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Anche i fini illeciti hanno una radice costituzionale come l’art. 37 e 3
della Costituzione in materia di discriminazione tra uomo e donna.
La questione è che se l’elenco dell’art. 15 sia tassativo e
esemplificativo. Penalizzare un lavoratore per una ragione non
esplicitamente contemplata nell’art. 15 costituisce discriminazione?
Secondo alcuni è esemplificativo, quindi il datore non può esercitare
i propri poteri per ragioni sia discriminatori ma per nessun’altra
ragione che sia rilevante per l’esecuzione della prestazione.
Poniamo che il datore assuma una lavoratrice per ballare in
discoteca e ha un’incidente e perde un occhio. Il datore la può
licenziare per il suo aspetto fisico? Dipende dal tipo di mansione che
la lavoratrice svolge. Questa ragione potrebbe includere l’art. 15 in
quanto può essere ritenuta una ragione di handicap.
Un lavoratore tifa una certa squadra di calcio, può essere licenziato?
Ci sono certi aspetti del lavoratore che possono o non possono
essere considerati in base alla tipicità o meno delle ragioni
discriminatorie.
In via interpretativa può essere fatto rilievo a ragioni discriminazioni
non presenti nell’art. 15 in quanto è una traduzione dell’art. 2 della
costituzione.
Tutti gli aspetti considerati o meno dall’art. 15 non rilevanti al fine
della prestazione e costituiscano una discriminazione che rendono
l’esercizio del datore sia nullo.
L’unico fine lecito è quello tecnico organizzativo.
L’operazione che i giudici fanno è ritenere le ragioni discriminazioni
tassative ma interpretarle in maniera elastica.
Esempio il licenziamento di una lavoratrice malata di cancro si
assentava oltre quanto permesso dal sistema. Si ha conservazione
del rapporto di lavoro senza attuare la prestazione.
Una volta passato il tempo si può licenziare. Ma questo
licenziamento è legittimo? Secondo il tribunale quando la malattia è
cronica e incurabile la malattia dà luogo ad una situazione di
handicap. Il giudice dilata la nozione di handicap facendo rientrare il
cancro e quindi il licenziamento in questo caso è discriminatorio.
Qui si innesta la legislazione successiva. Prima di tutto le leggi
125/91 poi trasfusa nel 2006 e decreto legislativo 215 e 216.
Questa normativa successiva introduce una divaricazione nella
nozione di discriminazione in origine unitaria nell’art. 15. Le nozioni
di discriminazioni diretta e indiretta, questa bipartizione lo statuto
non la conosceva ma viene introdotta da queste normative.
diretta
Col 215 la discriminazione si realizza quando una persona è
trattata meno favorevolmente di quanto una persona sarebbe
trattata in maniera analoga.
indiretta
Quella si realizza quando una disposizione o una prassi
apparentemente neutre possono mettere le persone di una
determinata razza o origine in una posizione di particolare
svantaggio rispetto a particolare persone. Viene detto anche qui nel
decreto 215.
La domanda è: ma siamo di fronte a due diverse nozioni di
discriminazione? Il quadro si è complicato? Oppure queste norme di
derivazione comunitaria esplicitano lo stesso concetto di
discriminazione unitario contenuto nell’art. 15?
Nell’interpretazione le nozioni di queste due discriminazione non
sono diverse ma sono solo un modo per esplicitare l’unitaria
nozione di discriminazione già contenuto nell’art. 15 perché quando
parliamo di quella diretta diciamo che il datore non può porre in
base al suo atto il fattore discriminatorio, quella diretta è
l’esplicitazione della forma più evidente per cui alla base dell’atto è
stato posto un fatto discriminatorio evidente.
Quella indiretta è una forma più subdola e più difficile da provare
ma è una stessa discriminatoria.
L’art. 2 ci dice che si attua quando alla base del potere datoriale si
pone un quesito apparentemente neutro (es: il titolo di studio), che
pone una categoria in una posizione di svantaggio rispetto ad altre.
Nell’ambito della prima interpretazione perché si abbia
discriminazione bisogna verificare la disparità di trattamento? Posso
discriminare il mio unico lavoratore o affinché ci sia discriminazione
bisogna avere più lavoratore?
Se penso che la discriminazione sia una causa illecita del potere
datoriale, la disparità di trattamento non appartiene alla nozione di
discriminatore. Posso discriminare anche il mio solo lavoratore.
Se la norma ci dice che la comparazione può essere con una
persona ipotetica allora essa è una finzione.
Art. 3 del decreto 215 ci dice che nell’ambito del rapporto di lavoro
non sono atti di discriminazione le differenze di trattamento
qualora, per la natura dell’attività, l’atto che poe la ratio etnica alla
base in quanto il fine è tecnico organizzativo.
