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LE EPISTOLE
Fra il 20 a.C. e il 14 videro la luce i due libri delle Epistole, accomunati dalla presenza costante di un
destinatario dei singoli carmi, ma ben diversi per temi e per contenuto: il I libro, infatti, si ricollega alle
tematiche già sviluppate nelle Satire, mentre il II affronta argomenti di carattere letterario. La presenza di un
destinatario lontano è costante nelle Epistole e conferisce alla voce del poeta un carattere più personale,
imponendogli di tenere un atteggiamento consono alla presenza di un interlocutore reale, a cui andranno
rivolti consigli, moniti, suggerimenti, riflessioni. Si può aggiungere che le differenze sostanziali risiedono
nell’assenza, nel sermo delle Epistole, dello spirito aggressivo di origine comica che aveva caratterizzato le
Satire e nella diversa ambientazione: nelle satire, infatti, è privilegiata la città, mentre le epistole implicano
uno spostamento verso spazi lontani e appartati, proprio come l’angulus vagheggiato da Orazio. L’elogio
dell’aurea mediocritas è il motivo dominante dell’ultima opera gnomica oraziana: esso assurge a regola di
vita che garantisce la serenità. La moderazione è necessaria anche nel rapporto coi potenti, in cui da un lato
occorre evitare l’adulazione e il servilismo, dall’altro bisogna imporsi una condotta di vita riservata, badando
bene a non urtare la loro suscettibilità. Si capisce bene come nelle Epistole l’ideale del giusto mezzo sia
destinato a entrare in conflitto con la ricerca dell’autàrkeia.
LE EPISTOLE DEL PRIMO LIBRO
EPISTOLA I Si capisce, dall’inizio della prima epistola, che Mecenate ha invitato Orazio a continuare nella
sua attività di poeta lirico; il poeta, però, si sente troppo in là con gli anni e ritiene che sia tempo di lasciare i
versi di poco conto per mettersi alla ricerca del vero e dell’onesto. Suo proposito è quello di alternare
l’impegno pubblico con la meditazione sui precetti di Aristippo. La prima virtù consiste nel fuggire il vizio, la
prima saggezza nell’evitare la stoltezza.
EPISTOLA II Lollio Massimo,
Destinatario della seconda epistola è un personaggio dall’incerta
identificazione, che viene rappresentato nel pieno fervore degli studi di retorica a Roma, mentre Orazio a
Preneste ha terminato la rilettura dei poemi omerici, che a parer suo contengono i migliori precetti sul giusto
modo di vivere. Gli uomini, secondo Orazio, sono una massa indistinta, avvezza solo a mangiare. È bene,
invece, adoperarsi subito per conseguire la salute dell’animo, senza rinviare ad altra occasione il momento
opportuno; bisogna accontentarsi di ciò che basta, cessando di desiderare il superfluo. Per raggiungere la
tranquillità bisogna fuggire i piaceri, l’avidità, l’invidia, l’ira; occorre, insomma, frenare il proprio animo
perché non prenda il sopravvento.
EPISTOLA III Giulio Floro,
La terza epistola è diretta a che sta accompagnando Tiberio nella sua spedizione
in Oriente: il poeta vuole sapere dove si trovi e che cosa stiano facendo gli altri letterati al seguito di Tiberio.
EPISTOLA IV Albio Tibullo.
L’Albio a cui è indirizzata la quarta epistola è il poeta elegiaco Egli si è ritirato
in solitudine dalle parti di Pedum e Orazio può solo chiedergli se stia componendo versi oppure vaghi per le
selve. Albio ha avuto in dono bellezza, intelletto, ricchezze; eppure il suo animo oscilla tra speranze e ansie.
Egli dovrà considerare ogni giorno come l’ultimo per lui: in tal modo giungerà tanto più gradito il tempo che
non è atteso. Tibullo è rappresentato con i tratti del melancholicus, che evita gli uomini ed è tutto chiuso in
se stesso.
EPISTOLA V Torquato
La quinta epistola è rivolta a un d’incerta determinazione e costituisce un singolare
invito a cena da parte di Orazio: il poeta, infatti, è pronto ad offrirgli vino di Minturno e Sinuessa, ma se
l’amico ne ha uno migliore, lo porti pure con sé. Tutto è pronto in casa di Orazio.
EPISTOLA VI Numicio
Nella sesta epistola – un destinatario probabilmente fittizio – è invitato a restare
imperturbabile di fronte a qualsiasi evento, perché questa è l’unica via che conduce alla felicità. È un male,
tuttavia, anche la pratica eccessiva della virtù, che bisogna perseguire senza eccedere in un rigorismo al di là
della misura; allo stesso modo bisogna evitare gli eccessi nel desiderio di fama e di ricchezza. Se si è malati
nel fisico, è necessario curarsi; se, invece, si è malati nello spirito occorre abbandonare i piaceri e seguire la
virtù.
EPISTOLA VII Mecenate,
Destinatario della settima epistola è a cui Orazio aveva promesso di rimanere in
campagna solo pochi giorni; ma è già passato l’agosto e ancora non ha fatto ritorno a Roma. Se, però,
Mecenate vuole che il poeta viva in buona salute, deve consentirgli di restare lontano da Roma in autunno e
in inverno. Se, però, Mecenate vuole che non si allontani mai da lui, allora gli renda il vigore dei suoi giovani
anni. A lui non si addice la regale Roma; egli preferisce Tivoli o Taranto. La morale conclusiva è che quanti si
accorgono di aver putato in peggio la propria condizione di vita devono affrettarsi a far ritorno al loro stato
primitivo.
