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Si tratta in realtà dei principi fondamentali per una vita buona che Dio ha rivelato al popolo d'Israele
liberato senza intendo di comando (percepibile solo sullo sfondo), ma come linea guida diretta al
suo popolo eletto.
Israele considerava infatti la propria grandezza nell'essere un popolo piccolo, ma scelto da Dio, a
cui Egli ha impartito tali insegnamenti affinché progressivamente raggiungessero anche gli altri
popoli.
Nella tradizione, come si diceva, le “10 parole” del decalogo sono divenute i 10 comandamenti,
comuni ad ebrei e cristiani (sia cattolici che ortodossi) anche se con numerazioni diverse.
Nel Pentateuco si trovano due versioni delle 10 parole, una qui nell'Esodo e l'altra nel
Deuteronomio, e ciò è perfettamente comprensibile dal momento che tale libro è una rilettura
dell'esperienza di Mosè* (scritta nel VII secolo a.C.) attraverso un artificio letterario.
* I lettori antichi hanno a lungo pensato che tutto il Pentateuco fosse stato scritto da Mosè, ma ciò è
oggi inaccettabile alla luce del fatto che Mosè è morto circa nel 1200 a.C. mentre il Pentateuco è
composto da testi scritti tra il 1000 a.C. ed il VI secolo a.C. (entrambi riferimenti cronologici
posteriori alla morte di Mosè). Come se ciò non bastasse, il Deuteronomio compre gli eventi della
vita di Mosè fino alla morte compresa, ed è piuttosto difficile pensare che Mosè possa aver scritto
della propria morte.
Fatte tali premesse, veniamo ora all'analisi analitica del decalogo.
La prima “parola” del decalogo occupa ben 6 versetti, dall'1 al 6 del capitolo 20, ed è definibile
come un nuovo piccolo trattato* d'alleanza.
Difficilmente può infatti essere accettata la sintesi catechistica “Non avrai altro Dio all'infuori di
me” di fronte a quella che in realtà è un'auto-presentazione di Jahvè (versetto 2), che dimostra di
aver operato a favore d'Israele nella storia** e che chiede quindi al suo popolo eletto il rispetto di
diritti e doveri, patti, che vogliono sostanzialmente indicare la qualità del rapporto con Dio, espressa
in forma di unicità, adorazione, amore e servizio, portati al punto da veicolare l'idea che non ci sia
immagine di Dio sulla terra all'infuori di quella umana (idea riscontrabile anche in Genesi 1, 27:
l'unica immagine di Dio è l'uomo, che è anche l'unico interlocutore adeguato di Dio).
È inoltre qui che troviamo anche le benedizioni e maledizioni di cui si è parlato introducendo i
capitoli 19 e 20: tra la seconda parte del versetto 5 ed il versetto 6 viene espressa quella che si può
definire la gelosia di Dio nei confronti dell'uomo, tratto antropomorfico che ricorre relativamente
spesso nell'Antico Testamento, dove la gelosia è intesa come il corrispettivo dell'intensità
dell'amore.
Ci si potrebbe chiedere il perché della presenza delle maledizioni in testo sacro, ma esse indicano
l'efficacia della protezione di Dio, che non solo vuol bene, ma castiga chi vuol male; come già detto
inoltre c'è notevole sproporzione tra benedizioni e maledizioni, in modo da indicare come Dio sia
più propenso alla misericordia che al castigo.
*Contiene dunque a sua volta in sé buona parte dei 5 elementi tipici dei trattati.
**Ne deriva l'evidenza di come l'ebraismo sia una religione storica, esattamente come il
cristianesimo e l'islamismo dal momento che hanno la stessa radice, e di come gli uomini incontrino
Dio sì nella fede, ma anche concretamente nella loro vita e nella loro storia.
Tanto la prima parola era articolata, tanto più concisa risulta la seconda, interamente contenuta nel
versetto 7, reso dalla nostra tradizione catechistica come “Non nominare il nome di Dio invano”.
Tale traduzione rende il concetto originale, ma solo parzialmente, in quanto questo versetto non
vuole indicare come sbagliata solo la bestemmia, ma il più ampio e peggiore concetto di “rendere
vuoto” il nome, svuotare il nome di Dio di significato, svuotandone quindi anche l'essenza.
La terza parola si trova tra i versetti 8 ed 11.
Il “Ricordati di santificare le feste” del nostro catechismo appare un precetto piuttosto vuoto; qui
invece si evidenzia come all'origine la terza parola stia piuttosto l'idea di dedicare un giorno al
ricordarsi di Dio e ciò che Egli ha fatto per l'uomo.
In questa “versione” delle 10 parole, la risposta alla domanda “cosa ha fatto Dio per l'uomo?” è
riscontrabile nel creato, nella creazione; nella “versione” del quinto capitolo del Deuteronomio,
invece, alla stessa domanda si risponde con l'indicazione della liberazione dall'Egitto (ricordiamo
che il Deuteronomio è rilettura dell'esperienza dell'esodo).
Il mondo si ferma dunque per ricordare, per evitare l'illusione che l'uomo sia padrone del mondo,
ma anche una volta compreso questo concetto, in realtà piuttosto semplice, ancora molto rimane da
analizzare della terza parola.
Com'è possibile infatti, che il versetto 10 parli di schiavi e di forestieri quando questo testo è stato
scritto nel deserto dell'esilio?
