiche allora esistenti.

Aquilio Gallo fu allievo di Quinto M. Scevola e, quando fu pretore peregrino, introdusse nel suo

editto l’exceptio e l’actio de dolo, per cui divenne noto. Ma non solo: egli introdusse una importante

innovazione anche in campo privatistico con la stipulatio Aquiliana.

I frammenti di Aquilio Gallo non sono stati riportati nel Digesto, e perciò ne conosciamo il pensiero

solo attraverso citazioni di autori successivi.

Aquilio Gallo fu maestro di Servio Sulpicio Rufo, il quale aveva studiato retorica a Rodi insieme a

Cicerone. Si dedicò al diritto civile in seguito ad una critica rivoltagli da Quinto M. Scevola, che

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diceva che per un patrizio fosse indegno utilizzare l’arte oratoria in giudizio ignorando il diritto, di

cui normalmente si occupava. Scrisse 2 opere monografiche: “De dotibus” e “De sacris

detestandis” e 2 libri “Ad Brutum”. Molti dei suoi frammenti sono riportati nei Digesta di

Alfeno Varo (di cui costituiscono il contenuto essenziale), opera pervenutaci tramite il Digesto

giustinianeo.

Alfeno Varo fu allievo di Servio S. Rufo e, come si diceva sopra, raccolse i suoi responsa nel

proprio Digesto pervenutoci grazie al Digesto giustinianeo e indirettamente, tramite un’epitome di

Paolo e una anonima. Scrisse anche un’opera chiamata “Coniectanea” in 2 libri.

Dal suo Digesto è tratto un caso famosissimo trattato da Servio S. Rufo e relativo all’applicazione

del diritto e, nello specifico, della Lex Aquilia, ad un caso concreto.

La fattispecie è la seguente: sul colle capitolino due mucche trainavano due carri completamente

carichi. I mulattieri del primo carro lo sollevano perché le mule lo possano trainare più

agevolmente, ma il carro inizia a retrocedere e, essendosi i mulattieri spostati, il carro urta il carro

posteriore che, retrocedendo a sua volta, schiaccia uno schiavo.

Il padrone dello schiavo morto ha diritto ad essere risarcito, ma da chi? (N.b.: i giuristi romani

pongono sempre la domanda in termini processuali perché nel diritto romano, a differenza del

diritto moderno, non esistono differenze tra diritto sostanziale e diritto processuale). E’ necessaria,

in tal caso, l’interpretatio della Lex Aquilia, che recitava: “Chi, con il proprio corpo, ha arrecato un

danno ingiusto al corpo di un altro, deve risarcire il danno”. Il giurista, S. Sulpicio Rufo, prima

espone il caso in modo asettico e poi propone tre ipotesi, applicando quindi il metodo diairetico,

perché a circostanze diverse si addicono soluzioni diverse:

• Prima Ipotesi: l’azione deve essere esperita contro i mulattieri del primo carro perché chi

lascia volontariamente andare la cosa che stava sostenendo, cagiona un danno ingiusto. Si

tratta, in tal caso, di un danno iniuria datum, previsto dalla Lex Aquilia e che consiste in un

danno ingiusto che sia un danno corporale, inferto per colpa o dolo.

• Seconda ipotesi: se le mule si sono spaventate per qualcosa e i mulattieri hanno

abbandonato il carro per evitare di essere schiacciati, allora non vi è azione contro di loro,

perché in tal caso il danno non è iniura datum, ma è un danno provocato a causa di una

situazione di necessità e del tutto involontario. Si potrà agire contro il proprietario delle

mule che non le avrà allevate in modo tale da essere impavide come dovrebbero.

• Terza ipotesi: se le mule sono impavide, e quindi dono state allevate correttamente dal loro

proprietario, ma sono semplicemente scivolate a causa del peso del carro, non c’è azione

né contro i mulattieri né contro il proprietario delle mule.

Di tali tre casi Alfeno Varo sceglie come soluzione l’ultima, sostenendo che la morte dello schiavo

sia avvenuta per un caso fortuito. Il padrone dello schiavo morto non avrà azione.

Altro allievo di Servio S. Rufo fu Aulo Ofilio che, vissuto fino all’età augustea, scrisse un

commento all’editto, dei libri di diritto civile e il “De legibus”. Le sue opere non sono state utilizzate

dai compilatori giustinianei.

