Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Come infatti fino ad una trentina d'anni fa i subordinati lavoravano anche 30 anni presso lo stesso
datore, dunque un simile problema si avvertiva in maniera meno pressante, e riguardava al massimo
dirigenti e quadri, la maggiore mobilità professionale del mondo lavorativo odierno adesso, porta
sempre più spesso all'applicazione di clausole di non concorrenza, anche applicate a professionalità
per cui si potrebbe ritenere impensabile un simile problema (es. muratore edile), finalizzate a vietare
al lavoratore di fare concorrenza in qualunque modo all'imprenditore che lo assume, non solo nel
periodo di rapporto di lavoro, ma anche successivamente, per un periodo di 3 / 5 anni (3 per operai,
impiegati, e quadri; 5 per i dirigenti).
A differenza delle altre clausole sin qui elencate, la clausola di non concorrenza ha un costo, ossia è
onerosa per legge; deve inoltre avere forma scritta, ed essere determinata temporalmente e
geograficamente (es. patto di non concorrenza a Milano, nella provincia di Milano, in Lombardia,
ecc.).
Il prezzo di tale clausola, indica la legge, non può essere irrisorio e va parametrato al sacrificio che
si impone al collaboratore. Tale prezzo può sia essere quantificato e liquidato al momento della
stipula della clausola, che fissato in modo variabile in un “quantum” al mese, come se si trattasse di
un aumento retributivo; in tal caso il lavoratore si avvantaggia di una busta paga più sostanziosa, ed
il datore di lavoro ha sostanzialmente aumentato lo stipendio del proprio lavoratore, con un
quantitativo però su quale non deve pagare i contributi, con vantaggio di entrambi.
Il minimo salariale
Avendo parlato di particolari clausole contrattuali, si vogliono ora spendere due parole sul minimo
salariale per chiarire come la retribuzione non sia una clausola, ma l'obbligo fondamentale
dell'imprenditore nei confronti del lavoratore.
Il quantitativo della retribuzione si determina in apertura del contratto insieme alle mansioni che il
lavoratore si obbliga a svolgere, ed è spesso legato all'esistenza di altre clausole.
Si pensi ad esempio un imprenditore che assuma un lavoratore con un contratto a termine di due
anni ed uno stipendio di 1'000€ al mese; in tal caso il datore di lavoro deve avere “pronti” 24'000€
da destinare al lavoratore, poiché in tale tipo di contratto non c'è licenziamento e non ci sono
dimissioni; al contrario un assunzione a tempo indeterminato costringe il lavoratore a “mettere da
parte” solo il corrispettivo delle mensilità che spetterebbero al lavoratore in caso di licenziamento
illegittimo (es. nell'ipotesi di non riuscire a tenere il lavoratore, e non avendo un buon motivo per
licenziarlo, l'imprenditore può cacciarlo e pagarli la tutela per il licenziamento illegittimo; cosa che
non può invece fare con un contratto a termine).
Lo stesso vale in caso di esistenza della clausola di prova, che consente per i primi mesi al datore di
lavoro di non accantonare il corrispettivo dell'indennità di licenziamento, o in caso di presenza della
clausola di stabilità minima garantita, che obbliga sì il lavoratore a rimanere in azienda, ma anche il
datore a pagarlo, oppure ancora in caso di clausola di non concorrenza, che come detto “va pagata”.
Ne risulta come tutte queste clausole siano in qualche modo percentualizzazioni della retribuzione,
che vanno ad aggiungersi al minimo previsto dal contratto collettivo di riferimento; innalzare
direttamente la retribuzione significherebbe infatti dover pagare di più anche tredicesima, ferie,
maternità, ecc., e rischierebbe di creare percezioni di trattamento non omogeneo tra lavoratori, con
conseguenze sul piano psicologico. Per premiare o meno un lavoratore si preferisce dunque tenergli
la retribuzione al minimo, ed attribuire incentivi attraverso benefits, clausole onerose, ecc.
Pubblico e privato nel mercato del lavoro
Il mercato del lavoro, i centri per l'impiego, e le agenzie del lavoro
Il mercato del lavoro non è creato dal diritto (né del lavoro, né di altro tipo), ma regolamentato da
esso; si farà dunque riferimento in questo paragrafo alle regole che l'ordinamento ha posto e pone
alla gestione di questo mercato.
Facendo un brevissima premessa, va detto che la locuzione “mercato del lavoro” è giuridicamente
impropria, e fa infatti riferimento al solo linguaggio economico: In tal senso è comprensibile parlare
di mercato, assumendo che il lavoro sia “una merce”, “un bene scarso”, ma da un punto di vista di
linguaggio giuridico il lavoro non è affatto una merce, quanto l'espressione di una persona, e poiché
per definizione del Codice Civile i beni sono soltanto quelle le cose che possono essere oggetto di
diritti, il lavoro non è nemmeno definibile come bene, in quanto non è una cosa, né materiale né
immateriale (es. non è paragonabile ad un'invenzione).
Posto ciò, la prima legge di regolamentazione del “mercato del lavoro” che venne introdotta nel
nostro Paese risale al 1949, e prevedeva che le assunzioni di lavoratori subordinati fossero tutte
mediate da uffici pubblici, chiamati uffici del collocamento: gli imprenditori dovevano recarsi
presso tali uffici chiedendo quale fosse, in ordine di graduatoria, il primo lavoratore ad aver fatto
richiesta d'impiego per una posizione lavorativa identica o simile a quella ricercata
dall'imprenditore, e tale lavoratore, indicato dall'ufficio del collocamento, sarebbe divenuto
subordinato dell'imprenditore.
