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Infine, in questo quadro ognuno cerca di garantirsi una collocazione che sia non solo fisica, ma
anche culturale, in realtà tutto è talmente caotico e mescolato che persino i ruoli non esprimono più
nulla di sostanziale => svuotamento delle funzioni sociali causato dalla globalizzazione.
Dialogo londostano
Al ritorno da una serata in un locale pakistano (a Londra) con una sua amica, il prof chiamò un taxi
per tornare a casa e fece amicizia col tassista (Tariq, un ragazzo di Lahore che abitava con la sua
famiglia numerosa a Londra per lavoro). Così inizio una vera e propria indagine antropologica sui
pakistani a Londra a partire dalla famiglia di Tariq. Frequentandolo e frequentando la sua famiglia
ne dedusse che:
La famiglia di Tariq cercò di riportare il loro paese d’origine (Lahore) in quel quartiere di
• Londra;
Tariq col Pakistan aveva un legame passionale oltre che ideale con un peso politico
• determinante. Fin tanto che quando nel 2002 il prof lo rincontrò, Tariq aveva subito una sorta
di cambiamento personale: passò da un comportamento occidentale a quello orientale=>
noi ci costruiamo un’idea, una rappresentazione solida che esponiamo della nostra vita e
egli eventi la influenzano;
Mentre i fratelli maggiori di Tariq partecipavano al sistema inglese nonostante fossero nati a
• Lahore, e i fratelli minori si sentivano senza patria essendo nati a Londra, Tariq era l’unico a
non sentirsi per niente inglese;
Dopo l’attentato alle Torri gemelle, pakistani vennero nuovamente trattati male,
• esattamente come all’inizio. Ma non aveva alternative visto che il Pakistan era in una
situazione di corruzione insopportabile;
Hamid scrisse “Il fondamentalista riluttante” in cui racconta che man mano che cresceva e tornava
al suo paese d’origine si accorgeva che aveva sempre più difficoltà a parlare la sua lingua locale.
Poi ci fu la svolta a Londra, quando iniziò a sentire nostalgia del suo passato e ricominciò a studiare
la sua lingua d’origine ed infine decise di ritornare a vivere nel suo paese nativo con la sua famiglia.
In entrambe le storie, entrambi i ragazzi sono tornati al loro paese d’origine. Possiamo quindi
affermare che si è imponderabili nella vita individuale ma a volte riusciamo a trovare una
spiegazione in ciò che succede.
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Egoisti, sfaticati e passionali
Richard Dawkins nel suo libro Il gene egoista insiste sull’importanza di insegnare generosità e
altruismo, cooperazione e partecipazione (attraverso un processo educativo e di una pedagogia)
in quanto qualità “sociali” indispensabili per costruire un possibile sviluppo alternativo per l’umanità.
Come sostiene Freud, i nostri geni hanno come obiettivo principale la sopravvivenza della specie e
le pulsioni ci spingono ad evitare ogni tipo di impegno (per es. lavorativo) e ci istigano a seguire in
primis le nostre passioni. Tuttavia, l’uomo ha trovato un “mezzo” che lo obblighi alla vita sociale e
partecipata: ovvero il rito.
Il rito è un atto istruttivo, performativo (agisce in maniera trasformativa), prestabilito e definito dalla
tradizione che chiude con il passato e si rivolge al futuro. Il rito permette la riproduzione, la
conservazione, il controllo del sistema sociale e della cultura e costituisce la spinta a fare e insegna
il come fare. Il rito ci insegna anche ad essere responsabili e a fare il proprio mestiere sociale di
uomini o di donne.
A proposito del rito, Victor Turner – antropologo scozzese funzionalista, cioè sosteneva che nelle
società ci fosse un continuum in quanto esse si riproducevano grazie agli enti e le istituzioni - condusse
ricerche sul campo presso le popolazioni ndembu dello Zambia, dell'Africa centrale e notò una certa
continuità nella popolazione. I ragazzini vengono trasformati in membri effettivi della tribù e
diventano degli uomini attraverso un rito di passaggio maschile (Mukanda) della durata di 3 mesi.
La creazione rituale di nuovi uomini maschi serve al controllo, alla gestione collettiva e alla
condivisione. Ogni rito inizia sempre con una scelta: ovvero se accettare tramite il rito le regole sociali
implicite di quel sistema o rifiutarle. Il rito della tribù Ndembu iniziava con la separazione dei ragazzi
dalle rispettive famiglie, poi si passava al momento di margine in cui si allontanavano nel bosco. A
questo punto sono formati nel Limen (la zona liminale), qui sono in bilico tra l’essere ragazzini e adulti.
E in questo capanno vengono istruiti (qui vengono a conoscenza del fatto che c’è una fallibilità
nella condizione umana e che bisogna sempre condividere e collaborare). Il rito si conclude con la
circoncisione e la riaggregazione. Al loro rientro, il capogruppo degli iniziandi si rivolge al capo tribù
minacciandolo di essere controllato dai nuovi uomini del villaggio. Ma ciò che da senso alla
conclusione dell’atto rituale è la dichiarazione pubblica ultima e definitiva.
Al termine del rito, quindi, vi è un’accettazione ufficiale anche da parte del resto della comunità:
legame che unisce l’individuo alla comunità permettendo al soggetto di farsi conoscere dagli altri.
Questo processo chiama in causa il concetto di responsabilità che si realizza nei confronti degli altri
i quali convalidano l’impegno preso.
