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VALENZA ASPETTATIVA STRUMENTALITÀ
Ñ Ñ
(da -1 a +1) (da 0 a +1) (da -1 a +1)
• La valenza (V), ovvero l’attrattività della ricompensa, quanto una ricompensa “piace” all’indivi-
duo. La valenza può avere un valore positivo così come negativo o pari a zero.
• L’aspettativa (A), ovvero la probabilità che il corso d’azione consenta realmente il raggiungi-
mento dell’obiettivo. Quanto più l’individuo ritiene probabile che le proprie azioni porteranno al
conseguimento dell’obiettivo, tanto più l’aspettativa sarà elevata. Questa dimensione può avere
un valore che varia tra zero e uno ed è legata all’autostima e, soprattutto, all’autoefficacia (Ban-
dura, 1997)
• La strumentalità (S), ovvero la possibilità che il raggiungimento dell’obiettivo consenta realmente
di ottenere la ricompensa prevista. Il valore della strumentalità può essere positivo, pari a zero
oppure negativo, a seconda che l’ottenimento della ricompensa sia considerato associato, svinco-
lato oppure ostacolato dal raggiungimento dell’obiettivo. 33
PSICOLOGIA DEL LAVORO • CAPITOLO 6 APPUNTI • A.A. 2016/2017
Benché l’effettiva capacità di prevedere la forza della motivazione attraverso l’applicazione della
“formula” sia stata messa in dubbio da molti studi sperimentali, Vroom ha avuto il merito di sottoli-
neare che i giudizi relativi a valenza, aspettativa e strumentalità sono di tipo soggettivo.
6.2.2.2 La teoria di Adams
La principale variabile che a parere di Adams (1965) interviene nella regolazione del processo moti-
vazionale è l’equità percepita, vale a dire valutazione soggettiva del livello di equità presente nel
proprio contesto di lavoro. La valutazione di equità implica due verifiche (figura 3):
• dell’equità interna, mediante il confronto tra il risultato ottenuto e il contributo fornito;
• dell’equità esterna, mediante il confronto tra se stessi e gli altri.
Figura 3 La formula motivazionale di Adams.
Secondo Adams, quando gli individui percepiscono una sufficiente equità interna ed esterna saranno
disposti a mantenere il livello di motivazione espresso fino a quel momento. Viceversa, quando per-
cepiscono iniquità si attiveranno per ridurla. Più precisamente, se è presente un’iniquità negativa (ov-
vero un contributo superiore ai risultati o una situazione di svantaggio nei confronti degli altri), po-
tranno diminuire il proprio contributo, tentare di incrementare i risultati, abbandonare il campo o
ancora, se nessuna di queste azioni è praticabile, riformulare le proprie valutazioni. Se è presente
un’iniquità positiva, viceversa, potranno lavorare di più o con maggiore scrupolo, rinunciare ad al-
cune ricompense, sollecitare gli altri a prendere maggiori ricompense o, anche in questo caso, rifor-
mulare le proprie valutazioni o confrontarsi con persone diverse.
Gli individui in ogni caso differiscono nella propria sensibilità all’equità: alcuni sono benevoli, tol-
leranti verso l’iniquità negativa a proprio svantaggio, altri sono sensibili, attenti al rispetto delle
norme di reciprocità e all’eliminazione delle ingiustizie, altri ancora sono aventi diritto, ovvero per
nulla preoccupati di risolvere situazioni di iniquità positiva.
6.2.2.3 La teoria di Locke
A partire da una prospettiva cognitivista, Locke (1975) e Locke e Latham (1990) hanno proposto la
teoria del goal setting, la cui variabile chiave è costituita dagli obiettivi, che influenzano i compor-
tamenti osservati in differenti modi. La presenza di un obiettivo chiaro favorisce la motivazione e
porta gli individui a essere più efficaci nelle proprie attività di lavoro.
Più precisamente, le caratteristiche degli obiettivi che influenzano in misura maggiore il comporta-
mento sono:
• la consapevolezza, ovvero il riconoscimento dell’obiettivo in quanto tale;
• la forza, ovvero il valore attribuito all’obiettivo;
• l’aspettativa di successo, ovvero il senso di “potercela fare” a conseguire l’obiettivo;
• la specificità, ovvero la chiarezza e la vicinanza dell’obiettivo, che sollecita una migliore pre-
stazione rispetto alla genericità o all’eccessiva distanza temporale;
• la difficoltà, ovvero il grado di sfida che l’obiettivo sollecita.
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A.A. 2016/2017 • APPUNTI PSICOLOGIA DEL LAVORO • CAPITOLO 6
6.2.2.4 La self-efficacy di Bandura
Le credenze di autoefficacia sono ascrivibili alla teoria sociale cognitiva di Bandura (1995; 1997;
2006), secondo la quale le persone sono in grado di produrre idee e ipotesi, di progettare percorsi
innovativi, di formulare previsioni circa i risultati che possono ottenere e di codificare ed elaborare
la propria esperienza. Inoltre, secondo questa teoria, i comportamenti che gli individui mettono in
atto sono in generale motivati e diretti al perseguimento di obiettivi. Infine, in questa prospettiva gli
esseri umani sono capaci di autoregolarsi e di selezionare o modificare le condizioni ambientali in
relazione ai propri scopi.