E perché la motivazione di un gesto divino appartenente al processo creazionale, descritto in
Genesi, si trova qui nell'Esodo?
Alla prima domanda si può rispondere affermando che si tratta di un'inserzione fatta una volta che
Israele ha raggiunto la terra promessa: il popolo israeliano presenta un forte identità nazionale,
spesso legata al culto ed al rapporto con Dio, ma che estende in questo caso anche a forestieri,
schiavi, ecc.
Riguardo la seconda domanda, invece, bisogna rispondere con un occhio di riguardo alla storia: nel
VI secolo a.C., quando venne scritto questo testo, il popolo d'Israele era in prigionia in Babilonia,
ed è proprio in questo periodo che è stata scritta la creazione, appartenente quindi alla tradizione
sacerdotale. Ciò è comprensibile considerando che Israele, confrontandosi in esilio con altri popoli
e religioni, abbia voluto mettere per iscritto che tutto venne creato dal Dio del popolo d'Israele, e
tale collocazione storica della creazione risulta coerente anche con il fatto che allora la liturgia era
articolata su 7, e così su 7 giorni venne plasmata la creazione; si tratta dunque anche in questo caso
di un'inserzione.
Prima di passare alla quarta parola è necessaria una considerazione.
Nelle opere d'arte il decalogo viene generalmente rappresentato su due tavole, in cui prima, seconda
e terza parola risultano scolpite sulla prima tavola, e le parole da 4 a 10 sulla seconda.
Il fatto che il decalogo sia stato consegnato a Mosè su due tavole risulta dal capitolo 31 dell'Esodo,
ma la distinzione tra i primi 3 e gli ultimi 7 comandamenti è assolutamente arbitraria: alcuni
ritengono le prime tre parole riguardino Dio e le altre sette le strutture della vita familiare e civile,
ma è l'analisi del testo originale rende le dieci parole ben più unite di quanto tale distinzione voglia
introdurre. Il capitolo 31 non parla infatti di due tavole per dividere, ma di due tavole per avere due
copie del decalogo: non una divisione dello stesso “documento” tra prima e seconda parte, ma due
copie per i due contraenti, ad indicare ancora una volta la relazione tra Dio ed il suo popolo.
Fatta tale precisazione, tornando al decalogo, è con il versetto 12 che si incontra la quarta parola,
resa per noi con “Onora tuo padre e tua madre”.
La famiglia era elemento fondamentale della vita d'Israele, considerando anche il contesto di
un'economia su base familiare, molto legata al gruppo.
È questo il secondo riferimento positivo* del decalogo, e l'unico a cui è legata una benedizione
retributiva, a sottolineare il ruolo centrale della famiglia.
*La maggior parte delle “parole” inizia con una negazione, esprimendo un “divieto”; in questo caso
il “comandamento” è introdotto da “onora”, mentre la terza parola cominciava con “ricordati”.
La quinta parola corrisponde al versetto 13, incisivo ed inequivocabile (esattamente come vedremo
essere anche i versetti 14, 15 e 16, corrispondenti a sesta, settima ed ottava parola).
Quello che per noi è diventato un “semplice” “Non ucciderai” deriva dal verbo ebraico razah (pron.
rashà), che ha dato origine a lunghissime discussioni: esso si traduce con “non ucciderai alla
guerra”, ma com'è possibile che i cristiani vadano in guerra?
Per rispondere a tale domanda in modo corretto bisogna ancora una volta considerare il contesto
storico: per il periodo in cui questo testo è stato scritto sarebbe anacronistico l'affermazione che la
guerra è ingiusta: le guerre erano allora all'ordine del giorno ed avevano un significato morale
diverso da quello odierno.
Nel testo ebraico inoltre, in realtà, il tema non è tanto quello della guerra, quanto piuttosto la difesa
personale, soprattutto nei confronti di un nemico anche più debole, ragion per cui la traduzione
migliore sarebbe “non assassinerai”.
Non è dunque pensabile che in quel tempo si potesse già escludere la guerra, ma tale
“comandamento” vuole tutelare la vita dei più deboli.
Eccoci al versetto 14, come già anticipato corrispondente alla sesta parola, forse una delle più
discusse nella nostra catechistica traduzione “Non commettere atti impuri”.
Tale formulazione risulta infatti dalla moralistica estensione di ciò che nel testo originale voleva
essere un'indicazione alla fedeltà, non solo nella sfera sessuale.
Poco commento necessitano i versetti 15, corrispondente alla settima parola, e 16, corrispondente
all'ottava parola, rispettivamente “Non ruberai” e “Non pronuncerai falsa testimonianza”,
quest'ultimo allora inteso come espressione del diritto alla verità nel processo.
Più interessante è invece la questione racchiusa nel versetto 17, contenente nona e decima parola,
equivalenti del nostro “Non desiderare la donna d'altri” e “Non desiderare la roba d'altri”.
Nel testo originale infatti, quello che nella tradizione catechistica è divenuto il decimo
comandamento “abbraccia” il nono, precedendolo in parte (“non desidererai la casa del tuo
prossimo”) ed in parte seguendolo (“nè il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo
asino, né alcuno cosa che appartenga al tuo prossimo”).
La tradizione cristiana divide dunque in due quello che nel