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Esterina. La nube può essere una fumea. Il vento riporta la vita (il vento è la fumea). Vv. 13-14 calco
leopardiano (“il limitare di gioventù salivi”). “Venti autunni” perché forse Esterina era nata d’autunno. Col
passare del tempo si arriva al declinare del tempo, dove le primavere sono passate, perché si arriva sempre
all’autunno. Il “rintoccare” richiama un suono dalle elisie sfere. Il poeta spera che il presagio che viene
dall’alto sia positivo. Montale è come se stesse davanti al mare, dove Esterina è distesa al sole su uno scoglio
è una creatura solare. La giovinezza viene insidiata dal trascorrere degli autunni, come la lucertola è
minacciata dal lacciolo d’erba del fanciullo. Saba è un altro di quei poeti che risente del messaggio
leopardiano, però con una straordinaria e positiva adesione alla vita. C’è un improvviso abbassamento di
tono: in Montale c’è una sorta di epica del quotidiano, la semplicità della vita di tutti i giorni. Esterina è una
creatura della natura. Il “noi” finale indica un gruppo di poeti, che non hanno una poetica che teorizza
l’assenza, ma l’immanenza nelle cose di tutti i giorni. Esterina non è solo gaia, ma è anche non sicura del
futuro. Il “ponticello esiguo” è una passerella, un ponticello tra la terra e il madre. Il “gorgo che stride” è
ancora un’immagine minacciosa di pericolo. Esterina arriva fino alla fine del ponticello, esita ma poi si lancia,
come se il vento l’avesse presa e trasportata nel mare. Alla fine torna di nuovo il “noi” che osserva. Esterina
è un’immagine reale ma anche ideale, in cui il poeta vorrebbe identificarsi perché rappresenta la giovinezza.
Il poeta però appartiene alla razza che rimane sulla terra, incapace di essere spensierato come Esterina.
Montale ci dice che la vita è l’impegno di stare con i piedi ancorati alla terra.
“Caffè a Rapallo” nel parlare dell’amico Sbarbaro, che si perde nei vicoli di notte, Montale ci mostra
l’interno di un caffè a dicembre, dove dentro ci sono donne, e fuori passa un grande frastuono di fanciulli.
Nella poesia seguente, “Epigramma”, Sbarbaro è come un estroso fanciullo.
Segue “Sarcofaghi” sono quattro testi di ekphraseis, cioè delle descrizioni d’arte di scene istoriate sui
fianchi dei sarcofaghi. Colpisce l’immagine di un mondo ritratto nella vita; è una vita congelata, fissata come
immagine che richiama la continuità con la morte. Troviamo immagini come emblemi che ritornano nelle
poesie di Montale (il girasole impazzito di luce, la nave che non lascia scia, la danza dei conigli, etc).
“Vento e bandiere” è del ’26 e ’27 e appartiene a un periodo successivo alla prima edizione.
Sezione “Ossi di seppia” ciò che qui emerge è l’affermazione di una volontà morale che è quella di lasciare
una traccia per gli altri; questa dimensione morale noi la ritroviamo in tutta “Ossi di seppia” ed è
continuamente contraddetta dalla necessità, dalla vita.
Poesia “Agave sullo scoglio” è l’emblema della resistenza. C’è qui l’accettazione coraggiosa di una
conoscenza in negativo: non si può affermare niente in positivo. Viene usato l’imperativo negativo, ed è un
sistema che indica il costante rapporto con il mondo poesia relazionale, che esiste solo in relazione con
l’altro da sé.
Poesia “Non chiederci la parola” usa ancora il plurale. È in polemica con la poesia pura (Ungaretti), contro
la parola assoluta che suggerisce dei significati alti. L’animo del poeta è informe e per questo non si può dare
una parola piena di forma. Montale è poeta delle immagini visive in Ossi di seppia. L’animo somiglia a un
prato polveroso, secco, manca della vita: però il croco nasce lo stesso, è un miracolo. L’uomo se ne va sicuro
perché non vede la verità né la realtà: è un’ombra, è un uomo inconsapevole perché non si cura del suo
destino. Da Gozzano a Montale passa il messaggio della perdita delle certezze e della miseria del poeta. Il
poeta si può distinguere solo per negazione: è un poeta negativo che nega l’identità, perché l’identità è
qualcosa che si deve costruire, ma è negata dalla vita stessa. Montale quindi afferma un messaggio di tipo
razionale: una poesia razionale, oggettiva, che guarda il mondo e la vita senza illusioni, ma cercando ciò che
di positivo ancora c’è nel mondo.
Poesia “Meriggiare pallido e assorto” la forma arieggia il sonetto; sono 4 strofe: tre di 4 versi e una di 5.
Sono versi lunghi poiché è una poesia discorsiva. Montale usa la sintassi, perciò è una poesia che si fa discorso.
