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Estratto del documento

XIII).

Amore è un desiderio che proviene dal cuore per

piacere sovrabbondante,

Consacrato nel ruolo di Giudice da ciò che di lui che genera gli occhi e la vista, e ciò che l’uomo

aveva predicato l’abate di Tivoli, questa tenzone è vede viene nutrito da ciò che l’uomo medita nel

un vero “gioc partit”, in cui il Lentini è giudice di proprio cuore

ultima istanza Qualche volta l’amatore si innamora senza vedere,

Giacomo da Lentini ma questo non è vero amore, perché il vero amore

stringe con furore (la fina amor) e proviene solo

Amor è un desio che ven da core dalla vista

per abundanza de gran plazimento,

e gli ogli en prima generan I'amore

e lo core li dà nutrigamento. Perché la capacità di giudizio della vista permette di

distinguere ciò che è buono e bello da ciò che

perverso e cattivo, e permette di capire di cosa

Ben è alcuna fiata om amatore consistono le cose naturalmente, che super

senza vedere so 'namofamento, l’esteriorità

ma quell'amor che strenze cum furore E il cuore, del quale queste informazioni vengono

da la vista di gli ogli ha nascimento: racchiuse e rimeditate, produce un’immagine,

piacevole. Ed è questo l’amore che impera fra la

gente.

ché gli ogli representan a lo core

d'onni cosa che veden bon' e rio,

cum'è formata naturalemente;

e lo cor, che di zo è concipitore,

imazina, e li plaze quel desio:

e questo amore regna ftala zente

core qui inteso come sede delle emozioni

Giacomo distingue fra un amore istintivo che può nascere anche da una percezione visiva. L’idea

di Giacomo da Lentini si allinea a quella di Jacopo Mostacci che amore non sia sostanza separata,

e definisce amore in termini strettamente fisiologici, diversamente da Pier della Vigne che ne

analizza gli effetti a lungo termine, ma al contrario gli effetti immediati: vista, riflessione ed

immaginazione.

Giacomo da Lentini attinge, originalmente, alla cultura medica ed a fonti mediche latine: il vro

amore che passa per la vista è fondamentalmente richiamo al trattato di Andre Cappellano, De

Amore, che si apre con una definizione dell’oggetto di cui il trattato si occupa, l’amore è

fondamentalmente “accidente in sostanza” come avrebbe detto Dante, cioè perturbazione non

necessariamente negativa, di una sostanza pre esistente: la variazione di stato del soggetto

innamorato, preda d’amore, non dipende da volontà esterna, ma dalla sua stesa fisiologia. La

passione innata e potenzialmente connaturata alla fisiologia umana e che procede dalla vita, alla

riflessione smodata di fronte all’oggetto d’amore; cioè dalla immoderata cogitazione.

L’immoderata cogitazione però da parte di Giacomo è anche rinvio diretto alla fisiologia rispetrto

alle cellule celebrali, in quanto tra porzioni del cervello: per la scienza medica dell’epoca le facoltà

intellettive erano divise in aree in cui l’area dell’immaginazione era frontale, la razionale antistante

e elaborativa dei dati visivi, ed infine la rammemorativa, cioè la memoria, che immagazzinava i

dati. L’immaginativa, ricavartice dei dati sensibili, provvedeva ad una proiezione iconica e

rielaborativa.

Il richiamo all’immaginativa è interessante in relazione a quello che il verso 7 dice a proposito

dell’amore rispetto al quale vuole dare definizione, e cioè quello suscitato dalla visione, che

strenze cum furore: il Lentini fa qui riferimento al furor che nella lingua medica era sinonimo di

pazzia, secondo terminologia tecnica. Soltanto la vista può corroborare l’amore del poeta verso la

propria donna, l’amore fa pazzamente innamorare.

Le fonti alle quali attinge Giacomo da Lentini fanno riferimento a trattati di medicina risalenti nella

loro veste originaria al X secolo, e che raggiungono l’Occidente nelle traduzioni latine che ne

danno alcuni studiosi, proprio attraverso il meridione d’Italia. In questi trattati arabi si parla di un

amore che costituisce patologia medica, cioè l’Amor per Eros, cioè equiparabile ad un furor, una

pazzia amorosa. E’ l’amore che porta a dun a condizione di melanconia, cioè di disturbo degli

umori , proposti da Ippocrate come

1. malinconico, con eccesso di bile nera, è magro, debole, pallido, avaro, triste;

2. il collerico, con eccesso di bile gialla, è magro, asciutto, di bel colore, irascibile, permaloso,

furbo, generoso e superbo;

3. il flemmatico, con eccesso di flegma, è beato, lento, pigro, sereno e talentuoso;

4. il sanguigno, con eccesso di sangue, è rubicondo, gioviale, allegro, goloso e dedito ad una

sessualità giocosa.

E che solo se equilibrati garantivano una condizione di salute, ma se uno dei quali diventava

peccante per eccesso o difetto, l’organismo si ammalava. Quando era la melanconia ad eccedere,

l’organismo, cadeva in uno stato di prostrazione, tipico dell’innamorato non corrisposto, che arriva

a creare un cortocircuito nella sede della vis immaginativa, che avendogli proposto un oggetto del

desiderio viene proiettato in immagine attorno alla quale il soggetto fantastica, desiderandola. La

vis Immaginativa sottrae quindi elementi alla vis razionale, l’immagine della donna amata non è

razionalizzabile, e da ciò proviene l’eccesso di melanconia e dunque la condizione patologica che

può portate alla morte. Uno dei trattati più interessanti è quello intitolato e scritto da un medico

arabo vissuto nel X secolo. Che giunge in Sicilia e che viene tradotto da Costantino Africano, del

XI, secolo, che gli dà il titolo di “Viaticum Peregrinantis”, in quanto repertorio di tutte le malattie che

incorrono specialmente in chi viaggia, e chi si sposta, conoscendo diversi soggetti, è tipicamente

oggetto di questo amore furente.

