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COMPETENZA COMUNICATIVA

Per competenza si intende un insieme di capacità astratte, mentre prestazione è il loro effettivo

utilizzo, da cui la differenza tra competence e performance. Se un soggetto riesce a fare una cosa, è

perché ne ha le competenze; non sempre, però, chi ha le competenze riesce a fare le cose o è messo

nella condizione di provarci. Le competenze possono maturare, come effetto della maturazione

stessa dell’organismo: se quest’ultima viene per qualche motivo bloccata, allora il soggetto non sarà

performante ma questo non vuol dire che, in potenziale, non sarebbe stato in grado di sviluppare le

competenze necessarie. Una competenza è modulare quando si basa su strutture cerebrali e network

specifici: alcune competenze, al contrario, sono aspecifiche e non si basano su un unico modulo (ex.

la deduzione). Solo la presenza della prestazione, quindi, prova l’effettiva disponibilità delle

competenze relative, anche se la mancanza della prestazione, presa da sola, non è indicativa di

nulla. Per ex., l’incapacità di comprendere un atto comunicativo può dipendere dal fatto che l’attore

non dispone degli strumenti per farlo oppure da qualsiasi altra ragione: distrazione, stanchezza, etc..

Un fallimento sistematico in un dato compito indica la mancanza degli strumenti indispensabili per

farlo e dunque un problema di competenza, mentre un fallimento occasionale è solo un problema di

prestazione.

Evoluzione della competenza comunicativa

In tutte le specie animali, si riscontra uno schema rigido di interazione, che stabilisce che significato

debba corrispondere ad uno specifico segnale (ex. i segnali di allarme di alcuni primati); la capacità

di un sistema chiuso con queste caratteristiche, dunque, non supera alcune decine di significati, che

corrispondono alle interazioni geneticamente rigide (ex. accoppiamento, territorialità, accudimento,

gerarchia sociale, gioco, vita di gruppo e così via, man mano che si sale di complessità passando

dagli insetti ai primati non umani ed ai delfini.

Ci possono essere, poi, sistemi semirigidi di interazione, tipici dei mammiferi superiori, che si

basano sul montaggio di significati di base per crearne di composti. Un branco di lupi, ad ex., sa

organizzare la caccia attribuendo a ciascun membro del gruppo un ruolo: affinché ciò avvenga, è

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necessaria una qualche forma di comunicazione. I mammiferi superiori sono anche in grado di usare

uno stesso comportamento in contesti diversi, come nel caso di un felino adulto che, giocando con

un cucciolo, inserisca segnali di aggressività, che hanno per un significato diverso in quel contesto.

Un sistema semichiuso ha una capacità pari a qualche decina di possibili messaggi. Un caso a parte

è quello dei primati non umani (bonobo, gorilla, scimpanzé ed orango), che hanno a disposizione

molti comportamenti sociali e comunicano in molto più complesso degli altri animali.

I sistemi aperti di comunicazione sono tipici solo degli esseri umani e sono quelli in cui il numero di

significati elementari è potenzialmente illimitato, così come quello delle frasi generabili e, quindi,

dei messaggi. E’ possibile, quindi, elaborare frasi significative sempre diverse.

Per quanto riguarda la ricostruzione dei passaggi evolutivi che hanno portato al linguaggio, si

possono identificare le seguenti fasi:

Homo habilis possiede la struttura fonatoria utile per associare consonanti e vocali ed il

- riconoscimento dei segnali è reso possibile da un apparato uditivo ben sviluppato,

riscontrabile già nei mammiferi superiori. Prima, la comunicazione si basava solo sull’uso

delle vocali. L’Homo habilis, invece, può costruire parole ed utilizza il linguaggio per

mantenere la coesione sociale e la permanenza dei gruppi, stabilendo legami sociali.

L’Homo habilis mostra, inoltre, uno sviluppo sufficiente delle aree del linguaggio (Broca e

Wernicke), con un volume cerebrale di 700 cc;

Homo erectus il volume cerebrale supera i 900 cc. Si ha un proto linguaggio, con

- scambio di informazioni elementari sul mondo e sulla vita sociale;

Homo sapiens il volume cerebrale sfiora i 1200 cc. Fa la sua comparsa la capacità

- simbolica, come dimostrato dalla costruzione di manufatti, che fanno pensare ad una vita

sociale abbastanza complessa da includere un linguaggio evoluto. Le capacità cognitive

necessarie per la costruzione di oggetti, però, sono meno complesse di quelle utili per il

linguaggio ed infatti anche l’Homo habilis costruiva degli strumenti, il che fa pensare che

possedesse una qualche forma di comunicazione;

Homo sapiens moderno il volume cerebrale è di 1400 cc.

-

L’invenzione della scrittura ha reso possibile il trasferimento di informazioni (e di cultura) in senso

trans generazionale, fornendo supporti esterni all’intelligenza umana. Lo sviluppo del pollice

opponibile, del resto, ha messo in evidenza l’esistenza dell’embodied cognition, della capacità

umana di embodizzare degli strumenti che fungano da prolungamento di sé per l’adempimento di

un dato compito. Gli ominidi han sviluppato capacità comunicative perché dotati di cervello

(cognizione interna), ambiente (cognizione esterna) e caratteristiche fisiche idonee (cognizione

incarnata). In Europa, le tracce più antiche di simboli grafici risalgono a 35.000 anni fa: nel 15.000

a. C., la tecnica di incisione e di pittura è analoga a quella attuale. Si possono distinguere diversi tipi

di scrittura: pittogrammi (numero di segni >1000), logogrammi (tra 100 e 1000), scrittura sillabica

