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GIUDIZIO DI BILANCIAMENTO DEI DIRITTI
La sent 1/1956 si snoda poi su quest'altro punto: nel momento in cui due principi confliggano in
concreto tra loro, come ci si deve muovere? Precisiamo in primo luogo che in astratto i principi
sono tutti alla pari, e non vi sia una gerarchia tra questi, in concreto il contrasto è molto più facile
che capiti: per fare degli esempi possiamo osservare i diritti sociali che devono essere garantiti in
periodi di ristrettezza economica, o più in concreto ancora il diritto del nascituro contro il diritto alla
salute della donna gravida, la libertà di organizzare cortei in luoghi pubblici contro la necessità di
garantire l'ordine pubblico, o il diritto alla libertà religiosa contro la questione delle trasfusioni e
quindi il diritto alla salute dei bambini.
È quindi necessario trovare un punto di bilanciamento tra questi contrasti in materia di modalità di
esercizio del diritto. Si tratta quindi di scelte del legislatore che ampliano l'ambito di esercizio di un
diritto per restringere quello confliggente. Spesso però le scelte del legislatore non sono equilibrate,
pertanto, quando si ricorre alla Corte, questa deve fare un percorso sulla ratio della legge che viene
impugnata.
Allora la sent. 1/1956 serve alla Corte per definire il proprio operato anche in materia di
bilanciamento spiegando che la Costituzione non sancisce dei diritti assoluti, ma parla di diritti che
non siano violati nel loro contenuto essenziale sebbene limitabili al fine di garantire una ordinata
convivenza civile. "Il concetto di limite è insito nel concetto di diritto". Lo scopo quindi
dell'ordinamento è quello di garantire per quanto possibile un sistema di ordinata convivenza civile.
In conclusione abbiamo chiarito che non può essere violato il contenuto essenziale dei diritti
costituzionalmente garantiti, ma possono essere modificate (ristrette) le modalità di esercizio del
diritto.
16/10
Sent.19/1962 Corte Cost.
Si tratta di una sentenza di rigetto, che ha efficacia solo per il giudice a quo, tanto che gli altri
giudici sono poi liberi di porre la questione: questo è poco utile nel breve periodo, ma, con
l'evoluzione del diritto, può risultare utile tanto che si potrebbe ribaltare addirittura il giudizio
precedente.
La fattispecie vedeva impugnato l'art. 656 del c.p che sanziona la fattispecie di reato di
pubblicazione dei notizie tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico.
La Corte quindi muove dal concetto di ordine pubblico: come detto, tale clausola generale non è
presente in Costituzione in quanto sembrava essere, per i costituenti un richiamo all'ordine fascista.
Se in una disposizione costituzionale è presente una clausola generale, questa rende la disposizione
soggetta ad un'interpretazione elastica che tenga conto anche del contesto storico evolutivo.
La questione quindi si sposta sul fatto che, poiché la clausola dell'ordine pubblico non compare in
Costituzione, l'art. 656 c.p sarebbe incompatibile con l'art. 21 Cost.
Andiamo per ordine: chiariamo subito la definizione di notizie tendenziose. Per notizie tendenziose
7
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si intendono notizie che sì sono attinte da accadimenti veri, tuttavia vengono rappresentate in modo
da fornire un'interpretazione distorta dei fatti. Ora, tali notizie tendenziose sono penalmente
rilevanti solo dove inficino l'ordine pubblico.
Andiamo ad analizzare ora cosa si intenda per ordine pubblico, cominciando col dire che si
classificano due tipi di ordine pubblico:
o.p ideologico o ideale: tipico dei regimi autoritari
– o.p. Materiale o sostanziale: assenza di violenza o minaccia.
–
La clausola, per quanto non espressamente menzionata, emerge nel discorso della libertà di
riunione; quando questa sia fatta in luogo pubblico innanzitutto bisogna dare un preannuncio alle
autorità in modo che si possano organizzare, affinché quindi lo stato provveda a garantire la
“sicurezza e l'incolumità” dei cittadini. Pertanto potremmo dire che il riferimento all'ordine
pubblico materiale subisce solo un cambiamento di nome in Costituzione, chiamato sicurezza ed
incolumità.
La protezione dell'art. 21 pertanto non può essere pregiudicata dove il reato sia solo nel pensiero
(es. pensiero rivoluzionario, sovversivo), può però esserlo dove tale pensiero si traduca in un atto
violento o non conforme.
La Corte perciò, nel par. 4 della motivazione, non rileva l'incostituzionalità della norma nella
definizione di ordine pubblico in quanto lo stato deve comunque garantire l'ordine legale su cui si
poggia la convivenza sociale: tale ordine è un bene collettivo. Quindi, anche se definito dalla Cost
con eufemismi, l'ordine pubblico esiste ed entra in bilanciamento con la libertà di manifestazione
del pensiero.
Ciò detto poi la sentenza prosegue definendo quindi le caratteristiche della democraticità così
elencate:
1. Sovranità popolare – art.1 Cost.
2. Eguaglianza davanti alla legge – art.3
3. legalità – supremazia della legge.
La sentenza poi, rimette direttamente al giudice penale la valutazione concreta della presunta
violazione dell'ordine pubblico.