Nel Viaticum la serie di patologie che precede l’amor eros comprende l’ubriachezza e lo starnuto,

nonché le rispettive cure.

In particolare, la cura descritta per l’amor eros risulta consistere nella distrazione, nella sottrazione

della vis immaginativa a quell’unico oggetto, occupandosi d’altro.

24/02/17

Cercando di chiudere la parentesi riguardante la scuola Siciliana è necessario analizzare due

componimenti proposti da due grandi personalità politiche del tempo: Federico II e suo figlio, Re

Enzo.

Re Enzo era figlio illegittimo avuto da una gentildonna tedesca, nato attorno al 1220, e Re in

quanto per motivi strategici sposò una nobildonna sarda, Adelasia di Torres, vedova di Ubaldo

Visconti, giudice di Gallura, appartenente alla famiglia Visconti di Pisa; grazie alla quale ebbe la

possibilità di controllare ed amministrare i possedimenti Sardi. Fedelissimo al padre re Enzo finirà i

suoi giorni non nel regno siciliano, bensì a bologna in condizione di prigionia cortese, presso il

palazzo di re Enzo, e morirà nel 1272, dopo essere catturato nel 1249 nella battaglia della

Fossalta, uno dei tanti scontri che avvennero nell’Italia centro settentrionale verso il 1250, fra

potere imperiale e realtà comunali, che si erano consociate in una II lega lombarda (La prima

aveva sconfitto Barbarossa, nonno di Federico II alla fine del I secolo). Re Enzo non sarà più

rilasciato anche perchè le rovine della casa Sveva, sgretolatesi con la morte di Federico II, dopo

un decennio la morte di Manfredi, ed infine l'ultimo estremo tentativo di Corradino di Svevia, fallito

miseramente, non gli permisero di essere rilasciato sotto pagamento di un riscatto. La prigionia di

Re Enzo, stando alle fonti manoscritte, risulterà essere una prigionia che gli permetterà di

continuare la sua attività poetica. A Bologna, proprio nel corso degli anni della prigionia di Enzo, si

mette in luce un rimatore, Semprebene da Bologna, che collaborò nella stesura e nel rifacimento

di una canzone di Re Enzo, ed il cui nome è anche legato ad un altro rimatore, Percivalle d'Oria,

genovese ma ghibellino, legato alla curia federiciana, con il quale intrattenne diverse

collaborazioni: i manoscritti rimandano canzoni scritte a quattro mani.

Il corpus delle rime di Federico II e di Re Enzo, non è spregevole per estensione: rimangono di

entrambi canzoni distese e sonetti brevi (14 endecasillabi).

Due sonetti, per contenuto, eccentrici rispetto alle tematiche contenutistiche ricorrenti nei rimatori

siciliani. Sonetto di Federico II

Quello di Federico II è un sonetto relativo al concetto di nobiltà e relativo agli elementi, nonché alle

caratteristiche che un nobile deve incarnare al fine di uno svolgimento virtuoso della sua attività di

uomo di stato; nonché un invito alla prudenza:

"Misura, providenza e meritanza

fanno I'uomo eser saggio e conoscente

e 'n ogni nobeltà I'uom se n'avanza

e ciascuna ricchezza fa prudente"

Il concetto di misura appare nel sonetto concepito come oltre che relativo alle normali virtù

predicate nella filosofia del tempo che facevano riferimento alla dimensione intermediaria fra due

estremi viziosi l'uno e l'altro, la mediatas e la mediocritas dipendono dalla capacità di

discernimento propria degli uomini e dalle facoltà intellettive che decidono quale sia la via del

mezzo. Ma misura è anche concetto

trobadorico: fra i trovatori esisteva una tetralogia di virtù laiche e cortesi, tipiche dell'esercizio

amoroso, sintetizzate in quattro termini:

* misura, come capacità di equilibrio

1)prodezza, come capacità in armi ma anche in amore, concepita in questo caso come la capacità

di saper osare nel momento opportuno

2)lealtà, il concetto feudale di fedeltà, trasferito nel rapporto amoroso

3)mercè, assume le funzioni di parola chiave nella discussione avviata da Jacopo Lentini e che

viene concepita come "contraccambio" fra due amanti

* providenza invece intesa come prudenza, una delle virtù cardinali, ed intesa come

"antivedere", cioè come capacità dio basarsi sulla conoscenza pregressa per prevedere lo

svolgimento delle vicende future.

* meritanza, intesa similmente alla mercè, ed è l'indole propria di chi è signore di terre, di

contraccambiare il servizio ricevuto, distribuendo equamente le ricchezze possedute

Misura, prudenza e meritanza risultano essere ciò che rendono l'uomo saggio e prudente, non

ogni uomo, ma chi è nobile, e tale triade abitua ad operare convenientemente i beni di cui il nobile

dispone.

Né di richezza aver grande aundanza

faria l'uomo ch'è ville esser valente,

ma della ordinata costuman

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Publisher
A.A. 2016-2017
88 pagine
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SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Giorgiabuso di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura medievale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi Ca' Foscari di Venezia o del prof Drusi Riccardo.