La corte di cassazione delle sezioni unite del 2017 si occupò di un
caso di discriminazione per sesso in quanto la lavoratrice non
rimanendo incita annuncia al datore che vuole assentarsi per
accedere a delle procedure di inseminazione artificiale e il datore la
licenzia. La vera ragione del licenziamento è stata provata in
giudizio. E’ discriminatoria in quanto pone una discriminazione di
sesso in quanto solo le donne possono rimanere incinte. La
cassazione ritiene che con le discriminazioni dirette di sesso, il
criterio è connesso alla ragione discriminazione mentre in quella
indiretta è apparentemente neutro ma in linea generale in entrambi
i casi il criterio è lecito se è inevitabile per l’esecuzione dell’attività
lavorativa.
La corte ci dice che a questa struttura fanno eccezione le
discriminazioni di sesso che non ammettono cause di giustificazione
diverse da quelle menzionate dalla legge in particolare dall’art. 27
sesto comma del decreto del 2006. Questa norma ci dice che per
moda arte o spettacolo, il requisito del sesso può essere essenziale
per l’esecuzione dell’attività lavorativa. Se in una sfilata di moda ci
sono abiti femminili occorre una modella.
Cambia la struttura di discriminazione, nel caso generale è un limite
causale quindi il giudice deve verificare se la causa dell’atto è
illecita o illecita o è ragione tecnico-organizzativa.
In presenza di discriminazione di sesso dirette il giudice non deve
ragione in quanto è un limite esterno ed è sempre vietato.
Altra opinione è che la disparità di trattamento è insita alla struttura
della discriminazione e quindi per aversi discriminazione ci deve
essere disparità di trattamento fra il lavoratore appartenente al
gruppo protetto quello comunitario (slide).
Questa diversa interpretazione non fa leva sull’art 2 ma sull’art. 3
quando sostiene che le ipotesi di discriminazione sono tassative.
L’uguagliamento tra gruppi che tendono a discriminazione è il frutto
di scelte politiche fortemente date. Il legislatore non ritiene tutti i
lavoratori uguali ma pone rimedio a certe differenze sociali così
come sono andate a svilupparsi nell’evoluzione storico sociale. Le
prime differenze ritenute intollerabili sono quelle in materia
religiosa.
I divieti di discriminazione non vogliono una parificazione le persone
che lavoro ma la neutralizzazione di certi fattori particolarmente
sentiti dalla comunità. Quindi vanno ritenute come tassative la
disparità di trattamento.
Dove si collocano le cause di giustificazione? La dottrina non dà
risposta.
Uno dei problemi è l’onere di prova della discriminazione. Come si
fa? Se dovessimo ragionare secondo i principi generali, la causa
lecita si presume e chi vuole provare l’illeceità della causa la deve
provare e grava sul lavoratore ed è spesso impossibile in quanto
non sa quale siano le scelte di fondo del lavoratore. Il legislatore
interviene infine con il decreto 151 del 2011 con l’art. 28, capovolge
in parte l’onere di prova del lavoratore facilitandolo, e ciò viene
anticipato da una norma in generale che ci dice che quando il
lavoratore fornisce elementi di fatto di carattere statistico dai quali
si detiene una discriminazione spetta al datore di provare la non
discriminazione, quindi che l’atto è sorretto da una causa tecnico-
organizzativa.
Il datore deve fornire indizi più labili. Il lavoratore può anche solo
dimostrare che in quella azienda tutte le posizioni apicali sono
occupate da uomini e fornisce un dato statistico che non riguarda
una discriminazione ma costituisce un indizio della situazione
dell’azienda.
Ci sono distinzioni di nozioni da non confondere con diretta e
indiretta contemplata dalla legge.
Discriminazione occulta e palese. La discriminazione può essere
dichiarata ma anche occulta e si usa un criterio apparentemente
neutro. Una discriminazione indiretta può essere esplicitata.
Individuale o seriale: può riguardare un lavoratore o più lavoratori
Singola o multifattoriale: se ci sono più aspetti o meno nella
discriminazione.
Distinzione tra discriminazione e parità di trattamento: la
discriminazione è il limite di un potere al fine di perseguire un fine
lecito. Coincide questo concetto con un ipotetico principio di
trattamento? No.
La Corte Costituzionale con una sentenza del 1989 numero 103 ha
chiaramente affermato che nel nostro sistema non esiste un
principio generale di parità di trattamento inteso come il diritto del
lavoratore ad un trattamento identico a parità di mansioni.
Il principio di parità di trattamento esprime una posizione di diritto
in capo al lavoratore.
Il datore può benissimo quindi stipulare contratti con contenuti
diversi con lavoratori adibiti alla stessa mansione.
Lezione 8 (27/03/18):
L’obbligo retributivo.
È un istituto che pone problemi.
1)Che cos’è la retribuzione nell’ambito di struttura di contratto e
nell’ambito del rapporto di lavoro?
2)Come si determina la misura della retribuzione? Bisogna vedere la
Costituzione.
3)Quali sono le forme retributive che la legge conosce?
4)All’interno della nozione di retribuzione ricavabile dalla legge,
esiste una nozione omnicomprensiva di retribuzione che porta alla
modalità di calcolo?
1) È l’oggetto di un’obbligazione fondamentale, è la
controprestazione del datore di lavoro. L’ordinamento ammette il
contratto di lavoro gratuito? L’attività può essere dedotta dal
contratto che è un contratto tipico presidiato