(fra 40 e 100), alfabeto (<40). Il più antico segno di pittogramma lo si ritrova in Mesopotamia e

risale al 3.500 a. C.; i pittogrammi hanno il limite di creare nessi associativi tra i disegni che sono

intuitivi solo per chi già è a conoscenza della storia: la pittografia, dunque, non è una

rappresentazione permanente della comunicazione extralinguistica. Anche i logogrammi sono

comparsi in Mesopotamia, a partire dal 3000 a. C.: la differenza sta nel fatto che qui si usa una

sintassi, che permette di passare dall’associatività alla composizionalità, la quale è tipica del

linguaggio. La sostituzione degli ideogrammi con i fonogrammi, avvenuta in Mesopotamia intorno

al 2.500 a. C., riduce i segni utilizzabili a meno di 100 e permette di non limitarsi più a guardare i

segni ma di provare a decifrarli, anche se non ancora a leggerli (ex. raffigurazione di qualche chicco

di riso per indicare l’atto di ridere non può essere letto perché non è una parola, ma può essere

compreso). Il passaggio da simbolo a suono è stato reso possibile dagli Egizi, che utilizzavano i

disegni di oggetti pronunciati in un certo modo per far leggere quella parola all’interno di un

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messaggio (ex. “sedia” si diceva “pe” la rappresentazione della sedia può indicare sì l’oggetto

ma anche il semplice suono usato per definirla). L’ultimo step è dato dall’invenzione dell’alfabeto:

mentre i Fenici usavano solo le consonanti, i Greci, intorno al 100 a. C., hanno realizzato la

corrispondenza tra comunicazione parlata e scritta, il tutto a vantaggio della trasmissione culturale.

Mentre gli esseri umano sono propensi ad “insegnare” per permettere il passaggio della cultura di

generazione in generazione, i primati si limita a “mostrare come fare” e la loro incapacità di imitare

fa sì che non sia possibile un apprendimento culturale, inteso come apprendimento

sistematicamente condivisibile con un gruppo di individui.

Jerison ha proposto il concetto di quoziente di encefalizzazione (EQ), che fa riferimento a quanto la

massa del cervello superi o meno quella che sarebbe prevedibile in un organismo di quelle

dimensioni: gli esseri umani hanno un cervello di dimensioni triple rispetto a quello di altri primati;

la differenza, però, non è solo quantitativa, ma riguarda l’organizzazione stessa. La riorganizzazione

cerebrale, dunque, non aggiunge capacità, ma le moltiplica. L’Homo sapiens ha, oggi, 200 cc di

cervello dedicati al mantenimento delle funzioni corporee e 1250 dedicati alle funzioni psichiche

superiori: questo, però, non basta a spiegare cosa ci differenzi dagli altri primati. Per quantificare le

differenze tra i diversi ominidi si può utilizzare il rapporto encefalico micro/macro, laddove la

microarchitettura si riferisce al numero di neuroni e la macroarchitettura all’organizzazione del SN.

Una parte del cervello, dunque, è dedicata al cervello stesso, di cui ottimizza le funzioni: Bara

ipotizza che sia del 5%. Il rapporto che si può fare per confrontare le specie X ed Y è:

microcognizione (cortex cognitiva) di X x

macrocognizione (cortex dedicata alla gestione dell’architettura) di X +

cortex comune di X

______________________________________________________________

microcognizione (cortex cognitiva) di Y x

macrocognizione (cortex dedicata alla gestione dell’architettura) di Y +

cortex comune di Y

Nell’Homo sapiens, l’encefalo è di 1400 cc, di cui 200 cc sono destinati al controllo del corpo e 200

sono cortex in comune con gli altri primati; dei restanti 1000 cc, la microcognizione riguarda il il

95% (950 cc), mentre la macrocognizione copre il 5% (50 cc). Questo per capire che, se

l’encefalizzazione spiega un rapporto al massimo di 7/1 fra esseri umani e primati, la

riorganizzazione spinge a rapporti moltiplicativi.

Nel bambino, ad 8-9 mesi le massime connessioni tra le aree corticali maggiori sono già stabilite.

Sul versante cognitivo e linguistico, i primi cambiamenti iniziano a manifestarsi intorno ai 16-24

mesi, con un aumento delle sinapsi entro e tra le regioni corticali, col raggiungimento del 150%

delle sinapsi che si trovano nell’adulto. A partire dai 4 anni, però, inizia un lento declino, con morte

neuronale, degenerazione sinaptica e calo dei livelli di metabolismo cerebrale. Questa eliminazione

lenta e selettiva si stabilizza nell’adolescenza (16 anni circa).

Sull’evoluzione della comunicazione, sono state avanzate diverse ipotesi:

H della continuità linguistica il linguaggio deriva dalla comunicazione extralinguistica e,

- secondo Piaget, si evolve a partire dal sistema motorio. Se però fosse vero, come fa mostrare

Chomsky, i bambini tetraplegici dovrebbero avere seri problemi nello sviluppo linguistico;

H della discontinuità linguistica secondo Chomsky, il linguaggio non ha nulla a che

- vedere con la selezione darwiniana, perché non si è affatto evoluto ma è comparso

nell’essere umano con un salto evolutivo ed inspiegabile, andando ad arricchire le gi&ag

Dettagli
Publisher
A.A. 2016-2017
29 pagine
4 download
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/01 Psicologia generale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher JennyJenny di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia della comunicazione e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Torino o del prof Bosco Francesca.