Si svolge in pieno giorno, nella luce Montale è poeta diurno. Qui c’è un sole che abbaglia. Abbiamo una
poesia raziocinante. Qui la struttura sintattica è più semplice, con verbi all’infinito e alcune proposizioni
temporali. Predomina il novenario, anche pascoliano. La prima strofa è molto pascoliana. “Pallido” e
“assorto” si riferisce al poeta. Compare l’immagine dell’orto che ha un muro. Riprende la metafora dell’orto
recintato da un muro. Il muro è rovente per il sole. Compare una figura umana: c’è un io imprecisato che
trascorre il pomeriggio; ma non c’è la sua presenza fisica (tecnica metafisica). È un pomeriggio desolato, in
cui si sentono i suoni della natura, natura che non si vede ma di cui si sente una traccia (come in Pascoli). C’è
una precisione naturalistica che qui richiama l’osservazione dei minimi dettagli del paesaggio. Le formiche
sono un’immagine simbolica che torna più volte, a partire dalla “Ginestra” di Leopardi e dal “Ciocco” di
Pascoli, ed è metafora dell’attività umana che il destino travolge. Non ci sono movimenti: il soggetto è fermo,
osserva ed ascolta la natura. Il mare da lontano sembra pietrificato: è un mare a scaglie immagine di
grande fortuna (ritorna in Calvino ne “Il sentiero dei nidi di ragno”). Questi elementi anticipano la poesia del
“male di vivere”. Alla fine il soggetto si muove, va nel sole che abbaglia. L’immagine del muro è diventata
quella di una muraglia invalicabile, che è ricoperta alla sommità di cocci aguzzi di bottiglia immagine
metafisica della vita che è come una muraglia impenetrabile e con pezzi di vetro alla sommità. Il muro
impedisce il passaggio: la vita è il velo di Maya.
Poesia “Il male di vivere” (p. 44) in questo paesaggio brullo e riarso, sono stati messi tutta una serie di
elementi di vita vegetale e animale. È una poesia programmatica, dove nella prima strofa c’è l’enunciazione
della vita che è definita come un “male di vivere”, che il poeta ha incontrato proprio nell’osservazione minuta
del paesaggio. Sottolinea con l’infinito sostantivato questo percorso terribile della morte della foglia, che si
sta incartocciando. Il cavallo stramazzato è forse ricordo di Verga. La conoscenza non ha fine, quindi il poeta
non può sapere bene. C’è un prodigio che schiude l’indifferenza del destino; la statua, che è l’immagine
pietrificata e ideale dell’uomo perché allude artisticamente all’umano; la nuvola e il falco, che sono degli
emblemi.
17^ LEZIONE
“Meriggi e ombre” (1922-1924) sono le prime poesie composte. Il titolo è indicativo perché richiama il
tema del meriggio (dominante dall’800 in poi e dominante in Montale) e delle ombre. Il meriggio è il
momento della luce violenta, che contrasta con l’ombra (temi molto cari a Montale). La sezione inizia con
“Fine dell’infanzia”, una lunga poesia di rievocazione della propria infanzia, con il passaggio dall’adolescenza
alla giovinezza, e quindi alla coscienza (principio di realtà che impone il prendere atto della necessità). Le
prime strofe riguardano la descrizione del paesaggio dell’infanzia del poeta: paesaggio estivo delle Cinque
terre. La descrizione è quella delle scogliere, del mare che romba e delle spiaggette. Alla fine della terza strofa
emerge l’elemento del ricordo, della memoria e della ricordanza. Nella quarta strofa compare il limite del
varco, un limite oltre il quale non si poteva andare, né può la memoria. Il racconto si articola tra presente e
passato (imperfetto diegetico e presente indicativo) questo gioco definisce il rapporto tra Montale e
Leopardi. Nella memoria il poeta reinterpreta quel paesaggio inospitale e spaventoso (con grotte, buchi nel
terreno e muffe). Il poeta ricorda un posto totalmente inospitale, in cui ogni impulso umano sembra
seppellito. “Diroccia” è un neologismo montaliano. Nell’infanzia ogni attimo “bruciava” le vicende umane
sono cenere. Il “noi” richiama una natura debole, non solo quella della loro infanzia, ma in generale quella
umana. La natura umana è debole, ma non la natura in sé. La natura è un grande scenario che si contempla
con meraviglia. “Affisare” è parola molto ricercata e sublime. La natura era un miracolo che l’anima umana
non sognava di raggiungere. Il mare è “florido” e “vorace”, che tutto corrode e distrugge. Il mare crea la vita
ma anche la distrugge. La “tamerice” è una pianta della scogliera. “Un’alba dové sorgere” Leopardi. Il
cigolio e lo stridere annunciano sempre un messaggio negativo. Per l’infanzia anche un cortile chiuso si
esplora come se fosse un mondo intero. “L’ora che indaga” elemento intratestuale presente ne “I limoni”.
L’infanzia è morta.
“L’agave sullo scoglio” “Scirocco”, “Tramontana” e “Maestrale”. Qui inizia il discorso discenditivo di
Montale, che rappresenta l’esistenza come bruciata dall’esperienza. L’agave sullo scoglio è un invito alla
resistenza. “Rabido” significa rabbioso. “Gialloverde” è una condensazione in senso impressionistico cara ai
vociani. I “bocci” torneranno nell’ultima poesia della raccolta, “Riviere”, però come simbolo di esplosione