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STABILIZZAZIONE DELLA LIRA E CRISI DEFLAZIONISTICA (1927-1929)

1. LE STABILIZZAZIONI MONETARIE IN EUROPA E LA SCELTA ITALIANA

Il sistema monetario di quasi tutti i paesi era uscito dalla guerra fortemente provato: quasi tutte le monete

avevano perso la propria stabilità e si erano deprezzate in valore, una volta venuto meno il legame con l'oro e

superati gli accordi interalleati, che avevano reso possibile la parità artificiale in tempo di guerra. Inoltre la

crisi di riconversione produttiva, i problemi nelle bilance dei pagamenti e l'adozione di politiche finanziarie

inflazionistiche erano stati ulteriori elementi di perdita di valore di numerose monete. I vari governi avevano

predisposto piani di ristrutturazione monetaria sulla base di nuovi rapporti internazionali, ma tali tentativi

fallirono. La stabilizzazione della moneta sarebbe stata dunque possibile riportando l'inflazione sotto

controllo, contraendo i consumi attraverso un appesantimento del prelievo fiscale ma tale scelta non venne

effettuata. Le conseguenze immediate dell'inflazione furono la possibilità di reperire le risorse finanziarie per

la ricostruzione ma, nei casi più gravi, come in Germania, causò una recessione con caduta di produzione e

occupazione. Il modo in cui l'inflazione fu riportata sotto controllo variò da paese a paese.

Per quanto riguarda l'Europa centro-orientale risultò fondamentale l'intervento della Società delle nazioni,

reso possibile dalla cooperazione monetaria internazionale, concretizzatasi attraverso un prestito

internazionale cui aderì anche l'Italia. La Germania giunse alla stabilizzazione attraverso l'introduzione di

una nuova unità monetaria, il Rentenmark, a circolazione interna, e, un anno dopo, dopo aver preso misure di

emergenza, nel 1924, con l'introduzione del Reichsmark, che poteva essere ammesso ai cambi con le altre

monete. La stabilizzazione per Francia, Belgio e Italia maturò generalmente tra il 1926 e il 1928.

Nel 1924 riprese l'emissione dei prestiti esteri e si verificò una svolta in tale emissione in quanto la

disponibilità di ampia liquidità su base mondiale contribuì a rilanciare progetti di riforma del sistema

monetario internazionale secondo le direttrici del gold exchange standard. Diverso dal gold standard, in base

al quale le monete sarebbero direttamente convertibili in oro, il gold exchange standard sarebbe stato capace

di stabilizzare in una forma più soft in quanto, in base a questo sistema, le riserve legalmente necessarie

venivano detenute in quote di valuta straniera pienamente convertibile in oro. In pratica il dollaro e la sterlina

vennero ad assumere il ruolo di valuta che una banca centrale poteva acquistare e vendere al fine di

consentire la stabilità della moneta internazionale.

Tale scelta attenuò la pressione sull'offerta dell'oro ma non fece che spostare il problema determinando un

accumulo di tensioni sulle valute a base aurea. In particolare, da questo punto di vista se New York non

aveva problemi, Londra manifestava segni di debolezza data la pressione cui era stata sottoposta la sterlina

nel dopoguerra e dato il modo scoordinato attraverso cui venne attuato il processo di stabilizzazione. Gli

Stati Uniti ritenevano comunque che le stabilizzazioni, oltre a stimolare lo sviluppo del commercio

internazionale, avrebbero garantito la sicurezza dei loro investimenti finanziari all'esterno; da parte inglese si

sollecitava la stabilizzazione al fine di evitare che paesi a moneta svalutata si avvantaggiassero con le proprie

esportazioni verso la Gran Bretagna. Il problema consisteva nella scelta della strada che avrebbe dovuto

condurre alla stabilizzazione. La scelta della tendenza deflazionistica prevalse sull'idea della circolazione di

una moneta manovrata di Keynes. Francia, Belgio e Italia avevano conosciuto, a partire dal 1919, forti

oscillazioni delle loro valute in senso inflazionistico.

La stabilizzazione del franco francese, che nel 1926 era sull'orlo del collasso, fu affrontata nello stesso anno

dal governo di Poincarè che, grazie ad una serie di provvedimenti rigorosi, tra cui vistosi tagli alla stesa

pubblica, incremento delle imposte e consolidamento dei titoli del debito pubblico di breve durata, seppe

rassicurare i detentori di ricchezza francese, riuscendo a riportare in breve tempo il cambio con la sterlina a

livelli accettabili. Nel 1928 la stabilizzazione del franco francese era completata e la Francia potò rientrare

nel gold exchange standard.

La riforma monetaria del Belgio giunse a ruota e seguì l'andamento di quella di Parigi. I provvedimenti

prevedevano infatti un'imposizione fiscale più pesante, il consolidamento del debito pubblico e la

trasformazione dei buoni del tesoro in azioni della Società nazionale delle ferrovie belghe, accettando un

livello di stabilizzazione che non raggiunse però i livelli prebellici. Ciò permise all'industria belga di

avvantaggiarsi nelle proprie esportazioni e di giovarsi del fatto di non dover sostenere il peso di una politica

monetaria pesantemente deflazionistica. La conseguenza fu un aumento dei prezzi nel 1926. La via seguita

del Belgio per la stabilizzazione aveva notato interesse negli ambienti finanziari italiani, solo che la scelta

imboccata dall'Italia portò a sbocchi diversi.