EPISTOLA VIII Albinovano Celso,
Nell’ottava epistola la Musa è invitata a portare i saluti del poeta ad che
milita nell’armata di Tiberio in Oriente. All’amico la Musa dovrà riferire in quale condizione si trovi il poeta,
che non vive felice perché la sua mente è pervasa da un funesto torpore, dal quale non intende sollevarsi. A
nulla valgono i medici e gli amici fedeli, che anzi lo irritano e ne suscitano l’ira. Dopo aver dato queste notizie,
la Musa dovrà informarsi sulla salute di Celso e sull’incarico che egli sta tenendo presso Tiberio.
EPISTOLA IX Tiberio
Nella nona epistola Orazio comunica a che l’amico Settimio gli ha chiesto con
particolare insistenza d’essere a lui presentato in termini elogiativi. Orazio ha fatto di tutto per sottrarsi al
compito, badando bene, però, a non venir meno agli obblighi dell’amicizia; alla fine ha ceduto, per non essere
tacciato di egoismo.
EPISTOLA X Aristio Fusco,
Nella decima epistola Orazio, che predilige la campagna, saluta che ama la città:
ma questa è l’unica differenza fra i due amici, i cui punti di vista coincidono in tutto. Bisogna metter da parte
la smania di grandezza, perché chi si accontenta del poco può vivere meglio dei re in un’umile dimora.
EPISTOLA XI Bullazio
Nell’undicesima epistola Orazio chiede a se le più note città dell’Asia Minore possano
reggere il confronto con Roma. Gli uomini sono tormentati da una smaniosa inerzia: inseguono la felicità
viaggiando, quando ciò che si cerca è a portata di mano; purché non venga a mancare l’equilibrio interiore.
EPISTOLA XII Iccio,
Nella dodicesima epistola, diretta a Orazio mette subito in chiaro che, se è in buona
salute, le ricchezze di cui dispone non potranno aggiungere nulla alla sua felicità. Benché circondato da
persone avide di guadagno, Iccio s’immerge completamente nello studio dei fenomeni dell’universo.
EPISTOLA XIII Vinnio
Nella tredicesima epistola l’amico riceve l’incarico di portare ad Augusto i libri di
poesia di Orazio. Dovrà farlo, però, nel momento più opportuno per il principe, evitando così di rendere
odioso quel dono con uno zelo eccessivo. Giunto alla fine del suo viaggio, Vinnio non dovrà tenere i rotoli
sotto il braccio, per non apparire goffo e impacciato.
EPISTOLA XIV fattore,
Nella quattordicesima epistola Orazio si rivolge al suo che controvoglia si occupa
del piccolo podere sabino, e lo sfida a una gara singolare: si tratta di vedere se sia più abile il poeta a togliere
i difetti dall’animo o il fattore a strappare le erbacce dal campo. Orazio giudica felice chi vive in campagna, il
fattore, invece, chi vive in città. Orazio preferisce la vita tranquilla in campagna, dov’è sconosciuta l’invidia e
nessuno si occupa degli affari altrui; il fattore, invece, preferisce vivere in ristrettezza fra gli schiavi di città:
ma è bene che ognuno continui a fare il proprio mestiere.
EPISTOLA XV Vala
Nella quindicesima epistola il poeta chiede notizie all’amico su Salerno e Velia: gli
interessa sapere quale sia il clima, quale il carattere degli abitanti, quali le strade per giungervi, dove il grano
cresca più abbondante e se l’acqua sia piovana o sorgiva, dove sia maggiore la produzione di lepri e cinghiali
e più pescoso il mare. Dal mare Orazio vuole ritornare grasso come uno dei Feaci.
EPISTOLA XVI Quinzio,
All’inizio della sedicesima epistola Orazio descrive il suo fondo sabino all’amico che
a Roma tutti ritengono felice e fortunato; egli, però, deve credere più a se stesso che agli altri: stia attento,
dunque, a non prestare orecchio ai pareri del volgo e a non dissimulare la sua vera condizione. Se il volgo ci
accusasse a torto delle peggiori nefandezze non ne rimarremmo turbati: di conseguenza non bisogna
rallegrarsi dei suoi elogi. L’uomo onesto non è quello che solo esteriormente appare tale, ma chi lo è anche
interiormente. L’uomo probo e saggio è come il Dioniso euripideo, che si considerava libero nonostante il re
Pènteo gli minacciasse i peggiori tormenti: se fosse necessario, troverebbe la libertà nella morte.
EPISTOLA XVII Sceva
Nella diciassettesima epistola Orazio si rivolge a per offrirgli qualche consiglio sul
comportamento da tenere nei confronti dei potenti. Se vuole starsene tranquillo, farà bene ad andarsene in
campagna, perché la felicità non è solo dei ricchi e non è vissuto male chi è rimasto nell’ombra. Se, però,
vuole raggiungere una posizione vantaggiosa, dovrà accostarsi a chi possiede grandi sostanze. Con i potenti
però non bisogna mai assumere un atteggiamento da mendicanti. Non bisogna neppure lamentarsi
continuamente delle difficoltà.
EPISTOLA XVIII Lollio Massimo
La diciottesima epistola è rivolta allo stesso a cui è diretta la seconda. Nel
professarsi amici di un potente, c’è il rischio di sembrare dei parassiti; non minore, però, è il vizio del rustico,
che con i potenti si accapiglia per questioni di nessun valore. Se un ricco vuole danneggiare un povero, gli
regala vest