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Art. 36: È il principio della protezione proporzionata e sufficiente;
c’è poi un ulteriore principio: la durata massima della giornata
lavorativa e delle ferie, sempre per la difesa del lavoratore.
Art. 37: È il principio di non discriminazione, per sesso e il limite
minimo di età per il lavoro salariato.
L’importanza della Costituzione sta nel riconoscimento della
speciale protezione di cui un gruppo di lavoratori necessita
protezione. Il legislatore ordinario inizia a tradurre questi concetti in
regole operative non prestissimo.
La legge 604/1966 è la legge che introduce l’obbligo di
giustificazione del licenziamento, prima operavano solo il 2118-
2119 c.c., che prevedevano la possibilità di licenziare senza
motivazione, ad nutum, in tal caso il datore era tenuto al periodo di
preavviso e la possibilità di licenziare il lavoratore in tronco se
ricorreva una giusta causa. Dunque in un sistema è riconosciuta la
libertà di licenziamento, il lavoratore ha difficoltà a far valere tutti
gli altri suoi diritti perché teme le ritorsioni del datore.
Abbiamo poi lo Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) che
riconosce alcuni diritti fondamentali del lavoratore calandoli nel
rapporto di lavoro, per esempio il diritto di manifestare liberamente
il proprio pensiero, il divieto di discriminazione, diritto di difesa del
lavoratore, diritto alla sua difesa e soprattutto l’art. 18,
intervenendo nuovamente sul licenziamento fa un salto enorme:
viene introdotta qualora il licenziamento non sia giustificato una
sanzione fortissima, l’obbligo di reintegrazione del lavoratore.
La legge 553/1973 sul processo del lavoro: viene introdotto un
processo caratterizzato dalla oralità, celerità, concentrazione per
essere rapido e poco costoso.
La crisi economica dei primi anni ’70 ha comportato una
flessibilizzazione attraverso la “legislazione d’emergenza”.
Con la globalizzazione si è trasformato il sistema dei commerci, di
dazi, di comunicazione, di tecnologie: questo ha fatto si che
l’innovazione delle tutele dei lavoratori fosse una necessità
strutturale e non contingente. Di fronte a delle imprese che devono
competere sullo scenario internazionale.
D.lgs. 276/2003, “Legge Biagi”: di fronte all’opposizione sindacale
che si lascia sostanzialmente intoccato il contratto di lavoro
subordinato standard e interviene sui cosiddetti contratti flessibili e
atipici: introduce o ridisciplina tutti quei contratti di lavoro
subordinato (contratto a termine, part-time, etc.…) e per questi
prevede delle tutele minori. Prevede poi la figura del lavoratore
autonomo; il lavoratore a progetto non beneficia delle protezioni del
lavoratore subordinato quindi è meno costosa. Inoltre si rende più
semplice il cd. decentramento produttivo, ossia lo scorporare fasi
della propria attività dalla propria impresa verso soggetti esterni.
La disoccupazione è una conseguenza della situazione economica
del paese.
La Legge Fornero tenta di rimettere in campo un progetto più
complesso, nelle intenzioni originarie del governo si voleva adottare
un modello di flexsecurity, che deriva dai modelli nordeuropei come
dal modello danese: più sicurezza nel mercato e meno sicurezza nel
rapporto di lavoro. Il lavoratore non viene tanto tutelato nel singolo
rapporto di lavoro, nel sistema danese il licenziamento è semplice e
non prevede lunghi preavvisi, ma nel sistema pubblico di
collocamento e di sostegno è al lavoratore è fortissimo: il sistema
pubblico gli garantisce lo stipendio per due anni e il ricollocamento,
questa era l’idea di base della riforma Fornero, ma questo modello
non è realizzato compiutamente perché non sono state rafforzate le
tutele del mercato. L’idea era quella di superare quel dualismo fra
lavoratori protetti e non protetti che la legge Biagi aveva creato
incanalando le varie categorie di lavoratori verso il contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato. Per fare ciò il legislatore
si proponeva di ridurre il numero di contratti non standard (più
rigida l’entrata dei lavoratori nel mercato del lavoro) riducendo le
tutele dei lavoratori in uscita, rendendo meno difficoltoso il
licenziamento.
Parliamo dell’art. 2094: delinea i caratteri del contratto di lavoro.
Quando si parla di imprenditore in realtà si intende il datore di
lavoro perché il 2339 estende l’applicabilità del 2094 ai datori di
lavoro fuori dall’impresa. Soltanto se il contratto di lavoro è
subordinato allora si applicano tutte le tutele inderogabili descritte,
queste tutele non si applicano al lavoro autonomo. Il 2222 si
avvicina al 2094 per l’attività “personale” del lavoratore: siamo in
presenza di contratti di scambio, sinallagmatici, a titolo oneroso, ma
in un caso vi è la subordinazione, in un altro no. Una prima teoria ha
sostenuto la teoria della subordinazione socio-economica, la
subordinazione, dunque non farebbe parte della struttura del lavoro
ma sarebbe un dato pre-contrattuale che denota la condizione delle
parti, ma questa teoria non ha avuto successo; per i più prevale la
teoria della subordinazione come elemento tecnico-giuridico,
tuttavia negli anni ’60 una parte della dottrina.