Sent. 87/1966
Questa sentenza, da leggere assieme alle due precedenti, aggiunge dei tasselli rispetto alle
precedenti: in questa sentenza viene infatti definito il metodo democratico riprendendo i termini
dell'art. 49 Cost.
Nel nostro ordinamento non si parla di libertà collettive, ma al massimo di libertà individuali ad
esercizio collettivo (es. libertà di religione). La Costituzione infatti parla solo di tutela del singolo:
persino la famiglia, che è una formazione sociale naturale citata nella Cost, ed è tutelata solo al fine
di essere espressione di libera formazione dell'individuo nella sua personalità.
Anche il partito è tutelato in quanto formazione sociale che contribuisce allo sviluppo della
personalità individuale; ma in più si dice che questi, devono concorrere tra di loro con metodo
democratico. Nulla si dice invece sulla democraticità interna: infatti al momento della redazione
della Cost, il PCI era organizzato secondo un principio centralista, al contrario invece di quanto si
dice nell'art. 39 a proposito dei sindacati, che invece devono avere un'organizzazione a base
democratica.
La fattispecie di questa sentenza vede l'impugnazione dell'art. 272 c.p, sempre in contrasto con l'art.
21 Cost. La norma prevede il reato di sovversione violenta del regime. La ratio della norma, scritta
ovviamente nel periodo fascista, ovviamente riferiva il divieto direttamente a comunisti, socialisti e
anarchici. Era inoltre vietata anche la propaganda della rivoluzione, quindi anche la parola prima
che diventasse azione.
In primo luogo la Corte asserisce che: posto che la disposizione sia stata scritta con riferimenti
specifici contro gli avversari politici, “l'origine e la ratio” della norma non sono dirimenti al fine di 8
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un'interpretazione costituzionalmente orientata. Quello che la Corte va dunque ad osservare, è la
disposizione generale e astratta che si inserisce in uno specifico contesto attuale. La ratio originaria
della norma viene tralasciata conservandone invece l'obiettiva struttura e la reale portata della
norma.
22/10
Come detto, la nozione di ordinamento repubblicano democratico la ricaviamo dalle sentenze della
Corte come la risultante di ordine pubblico materiale (sent. 19/1962) e metodo democratico
(sent.87/1966).
Abbiamo quindi detto che la sent. 87/1966 aggiunge, tra i requisiti di democraticità, la tutela dei
diritti delle minoranze e il rispetto dei valori costituzionali, rispetto alla sentenza del 1962 che
proclama soltanto il rispetto della sovranità popolare e l'esclusione della violenza.
Mettendo dunque insieme le due sentenze, quindi abbiamo ora un quadro completo di cosa si
intenda per stato democratico.
INTERPREAZIONE COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA
La Corte sostiene poi che una norma deve essere interpretata cercando la sua salvezza, in
un'interpretazione costituzionalmente orientata. Molte decisioni della Corte, infatti, hanno visto il
respingimento delle norme, proprio in funzione del fatto che la prima fase, ovvero quella
dell'interpretazione costituzionalmente orientata, non fosse stata attuata dai giudici ordinari.
Vediamo dunque che le norme si dividono in due sotto categorie specifiche: i principi e le regole.
Questi si differenziano solo sulla base della loro capacità espansiva: se quindi i principi hanno
portata generale, le regole hanno portata molto ridotta e quindi sono tendenzialmente concrete.
I principi hanno dunque bisogno di una traduzione che deve essere operata dal legislatore prima, dal
giudice poi, e infine eventualmente anche dalla Corte Cost., per essere tradotti in regole che ne
restringano il campo di applicazione.
La Costituzione, che vede in sé la prevalenza dei principi, lascia quindi agli organi addetti, una
maggiore libertà di interpretazione.
Nei principi però sono presenti poi le cosiddette CLAUSOLE GENERALI , che sono caratteristiche
dei principi utili in primo luogo per l'applicazione della norma al caso concreto, e quindi come
limiti alla libertà di interpretazione, ma anche per rendere una norma duttile nel tempo e nel
contesto sociale. Le clausole infatti, sono per il giudice un rinvio al di fuori dell'ordinamento
giuridico, in quanto lo fanno calare nella realtà storico-sociale. A loro volta, quindi, anche le
clausole generali non sono definite, ma si adattano anch'esse al contesto.
Ad. esempio basti pensare all'adattamento dell'art. 11 per l'ingresso in Europa oppure all'idea di
adattare l'art. 29 anche alle unioni civili.
La clausola più importante, nonché quella maggiormente esemplificativa al fine di analizzare la
mutevolezza e delle clausole generali, e delle norme stesse, è sicuramente quella del BUON
COSTUME.
La clausola del buon costume si riscontra in costituzione solo in due previsioni:
l'art. 19 che vieta i riti contrari al buon costume nell'ambito della libertà di associazione,
– l'art. 21 che vieta le pubblicazioni e qualunque altro tipo di documento contrario al buon
– costume, aggiungendo per altro una riserva di legge assoluta per le modalità di attuazione di
tale divieto.
Sulla definizione di questa clausola si sono succedute diverse sentenze:
Sent. 9/1965: la disposizione impugnata era l'art. 553 c.p, insieme ad alcune altre del TU
– sicurezza, sul divieto di propaganda degli strumenti contro la procreazione. La Corte rigetta 9
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la questione (vedi sent di rigetto pagg. 474-475 Bin): la