Si è scelto un brano che volendo si può citare quasi ad apertura di pagina. La tortura, la distruzione e la demolizione dei
corpi rischiano di perdere concretezza, rischiano di non essere vedute, di non essere percepite: “La morte e le immagini
della morte rappresentano uno dei vari tabù sopravvissuti, ed ancora più le immagini della morte offrono l’essenzialità
spietata della politica, l’immagine della morte nella nudità. Sia chiaro, un tabù che risulta contraddetto da un’opposta
tendenza e schietta polarizzazione dello stesso evento che può diventare show del disfacimento dei corpi e del declino
fisico, sangue che cola, distese di cadaveri, reality cimiteriale del varietà macabro, e tuttavia questo costituisce al
presente ancora un’eccezione, sempre più meccanismo di liofilizzazione della morte, della sua tecnicizzazione ed al
tempo stesso di sua astrazione. Va tenuto presente infatti che il mezzo dominante nel sistema complessivo della
percezione dell’incorporeità”. Attraverso questa incorporeità, scrive Luigi Manconi con Valentina Calderolli, “si può
opporre alle volte in maniera efficace un’immagine”, e sono le righe principali di questo brano. In questo caso si parla
della morte di Stefano Cucchi in un servizio televisivo, “e restituisce alla morte sua demonstratio l’essenzialità di una
maschera mortuaria”, che introduce uno shock, solo che l’essenzialità, la concretezza, lo shock a cui mira il primo
intervento di Luigi Manconi ha un altro punto di partenza.
Gli studi sono essenziali proprio per combinare insieme una sorta di atemporalità delle tematiche che trattiamo, cioè in
qualche modo l’eternità, l’assolutezza, il suo collocarsi fuori dal tempo della cronaca, della capacità di esercitare
crudeltà, e però allo stesso tempo nel dare, questo esercizio della crudeltà, il suo contesto, nella storia di chi ha vissuto e
della storia che stiamo vivendo, perché c’è davvero una efferata coincidenza nell’impossibilità di non cogliere in alcuni
fatti della cronaca contemporanea tutto il tempo storico che ha preceduto la cronaca. È impossibile sottrarsi alla potenza
educatrice degli avvenimenti del ‘900, quando si affrontano vicende così attuali come quelle di cui parliamo.
Questo costante intreccio tra atemporalità, storicità di sentimenti, passioni dell’umano ed allo stesso tempo il loro
precipitare nei fatti molto concreti e tangibili, esprimono quella formidabile citazione dove si parla della tentazione di
schivare il concreto.
Il martedì di Pasqua del 2016 Manconi ha promosso all’interno del Senato della Repubblica la prima iniziativa pubblica
che vedeva presenti i genitori di Giulio Regeni. È stato un evento politicamente importantissimo, e si vogliono richiamare
di quella lunghissima conferenza stampa alcune frasi, poco più di un lungo passaggio, perché il nesso si trova in molte
delle considerazioni che abbiamo incominciato a formulare.
La madre di Giulio Regeni, Paola, che parla del momento in cui lei e suo marito vedono per la prima volta il cadavere del
loro figlio. La signora pronuncia le parole che seguono, con una potenza teatrale, proprio per la forza di evocazione che
suscita, e così vicino al marito dice: “Il volto di Giulio era diventato piccolo, piccolo, piccolo. Lo abbiamo riconosciuto
dalla punta del naso. Sul suo viso, tutto il male del mondo”. C’è una qualche incertezza iniziale, ma poi, lo si capisce
senza equivoci, che tutto il male del mondo è esattamente il male assoluto, è la tortura. E quello che immediatamente
colpisce, è il fatto che in quelle parole così potenti, letterariamente e culturalmente, noi assistiamo ad un processo
incredibile di assunzione di ruolo. I genitori di Giulio, la madre, come decine e decine di volte è accaduto di osservare in
vicende non simili ma nemmeno troppo diverse accadute in questi anni, trovano la forza, la capacità espressiva per fare
del proprio dolore più intimo, della propria sofferenza più profonda e riservata, un’occasione di coscienza pubblica, cioè è
l’intimità del dolore profondo, quello che rimanda alla morte del figlio, ed al carattere così intimo che costituisce, e che
allo stesso tempo richiede, per fare di quel dolore un’occasione di consapevolezza collettiva. E ciò lo si vede, perché
nelle parole successive di Paola Regeni il riferimento è ripetuto a coloro che indichino, coetanei oppure più anziani,
vivono la stessa sorte di Giulio: la sparizione, la prigionia in celle segrete, le sevizie, la tortura fino alla morte, il corpo che
in un numero elevatissimo di casi è martoriato. Ma ciò che colpisce è quel “tutto il male del mondo”. C’è appunto la
coscienza di come quell’atto rappresentato dalla procedura della tortura rappresenti il male assoluto.
