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Augusto vengono dalle cave di Luni, il cui sfruttamento comincia a essere intenso proprio a partire
dall’età augustea.
Abbiamo difficoltà a identificare quanto delle cave è stato utilizzato in antico o in epoca più
recente, cioè è difficile distinguere una cava del IV e una del XII sec d.C.
Mentre in età repubblicana le cave erano di proprietà privata, con l’impero diventano di proprietà
imperiale e vengono acquistate o acquisite per eredità o per confisca; molte di queste cave sono
quindi di proprietà imperiale perché comunque esse hanno costi così alti che potevano essere
sostenuti solo dal patrimonio imperiale.
Quindi le principali cave sono di proprietà imperiale e da esse provenivano i marmi destinati ai
grandi programmi edilizi, però le cave potevano anche essere acquistate da ricchissimi privati e
c’era la possibilità che una piccola parte del marmo che arrivava a Roma venisse acquistato per
l’uso privato, anche se la maggior parte di esso era ad uso pubblico.
Qui vediamo un’epigrafe su un blocco del foro di Augusto che ci da un’indicazione sui lavori di
estrazione in cava; spesso sui blocchi ci sono dati numerici.
Nella cava di Chemtou vediamo la traccia dell’uso dello scalpello e la caratteristica conformazione
a gradoni; è molto diverso l’aspetto della pietra in cava rispetto a quello che è il prodotto finito; agli
inizi del 900 è stato fatto un tentativo di cavare i blocchi da questa cava, ma si è rivelato
antieconomico e così è stato abbandonato; ai piedi della montagna vediamo una montagna
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artificiale che è stata solo parzialmente intaccata dagli scavi e si tratta della montagna degli scarti di
Chemtou perché sono stati trovati vari blocchi con varie fasi di lavorazione degli oggetti minori.
Chemtou è interessante anche perché vi scava una missione tedescotunisina, che ha permesso di
mettere in luce i laboratori dove si svolgevano questi lavori e si è verificata la presenza della legio
III Augusta; l’Africa proconsularis era una provincia senatoria ed è anomala la presenza della legio
III Augusta che in periodo di pace non era lasciata inoperosa, ma i soldati vengono impiegati per la
costruzione di grandi opere pubbliche ed essi potevano anche lavorare nella cava, anche se la loro
condizione era diversa da quella dei condannati ad metalla (miniere e cave) che erano condannati
per gravi delitti; a un certo punto però vengono condannati alle cave anche i cristiani (abbiamo
molte testimonianze nel deserto orientale).
Queste cave erano amministrate da un procuratore che spesso era un liberto imperiale; c’è anche la
possibilità che esse fossero amministrate da un conductor, cioè uno che prendeva in appalto la
gestione della cava; a Roma c’era un’amministrazione centrale di queste cave che era la statio
marmorum e anche in questo caso abbiamo la testimonianza di molti liberti imperiali. Il pregio e il
costo di tutti i marmi ha provocato anche la presenza di una contabilità e ci sono conteggi precisi,
ad esempio:
Largo et Messalino consulibus / loco V bracchio quarto / Caesura Aelii Antonini
È interessante la presenza dei nomi dei consoli che ci da un dato preciso; le iscrizioni ci danno dati
precisi, ma relativi al momento in cui il blocco è stato estratto dalla cava; l’uso di siglare i blocchi
termina nel 236 d.C., cioè il III secolo che è un periodo di grande crisi. In questa epigrafe vengono
citati dei termini che danno delle indicazioni precise su un lavoro fatto in un punto preciso della
cava: caesura è il banco di roccia, il locus è definito dal numero V, cioè è il punto dove era estratto
un determinato blocco e bracchium era un settore di cava.
Il luogo di arrivo dei marmi era Ostia, ma c’era anche il porto di Claudio e quello di Traiano; a
Ostia sono stati trovati tanti blocchi tra cui molti sono rovinati per la lunga permanenza in acqua; su
questo blocco vediamo una parola relativa al nome Hermo(lai), un nome che si trova scolpito anche
nella cava di Paros.
Qui vediamo un blocco con un fianco inciso con una data consolare: Macrino e Celso sono due
consoli del 164 d.C.; l’incavo circolare nel marmo serviva per i sigilli in piombo che recano il
ritratto dell’imperatore, che spesso erano riprodotte da calchi in monete e questi sigilli hanno un
diametro di circa 3, 3,5 cm e sono un’ulteriore testimonianza dell’appartenenza delle cave alla
gestione imperiale e della destinazione pubblica di questi blocchi.
Nelle cave vediamo molti fusti di colonna abbandonati e tra i fusti di colonna di Ostia, destinati alle
grandi imprese pubbliche a Roma, sono frequenti le colonne che presentano tracce di restauro
antico; i fusti avevano misure standard ben precise perché l’assemblaggio tra i fusti e le altre parti
della colonna avveniva a Roma (un piede corrisponde a circa 30 cm e i fusti delle colonne di granito
del foro erano alte 50 piedi); nell’Eubea, nelle cave di cipollino, vediamo i fusti abbandonati che
erano chiamati kilindroi.
Nel cortile del museo di Ostia vediamo un blocco di africano con due date consolari, il 119 e il 134
d.C. (l’età di Adriano) e queste date sono legate a conteggi fatti con una certa regolarità e vediamo
la lavorazione a gradoni, probabilmente per ricavarne le lastre; sia l’epoca di Traiano che quella di
Adriano sono due epoche in cui si assiste a un grande utilizzo di marmi pregiati a Roma.
