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Non è credibile che tutta questa macchina non porti qualche impronta della mano di quel grande
architetto e che non ci sia nelle cose del mondo alcuna immagine che si riferisca in qualche modo
all'artefice che le ha costruite e foggiate.
Vediamo se l'uomo ha in suo potere altre ragioni più forti di quelle di Sebond, cioè se egli possa
arrivare a qualche certezza con argomentazioni e ragionamenti.
E' ridicolo che questa miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di se stessa ed è
esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e signora dell'universo, di cui non è in suo
potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla. Non un uomo solo, non un re, ma le
monarchie, gli imperi e tutto questo basso mondo si muove sotto la spinta dei minimi moti celesti.
La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le
creature è l'uomo e al tempo stesso la più orgogliosa. E' per vanità della sua stessa immaginazione
che si uguaglia a Dio, che separa se stesso dalla folla delle altre creature. Da quale confronto fra essi
e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? Noi non comprendiamo le bestie più di quanto
esse comprendano noi. Noi comprendiamo approssimativamente il loro sentimento, così le bestie il
nostro. C'è fra loro una piena e totale comunicazione e si capiscono fra loro, non solo quelle della
stessa specie ma anche quelle di specie diversa. Noi constatiamo ampiamente, in molte opere degli
animali, quanta superiorità abbiano su di noi, e quanto la nostra arte sia insufficiente a imitarli. La
natura non è matrigna; essa ha universalmente abbracciate tutte le sue creature. I popoli appena
scoperti ci hanno insegnato che madre natura ci aveva riforniti a sufficienza di tutto ciò che ci
abbisognava.
Noi non siamo né al sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo, è sottoposto a una
stessa legge e sorte. La vanità della nostra presunzione fa sì che preferiamo essere debitori delle
nostre capacità alle nostre forze più che alla sua generosità. E se vogliamo trarne qualche superiorità
dal fatto che è nostro potere prenderle e adoperarne a nostra volontà, non si tratta che di quella
stessa superiorità che noi abbiamo gli uni sugli altri (tiranni).
Quanto alla forza, non c'è animale al mondo esposto a tante offese come l'uomo. Le bestie non sono
neppure incapaci di essere istruite a modo nostro. Democrito spiega che la maggior parte delle arti
le abbiamo imparate proprio dalle bestie.
“Tutto quello che ci sembra strano, lo condanniamo, e così tutto quello che non comprendiamo:
come ci accade nel giudizio che diamo delle bestie”. Esse hanno molte qualità che si avvicinano alle
nostre, ma come possiamo sapere in che cosa sono particolari? Esse sono capaci di azioni che
superano la nostra capacità, e a cui siamo tanto lontani dal poter arrivare per imitazione che non
possiamo neppure concepirle con l'immaginazione. Queste capacità, tali azioni, testimoniano in essi
l'esistenza di qualche facoltà più eccellente che ci è ignota, come è verosimile che lo siano molte
altre delle loro qualità e possibilità delle quali non giunge fino a noi alcun a manifestazione. Tutto
ciò che neghiamo alle loro cause motrici limitandole e che attribuiamo invece alla nostra
condizione, non può in alcun modo venire dalla facoltà della ragione.
Essi manifestano chiaramente un senso di giustizia e una capacità di provare amicizia in maniera
anche più viva e più costante. Gli animali sono inoltre molto più regolati di quanto siamo noi e si
tengono entro i limiti della natura. Essi ci superano anche quanto all'economia domestica. Quanto
alla guerra, invece, sembra che la scienza del distruggerci e ucciderci a vicenda, di rovinare e
perdere la nostra stessa specie, non abbia molto di che farsi desiderare dalle bestie che non la
posseggono, anche se non ne sono del tutto esenti. Quanto alla fedeltà non c'è animale al mondo più
traditore dell'uomo. Le bestie ci superano anche in gratitudine e quanto all'alleanza e alla
confederazione per recarsi aiuto vicendevolmente. Quanto ai piccoli servigi che ci rendiamo l'un
l'altro nella vita pratica, se ne vedono parecchi esempi simili fra di esse. Quanto alla magnanimità,
al pentimento, al riconoscimento delle colpe, alla clemenza e ai diritti della famigliarità e della
relazione, vale il medesimo discorso. Sembra appartenere anche alle bestie la capacità di spogliare
le cose famigliari delle loro condizioni corruttibili e di far loro abbandonare tutti gli accidenti
sensibili. Quanto alla bellezza del corpo dovremmo prima accordarci sulla definizione di bellezza.
Non sappiamo che cosa sia in natura e in generale perché alla bellezza umana diamo tante forme
diverse; se ci fosse a proposito una regola naturale, saremmo tutti d'accordo nel riconoscerla, noi ne
immaginiamo le forme a nostro piacimento. Quelle bestie che ci somigliano di più sono le più
brutte: le bertucce per l'aspetto esterno e il porco per l'interno. Noi siamo il solo animale il cui
difetto offenda i nostri propri compagni e il soli ad esser costretti, nei nostri atti naturali, a
nasconderci dai nostri simili.
Insomma tutto ciò che non è come noi non ha alcun valore. E Dio stesso bisogna che ci assomigli.