L’autoefficacia (self-efficacy) è un costrutto centrale nella teoria di Bandura che la definisce come
una credenza nei confronti delle proprie capacità di aumentare i livelli di motivazione, di attivare
risorse cognitive e di eseguire le azioni necessarie per esercitare un controllo sulle richieste di un
compito. L’autore individua le principali “fonti” dell’autoefficacia:
a) l’esperienza pregressa, la quantità di successo o fallimento sperimentati dalla persona nell’am-
bito nel quale si sta cimentando;
b) l’esperienza vicariante, la quantità e la qualità di apprendimento che l’individuo riesce a con-
seguire attraverso l’osservazione e l’imitazione di altre persone competenti in un determinato
compito;
c) la capacitò immaginativa, la propensione dei soggetti di prefigurare obiettivi e conseguenze
legate alle loro azioni e decisioni;
d) la persuasione verbale, purché questa venga messa in atto da persone ritenute significative
dall’individuo in relazione all’obiettivo;
e) la presenza di stati fisiologici ed emozionali positivi e facilitanti l’impegno in un determinato
compito.
6.2.2.5 Motivazione e personalità
Sul piano sperimentale, Wang e Erdheim (2007) hanno registrato correlazioni significative tra la pre-
senza di alcune dimensioni di personalità analizzate dal test Big Five (in particolare l’apertura men-
tale) e l’intensità della motivazione espressa dagli individui in termini di orientamento al risultato:
gli individui con maggiore apertura mentale tenderebbero a essere più propensi ad acquisire nel tempo
uno stile comportamentale orientato ai risultati, evidenziando dunque un buon livello di motivazione.
In ogni caso, il legame tra motivazione e personalità non va assunto in modo deterministico.
In altri termini, se è vero che una buona indagine di personalità può rivelarsi utile a prevedere il
potenziale motivazionale, l’effettiva realizzazione di questo potenziale è fortemente legata alle carat-
teristiche del lavoro in sé e del contesto in cui l’individuo è inserito.
6.3 Sviluppi recenti
6.3.1 Work engagement
Il Job Demands-Resources Model (JD-R) analizza i diversi esiti che derivano dall’intreccio tra carat-
teristiche positive (risorse) e caratteristiche negative (richieste) che qualificano il lavoro svolto dagli
individui (figura 4).
Tra questi esisti vi è il work engagement definito come uno “stato mentale collegato al lavoro, ca-
ratterizzato da vigore (alti livelli di energia e resilienza), dedizione (percezione di significatività,
entusiasmo, stimolazione) e assorbimento (focalizzazione e coinvolgimento positivi)” che viene pro-
mosso dalla presenza di risorse, siano esse personali o lavorative. 35
PSICOLOGIA DEL LAVORO • CAPITOLO 6 APPUNTI • A.A. 2016/2017
Figura 4 Relazioni tra variabili nel JD-R model [cfr. Schaufeli, Bakker, Van Rhenen, 2009 .
Al polo opposto del work engagement, gli autori del JD-R model collocano il burnout, caratterizzato
invece da un senso di esaurimento psicologico e di distacco dall’esperienza lavorativa.
Secondo gli autori del modello, il work engagement esercita un’influenza positiva sulla salute e sulle
prestazioni dei lavoratori.
Il JD-R model ha il merito di inquadrare i processi motivazionali nel più ampio quadro di variabili
personali e di contesto che qualificano l’esperienza lavorativa di un individuo, evidenziando al con-
tempo come burnout e work engagement siano entrambi espressioni di tale dinamica, poli opposti di
un continuum in cui trovano spazio differenti stati motivazionali.
6.3.2 Flow at work
Csikszentmihalyi (1990) ha definito il flow uno stato di consapevolezza in cui gli individui sono
totalmente immersi e concentrati nell’attività che svolgono, durante il quale provano piacere in quello
che fanno, hanno il pieno controllo della situazione, si rappresentano con chiarezza i propri obiettivi
e sperimentano una forte motivazione intrinseca.
Alla base dell’esperienza flow vi è un elevato livello di sfida (challenge) che la situazione comporta,
bilanciato da un altrettanto elevato livello di abilità (skills) possedute dall’individuo.
Molte ricerche hanno dimostrato che il flow è un’esperienza che si presenta frequentemente anche
nelle situazioni di lavoro. Questo stato mentale, definito Flow at Work (FaW), può essere descritto
come un picco di esperienza caratterizzata da assorbimento, piacere lavorativo e motivazione intrin-
seca al lavoro (Bakker; 2008):
• l’assorbimento (absorption) si riferisce ad uno stato di profonda concentrazione: le persone
sono tanto immerse nel loro lavoro da non accorgersi di quello che le circonda e del tempo
che passa;
• il piacere lavorativo (work enjoyment) riflette un giudizio positivo sull’attività di lavoro, che
deriva da una valutazione cognitiva e affettiva dell’esperienza;
• la motivazione intrinseca al lavoro (intrinsic work motivation) riguarda lo svolgimento di
un’attività lavorativa con l’intento di sperimentare piacere e soddisfazione.
Negli ultimi anni è stata proposta una lettura di questo fenomeno nell’ambito del JD-R model. Più
precisamente, gli individui possono sperimentare FaW quando elevate domande lavorative incon-
trano altrettanto elevate abilità professionali, ma anche quando – a fianco delle abilità professionali
– essi hanno a disposizione risorse lavorative come per e