Qui vediamo due basi di colonna, una da Thasos e una da Luni, in cui è rifinita una base
quadrangolare, mentre le altre fasce non sono finite; per i marmi bianchi le analisi sono più
complicate.
Qui vediamo un fusto di una colonna in africano (Theos): il restauro è avvenuto quando il pezzo era
già giunto a destinazione; esso è stato restaurato con una serie di tasselli che hanno dei bordi
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frastagliati, il che permette un miglior aggancio del tassello; essi erano saldati con delle grappe
metalliche alla colonna; il marmo africano è fortemente variegato e quindi, una volta inserito il
tassello e lucidato il pezzo era indistinguibile il restauro (questi marmi di Ostia mancano
dell’aspetto della lucidatura del marmo). Questo pezzo è la parte terminale di un
fusto (è un sommoscapo) liscio della
colonna in granito del foro di Traiano;
probabilmente non è sempre possibile
trovare fusti monolitici alti 50 piedi, quindi
forse si è provveduto a preparare la parte
terminale con un altro blocco e poi è
avvenuta la saldatura con due perni. La
parte terminale è ondulata perché
permetteva un migliore incastro dei due
blocchi, quindi non tutte le colonne del foro
di Traiano sono monolitiche.
Qui vediamo un rocchio di alabastro listrato, proveniente dall’Asia Minore, la cui destinazione era
quella di essere tagliato in lastre rotonde che dovevano essere inserite nella decorazione di qualche
pavimento e in qualche caso esisteva la possibilità che i fusti della colonna danneggiati potevano
essere riutilizzati per creare i tombi per la decorazione dei pavimenti.
Qui vediamo un blocco in cui sono unite 4 piccole colonne in pavonazzetto.
Palmira
Le cave di si trovano a nord ovest della città; sulle montagne sono state identificate le cave
del calcare locale; la città è tutta fatta con questo calcare e c’è un calcare più chiaro e uno più scuro,
però questo calcare, una volta estratto ed esposto, cambia un po’ il colore. Il calcare di Palmira è di
buona qualità e, quando è levigato, sembra marmo; la differenza di qualità del calcare ne ha reso
sfruttabile una parte per gli elementi architettonici e altre cave con il calcare con la grana più fine
sono usate per la scultura. Tale calcare viene usato solo a Palmira ed è plausibile che le cave siano
state sfruttate tra il II e il III sec d.C.; nei secoli successivi si assiste invece a un forte fenomeno di
reimpiego.
Nelle cave vediamo tracce che corrispondono ai buchi per l’inserimento dei cunei per il taglio dei
blocchi; vediamo molti blocchi abbandonati e molti fusti di colonne; le colonne di Palmira non
hanno fusti monolitici, ma sono formate da almeno 3 blocchi, 2 fusti e la mensola; il calcare doveva
essere facile da lavorare, ma si danneggia rapidamente. 14
Qui vediamo il portale di una tomba inglobato nelle mura di Diocleziano; il calcare più scuro è
sempre stato associato ai grandi blocchi squadrati, mentre per le lastre decorative era usato il calcare
più chiaro.
Tutti i tipi di tomba (ipogei, tombe a torre, tombe a tempio) presentano dei loculi con rilievi; tra le
più antiche vi sono stele isolate che costituivano il segnacolo di tombe individuali e le più antiche di
queste stele, del I secolo d.C., recano solo iscrizioni in aramaico e talvolta bilingue (greco e
aramaico o palmireno, cioè la lingua specifica di Palmira). Nelle più antiche stele compare la figura
umana intera, hanno delle bellissime cornici con motivi vegetali e vediamo la tenda dietro al
personaggio maschile, elemento simbolico che indica che il personaggio maschile è già morto
quando era stato realizzato il rilievo che in questo caso viene fatto fare dalla sorella e rappresenta sé
stessa e il fratello.
La tenda corrisponde alla porta in Occidente, quindi il personaggio che è raffigurato davanti alla
tenda ha già varcato questa soglia; il personaggio è vestito alla greca perché ha la tunica e l’imation
e anche la sorella è vestita alla greca. Le caratteristiche sono quelle di un rilievo piuttosto piatto,
poco plastico con tutti i dettagli: è evidente la frontalità e la fissità dei personaggi e importanti sono
gli occhi grandi che aumentano l'impressione di rigidità e di frontalità; si tratta di rilievi fatti tutti in
calcare locale bianco di Palmira, che in alcuni casi è di ottima qualità.
AO 2201 2068: questo tipo di stele palmirena è caratteristica, infatti si tratta di una lastra che
chiude il loculo con il busto di un personaggio; per molti di questi personaggi conosciamo il nome e
per buona parte abbiamo anche un'indicazione cronologica e questa è importante perché questi
rilievi, di IIIII sec d.C. non mostrano un'evoluzione stilistica, quindi non si può definire
un'evoluzione stilistica.
Uno dei dati iconografici che ci aiutano per la cronologia è la barba, che compare dal 150 d.C., e
che costituisce il riflesso di una moda adrianea; ci sono personaggi che sono sempre glabri, i
sacerdoti.
Il grande interesse di questi rilievi è che essi uniscono caratteristiche orientali e occidentali, che
sono espressione di quella cult