E' chiaro allora che non è per vero ragionamento, ma per una folle superbia e ostinazione che noi ci
mettiamo al di sopra degli altri animali e ci isoliamo dalla loro condizione e compagnia.
La scienza occupa un posto fra le cose necessarie alla vita, che sono sì utili, ma alla lontana, più per
capriccio che per natura.
Dall'obbedire e dal cedere nasce ogni altra virtù, come dall'orgoglio ogni peccato. E' per la
promessa della scienza e delle conoscenza che si cedette alla prima tentazione. Se la scienza
davvero mitigasse l'asprezza delle nostre disgrazie, che altro farebbe più di quello che fa l'ignoranza
con molto maggiore semplicità ed evidenza? Quando i veri mali ci mancano, la scienza ci presta i
suoi. Le bestie ci mostrano quante malattie ci procura l'agitazione del nostro spirito. La scienza, i
pronostici anticipano con l'immaginazione i mali come se gli corressimo incontro.
La nostra è una condizione di miseria, il non aver alcun male è il massimo bene che l'uomo possa
sperare. Chi sradicasse la cognizione del male però non farebbe bene, perché estirperebbe
contemporaneamente anche la cognizione del piacere, e quindi annienterebbe l'uomo. L'uomo non
deve né sempre fuggire il dolore, né sempre cercare il piacere. Come la vita si rende più piacevole
con la semplicità, così si rende anche più innocente e migliore. Chi è stato nel Nuovo Mondo può
testimoniare come quei popoli, senza magistrato e senza legge, vivano con maggior ordine e regola
dei nostri, fra i quali ci sono più ufficiali e leggi di quanti altri uomini e azioni vi siano. L'inciviltà,
l'ignoranza, la semplicità, la rozzezza si accompagnano facilmente all'innocenza. Il desiderio di
accrescere il proprio sapere e la propria saggezza fu la prima rovina del genere umano, per cui si è
giunti alla dannazione eterna. L'orgoglio è la sua disgrazia e la sua corruzione. La migliore dottrina
di Socrate era la sua professione di ignoranza e la sua migliora saggezza la semplicità.
Noi diciamo sì potenza verità, giustizia: queste parole significano qualcosa di grande, ma questa
cosa noi non la vediamo, né la concepiamo. Diciamo di Dio che ha emozioni che non può avere, e
non possiamo pensarlo che nella nostra forma e non secondo la sua. La parte che abbiamo della
verità, come la religione, non l'abbiamo per mezzo di ragionamento o grazie all'intelletto ma per
autorità e comandamento esterno. Di nostro c'è solo l'obbedienza e la sottomissione.
Ora esaminiamo l'uomo esaminandone gli esempi più eccellenti.
La filosofia cerca la verità, la scienza e la certezza. I peripatetici, gli epicurei, gli stoici e gli altri
hanno creduto di averla trovata. Clitomaco, Carneade e gli accademici hanno disperato della loro
ricerca e giudicato che la verità non potesse essere concepita con i nostri mezzi. Pirrone e altri
scettici ritengono che coloro che pensano di averla trovata si ingannano; e che c'è ancora della
vanità sfacciata nella seconda posizione. Stabilire la misura della nostra forza, questo conoscere e
giudicare le difficoltà delle code, è una scienza grande della quale essi dubitano che l'uomo sia
capace. Ma l'ignoranza che si conosce, che si giudica e che si condanna non è ignoranza totale: per
esserlo, bisogna che ignori se stessa. Sicché la professione dei pirroniani è ondeggiare, dubitare e
cercare, non ritenersi sicuri di nulla, non rispondere di nulla. “Io non sostengo nulla; non è più così
che cosà” (ou mallon), nulla sembra vero che non possa sembrare falso. Epeko vuol dire
“sospendo”, “non mi muovo”. Si servono della ragione per indagare e discutere ma non per
scegliere e decidere. Quanto alle azioni della vita, essi seguono la maniera comune. Si adattano alle
inclinazioni naturali, all'impulso e alla costrizione delle passioni, alle norme delle leggi e delle
consuetudine. Pirrone non ha voluto fare di sé una pietra, ma è stato uomo vivo, che discorre e
ragiona, che gode dei piaceri e dei vantaggi naturali. Quanto a privilegi falsi, immaginari che
l'uomo si è arrogato, di dominare, di ordinare, di stabilire la verità, egli in buona fede vi ha
rinunciato e li ha abbandonati.
Per Timeo, ad esempio, è sufficiente che le sue ragioni siano probabili come le ragioni di un altro:
dato che le ragioni precise non sono in mano sua, né in altra mano mortale. Eppure è da Aristotele,
il principe dei dogmatici, che sappiamo che il molto sapere dà motivo di dubitare di più: il suo è un
pirronismo sotto forma risolutiva.
Quanto alla religione, di tutte le opinioni antiche e umane sembra più verosimile quella che
riconosceva Dio come una potenza incomprensibile, origine e conservatrice di tutte le cose. Aver
fabbricato invece gli dei prendendo a modello la nostra condizione, della quale dobbiamo conosce
l'imperfezione è prodotto dell'ubriachezza dell'intelletto umano.
D'altronde l'uomo “non può essere che ciò che è, e può immaginare solo secondo la sua portata”.
Niente del nostro