Nuova dottrina: il legislatore non ha bene individuato già nel 1942
gli elementi che caratterizzano questa figura sociale (l’operaio della
grande fabbrica) ma non riesce a tradurre quello che vuole indicare
e la seconda caratteristica di questa impostazione è che il sistema
produttivo è in continua evoluzione e che quindi non è possibile
utilizzare gli stessi elementi che denotavano la figura atipica di
lavoratore subordinato negli anni ’60. Questa dottrina sottolinea che
laddove il 2094 parli di collaborazione usa un termine inutile: anche
i lavoratori autonomi collaborano; anche il termine “dipendenza”
non è utile perché il lavoratore autonomo può lavorare in regime di
mono committenza (e dunque dipendenza). Insomma il 2094
(secondo questa dottrina) sottende una figura ma non la traduce
chiaramente in norma: questa figura è quella di un lavoratore,
maschio, adulto, con contratto a tempo pieno e indeterminato, alle
dipendenze di un solo datore, dal quale dipende. Non è sufficiente
leggere le prescrizioni in essa contenute, bisogna attingere a
elementi qualificatori dal dato della realtà sociale sulla falsariga del
quale vuole rimodellarsi, bisogna risalire agli elementi che
caratterizzano l’operaio della grande fabbrica che il legislatore
aveva presente quando ha strutturato la norma.
Questa dottrina propone di cambiare il metodo che il giudice utilizza
nel momento in cui deve decide se quel contratto sul quale sta
giudicando è un contratto di lavoro subordinato autonomo:
normalmente quando il giudice deve qualificare un contratto utilizza
il metodo sussuntivo, guarda prima alla fattispecie astratta e poi
guarda quella concreta e nel caso riconduce la fattispecie concreta
a quella astratta e poi decide; un’altra ipotesi propone il metodo
tipologico che dà più rilievo al modello sociale cui la norma fa
riferimento, passa al tipo legale (delineato dalla norma) al tipo
normativo (sottostante alla norma) e l’interprete va a valutare quali
sono i caratteri che contraddistinguono normalmente il tipo sociale
di riferimento e il giudice mette in sequenza quali sono i caratteri
che contraddistinguono nel sociale il modo di lavorare dell’operaio
della grande fabbrica industriale(se lavora con continuità, se viene
pagato con cadenze fisse etc.… Caratteristiche che il 2094 non
contiene); così il giudice ricostruisce il tipo normativo. Compiuta
questa operazione non si compie più un’operazione di sussunzione
ma di riconduzione per approssimazione: basta che il contatto
contenga ALCUNI caratteri del tipo normativo: in quel caso quel
contratto concreto potrà essere ritenuto contratto di lavoro
subordinato con tutte le relative conseguenze.
Questa metodologia è stata impiegata dai giudici del lavoro fra gli
anni 60 e 80, enorme libertà di manovra dei giudici, che amplia il
campo di attività delle norme di tutela.
La giurisprudenza ha eseguito una precisa dottrina dagli anni 60
agli anni 80: più che ricostruire a tavolino la norma del 2094 utilizza
un metodo qualificatorio, il metodo tipologico, che propone un
ragionamento diverso da quello che caratterizza il metodo
sussuntivo (adottato precedentemente). Il metodo tipologico parte
dall’assunto che la norma giuridica delinei sì un tipo legale, ma
questo tipo legale sia in quale modo incompleto, perché il tipo
legale sarebbe un’allusione a un modello retrostante (il tipo
normativo), ossia il modello sociale sulla scorta del quale il
legislatore ha introdotto la norma. Non è richiesta una perfetta
coincidenza fra fattispecie concreta e modello ricostruito dai giudici,
ma è sufficiente che la maggior parte degli elementi riportati dai
giudici corrispondano alla fattispecie concreta.
Guardiamo ora gli esiti dell’applicazione di questo metodo: ha
portato ad un’estensione da parte dei giudici delle tutele del diritto
del lavoro, d’altra parte questo metodo porta ad un’esasperazione
dei criteri soggettivi.
Il 2094 si caratterizza di tre elementi: collaborazione, dipendenza e
direzione.
La collaborazione non sarebbe un elemento pregnante ma sarebbe
un portato del regime corporativo fascista: il lavoratore si
impegnerebbe non solo a prestare un’attività, ma a farlo in maniera
coordinata con l’organizzazione e con gli altri lavoratori. Collaborare
significa anche rispettare gli obblighi di rispetto e buona fede, ma
questo caratterizza tutti i contratti.
Da una parte abbiamo l’etero-direzione della prestazione e
dall’altra, la dipendenza, denota la sottoposizione del lavoratore al
datore: caratteristica del contratto di lavoro subordinato è il potere
in capo al datore di ordinare al lavoratore cosa, come e quando fare.
Anche nel lavoro autonomo però è necessario un coordinamento del
lavoratore col committente.
Con riferimento al potere direttivo nel lavoro subordinato si ritiene
che debba concentrarsi in direttive specifiche e puntuali: man mano
che il contratto si svolge, il datore di lavoro modifica gli ordini al
lavoratore. Secondo un’opinione, nel lavoro autonomo, il
coordinamento non si esplica tramite l’esercizio di un potere in fase
esecutiva, ma è fissato una volta per tutte nel contratto.
È evidente che il datore di lavoro può emana