Un simile sistema, fortemente vincolato ed a monopolio pubblico, portò a 50 anni di inefficienza,
anche poiché la sua eccessiva rigidità ne comportò il mancato rispetto: anzi che agire come indicato,
gli imprenditori si sceglievano un lavoratore, lo inviavano all'ufficio del collocamento per fare
richiesta d'impiego, e si recavano poi all'ufficio per farselo assegnare.
Nel 1997, viste le problematiche d'applicazione, tale sistema, basato sugli uffici del collocamento,
venne smantellato e ne nacque un'altra serie di regole, attualmente in vigore, che non prevede più il
monopolio pubblico.
Non è dunque più un solo soggetto ad operare come intermediario tra domanda ed offerta di lavoro,
seppur in modo diverso da come operavano gli uffici di collocamento, né la molteplicità di soggetti
esistente ha solo carattere pubblico; si hanno invece una molteplicità di soggetti, sia privati che
pubblici, che aiutano a predisporre i CV, li archiviano, raccolgono le segnalazioni d'offerta di
lavoro, ecc.
Tra questi, i soggetti pubblici prendono il nome di centri per l'impiego, eredi dei vecchi centri di
collocamento, mentre i soggetti privati, che fanno ai soggetti pubblici sana concorrenza, prendono il
nome di agenzie del lavoro.
Si tratta in entrambi i casi di enti autorizzati, poiché l'attività di intermediazione sul mercato del
lavoro non è libera ed aperta a chiunque, tanto è vero che la denominazione “agenzia del lavoro” è
obbligatoria per gli imprenditori privati che, una volta ricevuta l'autorizzazione, intendono inserirsi
in questo settore, ed in entrambi i casi (enti pubblici / entri privati) la legge prevede che non
debbano essere chiesti soldi ai lavoratori, o agli aspiranti lavoratori, in cambio dell'attività di
intermediazione.
Posto che tutte queste regole (autorizzazione, denominazione, e gratuità per il lavoratore) sono
infrante dai cosiddetti caporali, “intermediari” abusivi che operano in realtà economico-sociali ed in
settori (es. agricolo ed edilizio) in cui il lavoro sommerso è molto diffuso, senza alcuna competenza
o preparazione, approfittando del bisogno di soggetti senza lavoro (es. poveri, immigrati irregolari,
ecc.) a cui trovano un impiego in cambio di denaro (con conseguenze deleterie di tale attività di
caporalato sul sistema lavoro in termini di mancanza di trasparenza, lavoro sommerso, infortuni,
ecc.), occorre chiedersi come possano le agenzie del lavoro (che, si ricordi, sono private, poiché si
chiamerebbero in caso contrario centri per l'impiego) sopravvivere, soprattutto in tempi di crisi
quali quello che stiamo vivendo, se gratuite per il lavoratore.
Come infatti è comprensibile l'operare in perdita da parte di enti pubblici, il cui fine è la
realizzazione degli obiettivi indicati dallo Stato, è ovvio che un privato non investirebbe né
opererebbe mai in un settore non profittevole.
Qual è dunque la fonte di guadagno delle agenzie del lavoro?
Non potendo essere onerosa per il lavoratore, l'attività d'intermediazione delle agenzie del lavoro
riceve remunerazione da parte dell'imprenditore in forma percentuale sul primo stipendio del
lavoratore che questi ha assunto grazie all'attività delle agenzie stesse, ma i casi in cui i datori di
lavoro assumono personale tramite le agenzie sono piuttosto rari, e limitati a professionalità molto
basse (per le quali il costo d'intermediazione è basso, e dunque l'imprenditore si avvantaggia
dell'attività d'intermediazione evitandosi il carico di lavoro di dover leggere di persona decide e
decine di CV), oppure a professionalità molto alte (cacciatori di teste, agenzie di selezione)*;
dunque, di conseguenza, i compensi ricevuti dalle agenzie per queste attività non sarebbero
sufficienti a mantenerle in vita.
La vera fonte di guadagno delle agenzie del lavoro è infatti la cosiddetta intermediazione in senso
forte, che prende il nome di somministrazione di lavoro, o fornitura di lavoro interinale.
*[Nella fascia delle professionalità intermedie prevale l'invio libero dei CV da parte dei singoli
aspiranti lavoratori agli imprenditori].
L'attività di somministrazione di lavoro interinale
Tale attività, più remunerativa dell'attività di semplice favoreggiamento dell'incontro tra domanda
ed offerta di lavoro, si svolge in modo triangolare*: l'agenzia del lavoro assume direttamente dei
lavoratori, che ne divengono dipendenti, e stipula poi dei contratti, non di lavoro, ma commerciali,
detti contratti tra imprese, con imprese cosiddette utilizzatrici, che necessitano proprio delle figure
professionali assunte dall'agenzia del lavoro.
In tal modo l'agenzia del lavoro “presta” i propri lavoratori all'impresa utilizzatrice, dunque
l'agenzia si qualifica come datore di lavoro formale, mentre il datore di lavoro sostanziale risulta
chiaramente essere l'impresa utilizzatrice. Nonostante ciò è solo il contratto tra l'agenzia ed il
lavoratore ad essere un contratto di lavoro, che in quanto tale deve rispondere al diritto d