Sono passati 32 anni da quando, il 10 dicembre 1984, l’Assemblea Generale ha adottato la Convenzione delle Nazioni
Unite contro la tortura. Quel testo è rimasto un pezzo di carta. Il numero dei paesi che l’hanno ratificato, impegnandosi a
prevenire e punire la tortura, è solo di poco superiore a quello dei paesi in cui è praticata.
All’inizio del XXI secolo, la tortura si presenta per molti versi con le stesse modalità dei supplizi medievali. Il torturatore
usa in primo luogo il proprio corpo (per picchiare, strangolare, stuprare, soprattutto stuprare), poi ciò che ha a portata di
mano o fabbrica strumenti terrificanti, congegni volutamente per infliggere il massimo della sofferenza possibile.
Per rendersi conto dell’aberrazione cui può giungere la mente umana, attraverso un processo di formazione che punta a
negare umanità al soggetto che si ha di fronte, basta scorrere l’elenco degli oltre 30 metodi di tortura praticati da decenni
in Siria: haflet al – istiqbal (“festa di benvenuto”: duri pestaggi, spesso con spranghe di silicone o di metallo e cavi
elettrici); dulab (“pneumatico”: il corpo del detenuto viene contorto fino a farlo entrare in uno pneumatico da camion, poi
via ai pestaggi); falaqa (“bastonatura”: il classico pestaggio sulle piante dei piedi); shabeh (“impiccato”: il detenuto viene
tenuto appeso per i polsi per parecchie ore, coi piedi nel vuoto, e picchiato ripetutamente); bisat al – rih (“tappeto
volante”: la vittima è legata ad una struttura pieghevole, la cui parte inferiore viene pressata su quella superiore).
In Messico il fenomeno è del tutto fuori controllo. Tra il 2000 ed il 2013, la Commissione nazionale dei diritti umani ha
ricevuto oltre 7.000 denunce verso ufficiali federali, in non pochi casi riguardanti donne. Probabilmente molte altre
denunce sono state presentate alle commissioni dei diritti umani a livello statale, ma non esistono dati ufficiali a riguardo.
A fronte di questo alto numero, sono state emesse solo 7 condanne per tortura a livello federale e 5 a livello statale.
Nello scantinato di una stazione di polizia delle Filippine, nel 2014, è stata trovata una ruota di tortura, un’imitazione
tragicamente fedele della nota ruota della fortuna. A seconda di dove si fermasse la ruota, il detenuto poteva essere
sottoposto a “30 secondi di posizione piedistallo” (ossia tenuto appeso a testa in giù per mezzo minuto), od a “20
secondi di Manny Pacquiao” (ossia a pugni in faccia, in onore del più famoso pugile filippino) od ad altri metodi efferati.
Ma accanto alla tortura prevalentemente fisica, si sta affermando una forma di tortura più sofisticata, che non lascia ferite
o segni visibili sul corpo ma che devasta la mente, fino a farla impazzire ed a rendere non credibile la vittima della
tortura. Perché uno degli obiettivi di fondo del sistema della tortura è di non far raccontare alla vittima ciò che le è
accaduto. Ecco alcuni dei numerosi metodi praticati nel centro di detenzione statunitense di Guantanamo Bay: esporre
un prigioniero a luci accecanti, a musica assordante od a temperature gelide o torride, tenerlo incappucciato per mesi,
isolarlo dal punto di vista acustico, costringerlo a rimanere seduto in posizioni scomode per giorni e giorni, negargli il
cibo, non farlo dormire, minacciare di morte i suoi familiari, obbligarlo a rimanere nudo di fronte ad estranei od ad
assistere a spogliarelli di donne.
Il tutto, meticolosamente regolamentato da manuali, linee guida, avvocati (quelli che devono dimostrare, di fronte alla
remota possibilità di un processo, che non si è trattato di tortura), medici (quelli che devono fermare la tortura quando c’è
il rischio che chi la sta subendo ne muoia) e psicologi.
Lungi dall’essere il prodotto di un’estemporanea perdita di controllo o della presenza di mele marce all’interno di un
cesto che si autodefinisce sano, la tortura odierna è al centro di un sistema curato con estrema meticolosità e, si
potrebbe dire, con un approccio manageriale, in cui viene studiato ogni punto debole del nemico e curato ogni minimo
dettaglio della conduzione degli interrogatori e del trattamento riservato ad un prigioniero.
È difficile dire se faccia più male la tortura fisica od uno stato di perenne incertezza ed angoscia sul proprio destino; se
lasci più segni una scarica elettrica o l’ascolto delle urla di chi sta subendo torture nelle stanze accanto; se annichilisca
più di una sevizia sessuale o la minaccia che tali sevizie verranno subite dai propri congiunti. Ma l’una o l’altra forma di
tortura provocano danni duraturi. Gli operatori e le operatrici dei centri per la riabilitazione psicofisica delle vittime della
tortura lo sanno bene. La loro missione è di ricostruire, pezzo dopo pezzo, le macerie di un terremoto emotivo.
La tortura è anche un prodotto alimentare tecnologico. Nel mondo attualmente operano oltre 100 aziende che si sono
specializzate nella produzione di strumenti di tortura. Si tratta per lo più di congegni elettrici o di sostanze chimiche che
rendono inoffensiva, a volte per sempre, la persona contro la quale vengono usati. Addirittura, la tecnologia è riuscita ad
eliminare l’ultimo difetto della tortura, ovviamente dal punto di vista del torturatore: la necessità di essere a contatto con il
torturato.
Per fortuna, all’inizio di ottobre il Parlamento europeo ha adottato una normativa più rigorosa contro la
commercializzazione e la promozione, all’interno dell’Unione europea, di strumenti ideati od idonei a torturare. Che sono
molti di più di quanto si immagini: ceppi e manette, manganelli elettrici, spary urticanti, schiume, pistole e cinture
elettriche, bastoni acuminati, sedie da immobilizzazione dal raffinato design.
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