E Manconi pensa che proprio di questo si tratti, esattamente perché quella parola usata da Primo Levi, quel termine in
qualche modo quasi estraneo al procedere del discorso e che assume quella forza ruvida e così concreta, così
materiale, che è la demolizione, termine che sembra appartenere ad un dizionario di altre discipline, che hanno a che
fare con la forma umana, con la costruzione o la demolizione, ecco quel termine in realtà ha la sua pienezza semantica
proprio nel fatto che la tortura rappresenta allo stesso tempo il massimo di violenza esercitato, diciamo così, sul corpo e
sull’anima. Perché la tortura non è un insieme di lesioni che colpiscono l’organismo fisico, non è l’efferatezza di colpi
inferti al volto, così spesso alla schiena, e brutalità sui genitali, di reiterate sevizie sulle piante dei piedi. Non è questo, è
anche questo. Ma questo sistema di lesione, questa successione di atti costruiti, pensati, appresi, dotati di una loro
raffinatezza, hanno poi un fine ben preciso, che è la demolizione della sua personalità. Quell’applicarsi all’organismo
fisico ha il suo esito nell’annichilimento dell’identità personale, cioè nel suo riprodursi come violenza sulla struttura
psichica del soggetto, ogni violenza fisica inferta al corpo ha lo scopo di attuare una procedura di mortificazione, di far
scattare un dispositivo di umiliazione, di portare ad un ulteriore annichilimento dell’identità. In questo senso la tortura è
tutto il male del mondo. È il male assoluto. Per questa sua incredibile capacità di aggredire l’uomo nella sua complessiva
struttura, nella sua totalità, nell’interezza della sua persona.
C’è qui un interessantissimo incrocio tra il Basaglia citato prima ed un Primo Levi di un incredibile altro brano dove
descrive i treni blindati che vanno verso i campi di concentramento. Primo Levi usava questa formula: “materia umana”,
ed è pensando a questa formula che Manconi ha pensato di aver davvero capito che cos’è la tortura. Se noi pensiamo
all’essere umano proprio come il sublime, quindi come corpo ed anima, psiche ed organismo, fisico e pensiero,
personalità e corporeità, se noi pensiamo a questo, la tortura è esattamente un progetto di scissione dell’individuo, di
separazione radicale e brutale e crudele della sua interezza per ridurlo ad una sola parte di esso. La tortura è quel
procedimento che vuole ridurre l’uomo alla materia, cioè che vuole ridurre l’uomo all’organismo che soffre, ma un dolore
fisico. È come quando Basaglia dice: “Riduzione dell’uomo alla sofferenza ed al bisogno”. Le parole sono quasi
identiche, anche se Basaglia le sviluppa fino all’ultima implicazione e Primo Levi le fissa in quella frase formidabile. La
tortura è esattamente questo. È ridurre l’uomo alla sofferenza fisica. Possiamo dire di più: ridurre l’uomo al suo dolore,
ma il dolore qui inteso davvero nella sua corporeità, nella tensione dei muscoli, dei nervi, del sangue, dove dunque viene
come allontanata, liquidata, completamente scissa e separata tutto ciò che è consapevolezza, persino la
consapevolezza intellettuale, cognitiva, psicologica del dolore. C’è solo il dolore che fa impazzire. Non a caso quando si
descrive, e molto da parte della letteratura è stato fatto, il massimo dell’allucinante, quel dolore lancinante viene descritto
come un passaggio dalla percezione, dopo il quale dolore non c’è più intelligenza, non c’è più la coscienza. Ciò è così
descritto proprio perché in qualche misura lì il dolore ha vinto, così come nella tortura il torturatore ha vinto, ha ridotto ciò
che era unito, intero, complesso, materia umana, ad uno solo dei due elementi. Materia, che soffre e che urla ma che è
destinata semplicemente ad agonizzare fino alla morte.
Quando Paola Regeni ha pronunciato quelle frasi che abbiamo letto sui giornali, di quelle tre frasi che pronunciò, a
Scarpa rimase impressa soprattutto quella centrale, un particolare piccolo ma concreto, la punta del naso, l’unica cosa
che si riconosceva della faccia di suo figlio. Adesso sentirla pronunciare, è teatrale ma non è spettacolare. È su un piano
per cui una serie di parole pronunciate da una madre sono nello stesso tempo intime e pubbliche. Questo è un fatto
importante perché, essendo intime sono vere, di una verità concreta, ed essendo pubbliche hanno un valore di rilancio
pubblico. Va evidenziato innanzitutto la loro intimità, perché “piccolo, piccolo, piccolo”, ripetuto tre volte, è forte. Che
cos’è quel gesto, quel ripetere quell’aggettivo? È cercare l’ultimo nome affettuoso per il proprio figlio.
In che modo le madri creano, girando intorno alle radici, ai temi, ai suoni, alle vocali, alle consonanti, ai gruppi
consonantici, i nomi di affetto per i propri figli? È tutto lì, è quel processo ternario, è l’istinto che crea l’esattezza
espressiva e politica.
“Piccolo, piccolo, piccolo – La punta del naso – Tutto il male del mondo”. Ecco che si va dal piccolo al mondo, il mondo è
quello della politica. Immediatamente c’è questo.
Ed allora se si deve rilanciare il discorso, che non è un discorso, sono delle parole che vengono tirate da un’occasione
che uno non vorrebbe mai vivere, perché vedere il corpo del proprio figlio morto, morto in quella maniera, se quelle
parole hanno un valore politico, è per il fatto che ci chiedono di guardare.
Stasera stiamo citando in tante maniere Primo Levi perché è meno meschino, meno gretto. Levi ci chiede di guardar