Buber infatti collega il concetto di responsabilità a quello di esperienza: l’esperienza si riferisce ad
azioni che rientrano nella quotidianità e mettono a confronto noi stessi con quanto sta accadendo
nella vita. E dimostra quanto un comportamento sia continuamente coinvolto dall’etica della
responsabilità. In questo quadro, il rito definisce gli ambiti e i limiti per l’azione.
C’è differenza tra la legge e il rito: il rito consiste nel trasformare un sistema educativo da obbligatorio
a desiderabile.
Ciò che permette il funzionamento del rito sono 3 riferimenti essenziali del sistema relazionale:
1. I soggetti sottoposti al rito
2. Gli istruttori che organizzano il rito e che guidano e istruiscono gli iniziandi
3. Pubblico, che ricopre il ruolo di testimone sociale per convalidare l’impegno degli iniziandi
verso l’intera comunità
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Grazie a questa ricerca, Turner è arrivato alla conclusione che il rito da la possibilità di poter costruire
una communitas: uno spazio di incontro in cui avviene un riconoscimento dell’altro e nell’altro e si
fondano scambi e relazioni, in cui si innesca uno scambio dialogico.
Esperienze e dialogo
Nei primi decenni del 900 Walter Benjamin aveva diagnosticato la fine dell’esperienza (sia privata
che umana). Perciò ognuno di noi si affida quasi completamente alla tecnologia che colma questo
vuoto di autorità, ci dice come fare in quanto nessuno ormai ha più l’autorità di farsi esempio e
questo incrementa un senso di impotenza. Con questa povertà di esperienza si crea anche una
nuova forma di barbarie, che servono essenzialmente a cominciare daccapo. Ma non solo: il mondo
non è più conoscenza e sperimentazione, ma solo ripetizione e il fatto che non ci sia nemmeno la
spinta del desiderio collettivo non fa che peggiorare le cose.
La causa di tutto ciò è la mancanza di volontà di mettere alla prova se stessi e il mondo che ci sta
attorno. Bisognerebbe anche guardare il prossimo come una risorsa indispensabile per noi,
bisognerebbe anche comunicare, confrontarsi e riflettere e sottoporre a verifica quanti crediamo di
sapere e quanto ci viene detto. L’esperienza nasce dall’azione, dal fare e dall’intraprendere strade
inedite e quindi per conoscere davvero dovremmo spostarci aldilà del limite di quanto sappiamo.
Essa deriva dalla memoria (come sostiene Aristotele) e quindi si inserisce in un continuum della vita
individuale o della storia. Rispetto al mondo della natura l’uomo è naturalmente disadattato, cioè
non ha sistemi di orientamento predisposti se non l’istinto di conservazione e a fornirgli una bussola è
chi è venuto prima di lui e chi gli è intorno. D’altra parte, l’esperienza conserva in sé anche il germe
della novità e dell’invenzione: essa è un atto di formazione del singolo. Inoltre, l’esperienza riguarda
anche il corpo e la memoria in quanto il nostro corpo, inconsapevolmente, conserva una memoria
di gesti, azioni e comportamenti che assumeremo nella relazione con gli altri.
Tra maschere e cappelli
Hamid sostiene che la globalizzazione è un fenomeno brutale ma in questo caos che crea, noi siamo
più liberi di inventare noi stessi.
L’idea che il mondo si è trasformato in qualcosa di sempre più inconsistente deriva principalmente
dall’epoca del post-tutto. Questa ideologia si ricollega a due concetti: identità e self. Nel 900 a dare
la prima formulazione di self fu William James: il self è tutto ciò che siamo tentati di chiamare col
nome di me […] il Self di un uomo è la somma totale di tutto ciò che egli può chiamare suo […].
Al contrario, per tutto il corso del 900 l’esperienza e la soggettività vengono ignorate (perché non
considerate di competenza scientifica e quindi d’interesse solo psicologico, sociale e filosofico – i
cui padri fondatori furono Freud e Lévi-Strauss). Questo concetto riappare dopo la seconda metà
del 900 (soggettività considerata come esperienza vissuta) e in questo quadro si instaura anche un
punto di contatto tra psicologia e antropologia.
Erving Goffman fu un sociologo americano che nel 1959 pubblicò il libro The Presentation of Self in
Everyday che da noi venne trasformato in La vita quotidiana come rappresentazione, in cui afferma
che nella nostra vita ognuno di noi prende delle parti come nel teatro, infatti, in questo libro utilizza
spesso un linguaggio teatrale. Il Self è considerato un’opera teatrale: la nostra vita è un palcoscenico
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e noi siamo degli attori, ma ad ogni self non siamo persone diverse, siamo sempre noi ma giochiamo
ruoli diversi per ogni relazione.
Secondo Jervis, anche se incarniamo tante parti nella vita quotidiana, in ogni caso l’identità
individuale persiste attraverso tutti questi ruoli e si ritrova ben riconoscibile in ciascuno di essi.
Inoltre, egli sostiene che le azioni non dipendono solo dalle convenzioni culturali, ma anche dalle
caratteristiche interne delle persone e dalla loro soggettività e tutto ciò è collegato alle elaborazioni
dell’esperienza. Il Self riguarda sempre e semplicemente l’intera persona, solo che questa è
considerata da un particolare punto di vista, quello della situazione di interazione che si svolge nel
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