Tra gli altri giuristi repubblicani, oltre ad Aulo Ofilio, occorre citare:

Trebazio Testa: fu amico di Cicerone e membro del consilium di Cesare. Sotto Augusto rifiutò il

consolato per dare responsi e insegnare. Frammenti dei suoi scritti non sono riportati nei Digesta

ma è spesso citato dagli autori successivi.

Aulo Cascellio: il suo pensiero è citato da giuristi successivi i cui frammenti sono riportati nel

Digesto giustinianeo, ma i suoi scritti non sono stati utilizzati direttamente dai compilatori.

Elio Tuberone: compose una raccolta di responsa e un’opera “De officio iudicis”. Anche nel suo

caso, il suo pensiero non è riportato direttamente nel Digesto giustinianeo, ma tramite citazioni di

autori successivi. 20

Augusto tentò di stringere legami con i principali rappresentanti della giurisprudenza offrendo loro

cariche pubbliche e concedendo loro il c.d. ius respondendi ex auctoritate principis, ovvero il diritto

di emettere responsa rafforzati dall’auctoritas imperiale.

Con il tempo, però, tale forma di avvicinamento ai giuristi si trasformò, sotto Tiberio, in una vera e

propria forma di controllo: la subordinazione dei giuristi al Princeps fu formalizzata tramite il c.d. ius

publice respondendi, ovvero il diritto di dare responsi in pubblico. Tutti i giuristi che non avessero

tale beneficium potevano dare responsa solo a titolo privato.

Fu Adriano a restituire ai giuristi la loro libertà di respondere indipendentemente da una

concessione imperiale.

Forse a ragioni politiche risale, durante il principato augusteo, la contrapposizione tra Capitone e

Labeone. Labeone è descritto come giurista innovatore autore di opere privatistiche

ben rappresentate nel Digesto. Scrisse un commento all’ editto e alle XII Tavole. Fu fondatore della

Scuola dei Proculiani (Labeone, Nerva, Proculo, Pegaso, Celso padre e Celso figlio, Nerazio

Prisco).

Capitone è individuato da Pomponio come un giurista di stampo conservatore. Favorevole al

potere imperiale, si occupò prevalentemente di diritto pubblico e sacro (“Coniectanea”; “De iure

pontificio”), ma la sua opera è quasi del tutto sconosciuta. E’ noto per aver fondato la Scuola dei

Sabiniani (Capitone, Sabino, Cassio Longino, Celio Sabino, Giavoleno Prisco, Valente, Tusciano,

Salvio Giuliano), probabilmente come risposta degli ambienti filo-augustei alla previa istituzione di

una scuola da parte del reazionario Labeone.

Probabilmente ciò che diversificava queste due scholae o sectae non erano i metodi o gli interessi,

ma le personalità dei due fondatori, tanto è vero che persero presto, se mai effettivamente lo

ebbero, il loro connotato politico.

A partire dall’età adrianea, il consilium principis, nato sotto Claudio come gruppo informale di amici

consultabile dal princeps nelle sue decisioni, sul modello dei consilia dei magistrati, venne

istituzionalizzato e divenne l’organo di vertice del potere imperiale, cui i giuristi partecipavano in

qualità di funzionari nella redazione delle costituzioni imperiali. Tali giuristi, per poter prendere

parte al consilium, dovevano appartenere alla burocrazia imperiale e dovevano provenire da quei

centri di educazione giuridica che avevano sostituito le scuole intese, più che altro, come circoli

intellettuali. Maestro di una di tali scuole doveva

essere Gaio, autore delle Istitutiones, trattazione elementare scolastica di diritto privato (ritrovata a

Verona nel 1816 da Niebuhr).

Attenzione: elenco testi della giurisprudenza letti a lezione:

- Pag. 272 n. 3, 4

- Pag. 274 n. 8, 10

- Pag. 277 n. 15

- Pag. 282 n. 21 (dal paragrafo 2 fino alla fine)  importante

- Pag. 294 n. 43

- Pag. 303 n. 58

- Pag. 334 n. 114 21

- Pag. 335 n. 116

- Pag. 335 n. 153 (fino al paragrafo 7 escluso)

- Pag. 366 n. 165 (solo i paragrafi 1 e 4)

- Pag. 370 n. 167

LA TRADIZIONE DEI TESTI DELLA GIURISPRUDENZA CLASSICA

DAL III SEC. D.C. A GIUSTINIANO

La giurisprudenza classica si esaurisce nella prima metà del III secolo d.C., momento a partire dal

quale i prudentes vengo

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I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher alessandra.olivestri di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Istituzioni di Diritto romano e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università Cattolica del "Sacro Cuore" o del prof Maganzani Lauretta.