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APPUNTI E SCHEMI DI PSICOLOGIA SOCIALE
7 - L’AGGRESSIVITA’
Siamo purtroppo abituati a sentir parlare di aggressività, sebbene non sempre abbiamo una definizione
scientifica in grado di qualificarla con precisione.
Secondo Baron e Richardson, un’azione aggressiva è un comportamento intenzionale volto a causare danno o
dolore fisico e/o psicologico ad un’altra persona, la quale è ovviamente motivata ad evitare tale danno.
Il comportamento aggressivo, dunque, trae innanzitutto la sua identificazione dalle motivazioni sottostanti, più
che dalle sue conseguenze, che possono o meno essere effettivamente dannose. Inoltre, c’è bisogno di
consapevolezza da parte dell’esecutore per definire effettivamente un’azione aggressiva. Non ultimo, anche il
soggetto bersaglio, deve concepire l’azione come tale, cosa che non avviene per esempio – malgrado la
sussistenza dell’azione dell’arrecare dolore, violenta – nelle pratiche sessuali violente (sadomasochismo, etc.).
L’aggressività è catalogata secondo due diverse tipologie: quella ostile è il risultato di un’espressione di rabbia,
ed è finalizzata allo scopo di infliggere dolore; quella strumentale, invece, è soltanto un mezzo per ottenere un
particolare scopo, ed è quindi da intendere come funzionale al perseguimento di un obiettivo, qualunque sia.
Misurare l’aggressività è estremamente difficile! Nella ricerca, si risponde a questa esigenza utilizzando come
strumenti le osservazioni dirette dei ricercatori, o utilizzando resoconti ottenuti da altre fonti, che possono
essere o gli stessi soggetti osservati (self-report, etc.), o osservatori indipendenti, o ancora dati d’archivio.
Va da sé che il codice etico oggi restringe di molto le possibilità dei ricercatori circa l’utilizzo di mezzi che
arrechino danno a soggetti coinvolti negli esperimenti: alle vere scariche di un tempo sono dunque preferite
finte scariche elettriche e si utilizzano come variabili indipendenti, ad esempio, l’esposizione a film violenti,
rumori, salse piccanti, etc.
Teorie sull’aggressività
Chiariti brevemente quali sono gli strumenti con i quali viene studiata l’aggressività, c’è da chiedersi quali siano
le teorie che ne spiegano l’esistenza e, conseguentemente, la sua manifestazione.
Gli approcci sono essenzialmente due, biologico e psicologico, ma le teorie sono diverse e variegate.
Teorie con approccio biologico
L’approccio biologico ritiene che l’aggressività dell’uomo sia causata o almeno influenzata da variabili proprie di
questo campo scientifico come la genetica o gli ormoni, e sostiene quindi tesi perlopiù innatistiche (da Hobbes).
- Secondo la prospettiva etologica di Lorenz, l’aggressività è causata da un’energia interna prodotta
continuamente dall’uomo, che finisce per manifestarsi in comportamento aggressivo raggiunta una certa
soglia, e postosi in essere un certo stimolo, che di fatto innesca lo sfogo (modello della caldaia a vapore).
- Per la genetica del comportamento, invece, l’aggressività è influenzata in parte dal corredo genetico
dell’individuo. A differenza della teoria precedente, per questa le evidenze mostrano una certa verità per
questo modo di vedere le cose (es. studi sui gemelli monozigoti). Anche l’ambiente però è decisivo.
- Anche gli ormoni, però, giocherebbero un ruolo ancora tutto da quantificare circa la manifestazione dei
comportamenti aggressivi: testosterone alto e cortisolo basso aumenterebbero la probabilità di essere
aggressivi, tuttavia dagli studi sulla correlazione non si sono ancora avuti risultati pienamente soddisfacenti.
Teorie con approccio psicologico
Come la biologia, anche la prima psicologia sosteneva che l’aggressività fosse una tendenza innata di risposta.
- L’ipotesi frustrazione-aggressività di Freud considera l’aggressività come una delle risposte possibili in
seguito ad uno stato di frustrazione. Possibile perché con insorgenza strettamente dipendente dalla situazione
ambientale in cui il soggetto è posto, e dunque non sbocco obbligatorio di uno status di frustrazione.
La frustrazione è la sensazione di ostacolo che l’individuo prova nel suo cammino di raggiungimento di uno
scopo o di una gratificazione attesi. Si genera specie se il soggetto sentiva, prima, di essere vicino al suo scopo, è
colpito in maniera inattesa, inaspettata o per motivazioni che ritiene illegittime, incomprensibili.
L’aggressività, essendo espressione di frustrazione, è spesso diretta, secondo questa teoria, verso soggetti
deboli, ed è pertanto deviata. Deviazione generabile, tra l’altro, ricorrendo a punizioni o minacce di punizioni.
E’ stato osservato che la presenza di armi, da esperimenti fatti alla fine degli anni Sessanta, stimola l’insorgere di
comportamenti aggressivi, e quindi l’espressione di questa frustrazione. Tuttavia ciò avviene anche in soggetti
non frustrati, motivo per il quale questa teoria, probabilmente, non copre tutti i casi reali possibili, è parziale.
- Quanto sostenuto da Freud è stato ampliato, con altre evidenze e prospettive, nella teoria del
neoassociazionismo cognitivo di Berkowitz, il quale ha di fatto allargato gli stati emotivi negativi, oltre che alla
frustrazione, anche a situazioni di dolore, rumore, indisposizione, ed altro ancora.
