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PACE.
Giudizio di equità necessario ex art. 113. Una volta anche queste sentenze erano inappellabili.
Originariamente l'art. 113 prevedeva che il conciliatore (il progenitore del giudice di pace) decideva
secondo equità le cause di sua competenza. Competenza che originariamente era molto ridotta
nel valore.
Prevedeva la ricorribilità per Cassazione delle sentenze del conciliatore.
Poi viene la legge del 1991, n. 374 istitutiva del giudice di pace che modifica l'art. 113 prevedendo
la decisione secondo equità delle controversie di valore non superiore a 1100 euro. L'art. 339, nel
testo introdotto dalla legge 374, prevedeva l'INAPPELLABILITA' delle sentenze pronunciate dal
giudice di pace secondo equità.
Nel 2004 c'è stata una sentenza della Corte Costituzionale, n.206, che ha riguardato non
direttamente l'art. 339 ma l'art. 113 cioè la norma che disciplina la decisione secondo equità del
giudice di pace. La norma è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui non prevedeva
l'obbligo del giudice di pace di osservare i principi informatori della materia. La Corte
Costituzionale introduce così un vincolo alla decisione equitativa del giudice di pace, che è tenuto
a rispettare i principi informatori della materia.
Allora la riforma del 2006, ultimo passaggio, decreto lgs. n. 40 (riforma del giudizio di
Cassazione), da un lato prendendo atto della pronuncia della Corte Costituzionale che aveva
reintrodotto il limite dei principi informatori della materia, dall'altro lato nell'intento di alleggerire il
carico del lavoro dei giudici di Cassazione, ha introdotto per le sentenze pronunciate secondo
equità dal giudice di pace un regime di APPELLABILITA' LIMITATA.
Quindi quelle sentenze che erano inappellabili, ricorribili per Cassazione per una causa di modesto
valore, ex art. 113, 2° comma, sono appellabili ma si tratta di un appello LIMITATO, a motivi
limitati. E' ammesso soltanto per violazione delle norme sul procedimento o sulle norme
costituzionali o sui principi regolatori della materia.
Quindi in linea di principio sono APPELLABILI TUTTE LE SENTENZE DI PRIMO GRADO, salvo
che l'appello sia escluso per legge (sentenze pronunciate secondo equità su istanza di parte ex
art. 114, sentenze che nel rito del lavoro abbiano deciso cause di valore non superiore a 25,82
euro ex art. 404).
Per le sentenze pronunciate dal giudice secondo equità all'originario regime di inappellabilità è di
ricorribilità per Cassazione, è stato sostituito ad opera del d. lgs. n.40/2006 questo regime di
inappellabilità limitata.
Questo intervento ha una duplice spiegazione: da un lato c'è il precedente della Corte
Costituzionale, quindi il legislatore ha voluto recepire quell'orientamento della Corte Costituzionale
(introdurre uno strumento che consentisse di censurare la violazione di questi principi informatori o
regolatori della materia); dall'altro c'era questo intento deflattivo nei confronti della Corte di
Cassazione.
Detto questo sull'appellabilità delle sentenze il problema principale del giudizio d'appello è quello
dell'OGGETTO DELL'APPELLO.
OGGETTO DELL’APPELLO
Oggetto che coincide con quello del giudizio di primo grado, questo in ragione della natura di
impugnazione sostitutiva o di mezzo di gravame del giudizio d'appello.
Le impugnazioni sostitutive, ricordiamo, sono caratterizzate dall'EFFETTO DEVOLUTIVO:
significa devoluzione al giudice d'appello della controversia già decisa in primo grado.
A questa accezione base dell'effetto devolutivo se ne affianca un'altra: effetto devolutivo
significherebbe non impugnazione che ha ad oggetto il diritto che già è stato oggetto del giudizio di
primo grado, ma significherebbe anche passaggio automatico di tutte le questioni. In virtù della
mera proposizione dell'appello vengono automaticamente devolute al giudice d'appello tutte le
questioni di cui si è già occupato il giudice di primo grado.
Ora se noi possiamo dire che l'appello è un'impugnazione devolutiva nel primo senso, non si può
più dire che l'appello è un'impugnazione devolutiva nel secondo senso, cioè che esiste un effetto
devolutivo pieno e automatico. Questo perchè già nella formulazione originaria dell'art. 342 cpc del
'40 era previsto l'onere dell'appellante di indicare nell'atto di appello i MOTIVI SPECIFICI
DELL'APPELLO. Già questa previsione comporta una certa deviazione dal modello originario del
gravame.
Nel silenzio della legge è solo nel 2012 che il legislatore ha specificato che la mancata indicazione
dei motivi d'appello comporta l'inammissibilità dell'appello. Nel silenzio della leggere era sorta la
questione sulle conseguenze della mancata indicazione dei motivi.
Una parte della dottrina aveva sostenuto la tesi secondo cui la mancata indicazione dei motivi
specifici dava luogo a una mera IRREGOLARITA' dell'appello, quindi neppure nullità. Questa
posizione si spiega alla luce di quel modello originario dell'appello quale mezzo di gravame. Infatti
si diceva che il legislatore richiede l'indicazione dei motivi per facilitare il compito del giudice
d'appello, per aiutarlo a individuare le questioni controversie ma se i motivi non ci sono non
succede niente.