Le scelte di politica monetaria effettuate nella penisola tra il 1926 e il 1927 possono essere comprese solo

tenendo conto della politica economica adottata nel momento in cui l'Italia aveva dimostrato di superare la

crisi del 1920-21, cioè le direttrici economico-finanziarie del governo fascista. Il nome a cui risultano legate

tali scelte fu Alberto De' Stefani, primo ministro delle Finanze e poco dopo tempo anche del Tesoro. Era un

convinto assertore della piena libertà di intrapresa e di traffici. Con lui il fascismo intendeva dare corpo a un

programma di restaurazione economica attraverso una forma di neoliberismo autoritario. Il programma

economico avviato da De' Stefani si basava su tre capisaldi: il raggiungimento del pareggio del bilancio dello

Stato (raggiungibile attraverso la ristrutturazione della pubblica amministrazione, il contenimento della spesa

pubblica e una riforma graduale del sistema fiscale); il contenimento della dinamica salariale in

concomitanza con una riapertura prudente dei canali di credito; la ripresa della libera circolazione delle

merci. La sua strategia mirava ad uno sviluppo dell'economia italiana come economia aperta, sorretta dalle

esportazioni e resa possibile dal raffreddamento dei salari, in assenza di conflittualità sociali, al punto di

rendere attuabile una sorta di circolo virtuoso: esportazioni - profitti - investimenti - produttività -

esportazioni. Tale strategia potè essere messa in atto grazie a determinate condizioni che interagirono tra

loro: l'offerta di lavoro particolarmente elastica, facilità nel trasferire risorse dai settori del risparmio a quelli

produttivi e consistente domanda estera resa possibile anche da un favorevole andamento dei cambi che

tendeva a sottovalutare la lira rispetto alla sua parità di potere s'acquisto.

Dè Stefani potè quindi ridimensionare il blocco protezionistico ed aprire il paese alla concorrenza

internazionale, conscio che esso godeva del vantaggio competitivo derivante dal basso costo del lavoro e

dalla sottovalutazione dei cambi. Essa ebbe successo nella sua azione di risanamento della finanza pubblica:

nel 1925 si raggiunse infatti il pareggio di bilancio dello Stato. Tra il 1923 e il 1925, dunque, l'economia

italiana, trascinata dalle esportazioni, conobbe una fase espansiva.

Già nel 1925 comunque si cominciarono a intravvedere sfasature in tale sistema. Il suo indirizzo

produttivistico richiedeva infatti una politica monetaria caratterizzata da bassi tassi di interesse e da una forte

velocità di circolazione della moneta, col risultato di produrre tensioni inflazionistiche e di mettere in crisi la

bilancia dei pagamenti. Il ministro cercò di porre rimedio alla situazione, senza cogliere il risultato desiderato

e dovette dare le dimissioni nel 1925.

Dietro la caduta di De' Stefani c'era soprattutto l'esigenza di introdurre una stabilità nel cambio della lira, che

la sua politica aveva contribuito a svalutare. De' Stefani non aveva infatti risolto il problema della bilancia

commerciale e della bilancia dei pagamenti, che procurava gravi ripercussioni sul cambio della lira

alimentando grosse speculazioni. Il blocco dell'inflazione non si sarebbe potuto conseguire con la sola

adozione di misure interne, in quanto si doveva affrontare la questione aperta delle relazioni finanziarie

internazionali e della soluzione del problema dei debiti interalleati così come quello delle riparazioni

tedesche.

Il nuovo ministro delle Finanze, Giuseppe Volpi, avrebbe dovuto quindi riallacciare in modo costruttivo i

rapporti con la finanza internazionale ed in primo luogo con quella americana, al fine di trovare linee di

credito per l'economia interna e per assumere provvedimenti in grado di risanare la bilancia commerciale. Il

nuovo ministro decise di reintrodurre/appesantire alcune tariffe daziarie, come quella sul frumento, con

l'obiettivo di scoraggiare le importazioni e di stimolare la produzione interna, limitando in tal modo gli

esborsi di valuta. Ma si mosse soprattutto per trovare una soluzione al problema dei debiti di guerra,

ottenendo un indiscutibile successo nelle trattative con americani e inglesi, riuscendo parallelamente a

riattivare importanti linee di prestito internazionale, premessa indispensabile per la stabilizzazione della lira e

il suo ingresso nel gold exchange standard. A seguito di abili manovre valutarie e della concessione di

rilevanti prestiti statunitensi, la lira, pur con qualche difficoltà, mantenne la sua stabilità fino al 1926,

quando, sull'onda della pesante svalutazione dei franchi francese e belga, iniziò a dimostrare segni di

cedimento. Di fronte ad una svalutazione della lira, si poneva in termini urgenti il problema della sua

stabilizzazione, cosa che non si poteva raggiungere in termini limitati nè senza un riordino strutturale

dell'economia del paese capace di riportare in pareggio la bilancia dei pagamenti.

Così nel maggio 1926, con un decreto, fu decisa l'unificazione del diritto di emissione presso la Banca

d'Italia, dove dovevano essere trasferite le riserve del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia. Parallelamente

fu operato, sempre presso la Banca d'Italia, l'accentramento della politica monetaria e il controllo dell'attività

delle banche commerciali: la Banca d'Italia diventava così una banca centrale di tipo moderno, in grado di

governare moneta e credito e di influire, attraverso gli strumenti che le manovre monetarie e creditizie

consentono, sulla regolamentazione del sistema economico.

Parallelamente però i provvedim

Dettagli
A.A. 2015-2016
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SSD Scienze economiche e statistiche SECS-P/12 Storia economica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher BackstabTheory di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia economica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università Cattolica del "Sacro Cuore" o del prof Carera Aldo.