Per questa teoria, uno stato emotivo negativo, qualunque esso sia, attiva (arousal) pensieri, ricordi e risposte,
sentimenti negativi non specifici che evocano attacco o fuga, che - ad una seconda elaborazione, più accurata -
si configurano poi in comportamenti di aggressione o evitamento.
- Il processo di valutazione cognitiva implicato nella teoria precedente, gioca un ruolo fondamentale anche
nel modello del trasferimento dell’eccitazione di Zillman. Il modello è simile alla teoria precedente, tuttavia
precisa che attivazioni fisiologiche generiche (come ad es. il correre) possono amplificare la risposta aggressiva
(nel correre la rabbia cresce, e l’atto aggressivo si fa più probabile).
Pur restando nell’ambito delle teorie con approccio psicologico, altre teorie sono partite da basi completamente
diverse, questa volta non più legate all’enfatizzazione di una caratteristica biogenetica, ma spiegando come
l’aggressività possa essere figlia di esperienze apprese nei processi di socializzazione.
- E’ il caso dei modelli dell’apprendimento, secondo i quali l’apprendimento di comportamenti aggressivi è
guidato da rinforzi diretti e dal modellamento.
Nel caso dei rinforzi diretti, il comportamento aggressivo è acquisito perché nel corso di alcune esperienze
attraverso esso si sono ottenuti degli obiettivi o si è stati per questo ammirati.
Il modellamento, invece, altro non è che una forma di apprendimento per imitazione, formula ampiamente
dimostrata efficace da numerosi esperimenti, come quello celebre della Bobo Doll, la bambola Bobo.
- In ultimis, i modelli socio-cognitivi hanno dimostrato come il comportamento aggressivo sia dovuto ad una
rappresentazione cognitiva astratta chiamata script aggressivo che funge da linea guida per decidere se mettere
in atto un comportamento aggressivo in una data situazione.
In pratica, a fronte di sollecitazioni negative quali ad esempio una provocazione, il soggetto decide se applicare
o meno lo script aggressivo e, in caso di decisione affermativa, applica una serie di schemi che configurano
aggressività, secondo certe determinate regole, verso il soggetto provocante.
Tutte queste teorie hanno la loro efficacia, la loro efficienza, i loro pro e i loro contro. E’ per questo che non
sono da vedere come mutualmente escludentisi, ma come pezzi dello stesso puzzle.
C’è però chi ha provveduto per davvero a combinare questo puzzle, e a postulare una teoria generale: è il caso
del modello generale dell’aggressività sviluppato da Anderson e colleghi, il quale di fatto struttura tutta la
dinamica dell’aggressività, modellizzandola a partire dalle stimolazioni in entrata e giungendo fino alle eventuali
risposte del target ad un dato comportamento aggressivo.
Il modello generale definisce gli input classificandoli come relativi sia a variabili individuali del soggetto, che a
variabili situazionali. Successivamente, guarda allo stato interno presente nel soggetto (emozioni, attivazione
fisiologica, etc.), alla valutazione automatica (inconscia) e a quella controllata, analizza poi il comportamento
(aggressivo o meno), e qualifica la risposta del target (che pure può essere o meno aggressiva).
Fattori che influiscono sull’aggressività
Esistono fattori che influiscono sulla possibilità o meno di fare insorgere comportamenti aggressivi. Essi possono
dipende sia da differenze individuali, che da situazioni contestuali.
Fattori individuali
I fattori individuali che hanno a che vedere con l’aggressività sono l’aggressività di tratto, il bias di attribuzione
ostile e il genere.
- L’aggressività di tratto descrive le differenze individuali stabili in tempo e situazioni di un soggetto.
Alcuni soggetti sono indubitabilmente più aggressivi di altri.
Le aggressioni per le quali si possono avere tendenze diverse sono a loro volta diverse tra loro: tra esse,
l’aggressione fisica, quella verbale, la rabbia (irritazione prodotta da impotenza, delusione) e l’ostilità
(comportamento volutamente malevolo, da nemico).
- Il bias di attribuzione ostile è la tendenza di alcuni individui, stabile nel tempo, ad interpretare condotte
ambigue altrui come indice di ostilità ed intenzioni malevole. E’ spesso collegato all’aggressività di tratto, e si
ritiene che l’esposizione ad atteggiamenti simili in un soggetto porti lo stesso a pensarla in questo senso.
- Le differenze di genere sono relative ad una serie di ipotesi, confermate da metanalisi e dati d’archivio, per
le quali l’uomo è considerato più aggressivo della donna. Le motivazioni potrebbero risiedere nel suo
passato da cacciatore e da motivi legati, ad esempio, agli ormoni.
Tuttavia è apparso che le donne hanno invece una discreta tendenza all’aggressività relazionale, ossia a
deteriorare intenzionalmente i rapporti sociali con bugie e diffamazione, per creare discordia.
Fattori situazionali
Sono fattori situazionali collegati all’aggressività l’assunzione di alcol, l’elevata temperatura ambientale e
l’esposizione a contenuti violenti nei mass media.
- L’assunzione di alcol condiziona i soggetti in quanto riduce la capacità di valutare le situazioni e l’effetto
frenante dei freni inibitori. Ricerche dimostrano che ciò avviene anche per q