Invece la Corte di Cassazione accoglie la tesi più rigorosa.
Oltre e prima ancora della questione concernente la sorte dell'appello privo di motivi, il problema
riguardava la FUNZIONE dei motivi. Dobbiamo prima capire a cosa servono questi motivi.
Erano state elaborate teorie a riguardo.
L'art. 342, che richiede l'indicazione dei motivi specifici dell'appello, va collegato con l'art. 329, 2°
comma. Una funzione sicura dei motivi d'appello è quella di individuare il capo o i capi di sentenza
impugnati. Si intendono impugnate con l'appello solo quelle parti di sentenza cui si riferiscono i
motivi dell'appello.
Però basta questo riferimento per comprendere come poi in realtà il grado di riduzione della
cognizione del giudice d'appello, rispetto alla cognizione del giudice di primo grado, derivante da
questo collegamento tra l'art. 342 e 329, fosse destinato a variare in ragione del diverso modo di
intendere il concetto di parte di sentenza nell'art.329.
Abbiamo detto che "parte di sentenza" significa sicuramente statuizione su ciascuna domanda, se
la sentenza ha deciso su una pluralità di domande, essa è scomponibile in tante parti quante sono
le domande su cui ha deciso. Quindi non vi è dubbio se i motivi dell'appello riguardano soltanto
una delle controversie cumulate, l'oggetto dell'appello si restringe. Si ha quella formazione
progressiva del giudicato.
Abbiamo però visto che secondo alcuni "parte di sentenza" non è soltanto la statuizione su
domanda ma è anche la soluzione di ciascuna questione affrontata dal giudice nella motivazione
della sentenza per statuire sull'esistenza del diritto. Se noi accogliamo questa nozione a norma
dell'art. 129 possiamo dire che tutte le questioni che non vengono fatto oggetto di un motivo
specifico d'appello, passano in giudicato a norma dell'art. 329, 2° comma. Questo comporta una
ulteriore restrizione della cognizione del giudice d'appello, perchè relativamente alle questioni che
non vengono fatte oggetto di un motivo specifico d'appello, si formerà un GIUDICATO INTERNO
sicchè il giudice d'appello non potrà occuparsene.
Se noi riteniamo che "parte di sentenza" significhi solo "statuizione su domanda", poi il giudice
d'appello potrà occuparsi degli interessi però riesaminando tutte le questioni affrontate dal giudice
di primo grado.
Se invece noi riteniamo che "parte di sentenza" a norma dell'art. 329 sia anche ciascuna
questione di cui si è occupato il giudice di primo grado, con riguardo alle questioni non
impugnate si formerà il giudicato e se dunque l'appellante si limiterà a dire che gli interessi non
erano dovuti perchè c'era una clausola nel contratto, il giudice d'appello sarà chiamato a statuire
sulla esistenza o meno del diritto agli interessi, però potrà occuparsi soltanto della questione
concernente l'esistenza o meno nel contratto di una clausola che escludeva gli interessi. Su di
esse si sarà formato un giudicato interno a norma dell'art. 329, 2° comma.
Questo è un primo modo di intendere la funzione dei motivi d'appello, cioè si collega l'art. 342
all'art. 329 (norma sulla acquiescenza parziale). Questo collegamento ci consente di affermare che
i motivi d'appello valgono a individuare la parte di sentenza intesa come statuizione su domanda.
Se poi noi riteniamo che anche la soluzione delle questioni affrontate dal giudice per statuire sulla
domanda configuri una parte di sentenza, dunque la sentenza sia scomponibile non soltanto in
tante parti quante sono le domande su cui ha pronunciato, ma anche in tante parti quante sono le
questioni affrontate dal giudice nella motivazione, si formerà un giudicato interno (perchè riguarda
una questione e non una domanda) a norma dell'art. 329, 2°comma.
Vi è un altro modo per spiegare la funzione dei motivi d'appello. Collega l'art. 342 con un'altra
norma stavolta, l'art. 346.
Art. 346: "Le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado che non sono
espressamente riproposte in appello si intendono rinunciate".
La norma prevede una presunzione iuris et de iure, che non ammette la prova contraria, di
rinuncia alle domande ed eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado che non siano
espressamente riproposte in appello. Anche il significato di questa disposizione non è univoco e
risente dell'interpretazione che noi diamo all'art. 329.
Cerchiamo di capire cosa significa "domande ed eccezioni non accolte".
DOMANDE NON ACCOLTE : sicuramente non sono le domande rigettate. Questo perchè
con riguardo alle domande rigettate vi è un onere di impugnazione (la parte di sentenza che rigetta
la domanda deve essere impugnata, se non impugnata passa in giudicato ex art. 329) e la
domanda rigettata non può semplicemente essere riproposta in appello perchè il rigetto della
domanda fa nascere un potere e un onere di impugnazione. Questo è il significato dell'art. 329 che
tutti concordano. Questo ci consente di dire che domande ai sensi dell'art. 346 non sono le
domande rigettate.
Domande non accolte ma non rigettate, quali sono? Le DOMANDE ASSORBITE.
Le d