1905 l'altra rivoluzione russa
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41905: L’ALTRA RIVOLUZIONE RUSSA
Max Weber e la rivoluzione russa del 1905
Max Weber inquadrò i fatti della rivoluzione russa del 1905-1906 nella convinzione
che ad essi fosse legato il destino stesso della democrazia liberale.
Nell’Occidente europeo il progresso economico e culturale era già vicino ad un punto
di saturazione, la speranza che la Russia si aprisse ai valori liberal-democratici
lasciava intravedere la possibilità di spostare il baricentro della civiltà occidentale
verso un grande Impero continentale che possedeva grandi potenzialità di sviluppo.
Dato che per lui il capitalismo avanzato burocratizzava le relazioni sociali, limitando
la libertà, si chiedeva se in Russia gli eventi rivoluzionari ed i suoi principi avrebbero
potuto affermarsi anche qui dove il capitalismo moderno era comunque penetrato.
Lui prese posizione verso questi avvenimenti soprattutto per dare un resoconto
veritiero e di informazione giusta verso il movimento di liberazione russa contro lo
zar, dato che la pubblicistica tedesca era molto spesso sommaria e contraria agli
avvenimenti.
La sua presa di posizione pubblica avvenne in una conferenza tenuta a giugno dal
geologo Alfred Hettner; dopo l’intervento di questi, prese la parola Weber e presentò
gli obbiettivi programmatici del partito costituzional-democratico russo.
Un progetto costituzionale, definito “Unione di liberazione”, era già stato elaborato,
ma l’intellettuale tedesco manifestava scarso ottimismo nel trasformare la Russia
zarista in senso liberaldemocratico. Questo era impedito dal troppo forte legame che
lui vedeva tra lo zar e i contadini russi, i quali vedevano nel sovrano il rappresentate
di un ordine sociale fissato da Dio.
Questo primo progetto offrì a Weber lo spunto per il suo primo scritto sulla
rivoluzione russa. L’aveva concepito come una cronaca degli eventi da aggiornare e
correggere in continuazione; Weber dava una particolare attenzione al movimento
liberale, inteso come l’unico che potesse aprire la via ad uno sviluppo costituzionale
sullo stampo occidentale. Nel corso della stesura, se prima lo zar poteva scendere a
patti con le richieste, Max si rese conto che la rivoluzione aveva ormai raggiunto il
suo punto più alto.
Ciò che ostacola l’affermazione del movimento liberale è: 1- mancanza di una base
solida nei ceti borghesi che doveva essere continuamente supportata; 2- lo sviluppo
capitalistico aveva fatto venire meno i presupposti perché il liberalismo borghese
potesse riformare l’ordinamento russo.
Quindi il predominio delle classi medie non si sarebbe potuto attuare dato che ormai
avrebbe avuto contro il proletariato urbano e la popolazione rurale.
Un altro problema per uno Stato costituzionale fondato sulle libertà, era per Weber il
problema della nazionalità. In particolare le mire di indipendenza di Polacchi e
Ucraini metteva in pericolo l’unità e l’azione del movimento liberale, poiché era
diviso al suo interno sulle risoluzioni di tali problemi. Inoltre per lui non bisognava
aspettarsi un supporto al movimento liberale da parte della Chiesa Ortodossa; questa,
diversamente dal protestantesimo, era la fede religiosa (per lui) dell’assolutismo, per
via del suo legame con lo Stato e la sua organizzazione autoritaria.
L’argomento maggiormente affrontato da Weber in questo suo primo scritto è la
questione agraria. Questa problematica si ripercuoteva anche sull’operato e le sorti
del movimento costituzional-democratico e sul suo programma nella società russa.
L’atteggiamento dei contadini russi, che erano la maggioranza, avrebbe potuto
permettere lo sviluppo della Russia in senso europeo-occidentale; ma Weber si
chiedeva fino a che punto questi avrebbero sostenuto le rivendicazioni liberali se le
loro richieste economiche sarebbero state soddisfatte in modo da favorire la causa
della democrazia borghese.
La richiesta di terra da parte dei contadini non aveva un fondamento individualistico,
quindi per lui una riforma agraria liberale avrebbe rafforzato le tendenze contrarie
all’individualismo presenti in Russia. La distanza tra le campagne e il liberalismo
balza agli occhi nei due congressi panrussi del 1905 che si erano svolti sotto
l’influsso dei socialisti rivoluzionari e dei populisti.
Altro aspetto che rendeva improbabile l’appoggio al liberalismo era che le
rivendicazioni contadine erano solo ed esclusivamente di carattere economico.
Alla fine del primo saggio quindi Weber afferma che la realizzazione dei valori
individualistici e della democrazia non doveva essere attesa dallo sviluppo
economico, perché questo era contrapposto agli aspetti prettamente materialistici del
capitalismo.
Questa conclusione ritrova eco anche nel secondo saggio di Weber, che è
un’esposizione dettagliata degli sviluppi politici in Russia dal Manifesto del 17
ottobre fino allo scioglimento della prima Duma. Ancor più del precedente, questo
saggio voleva rappresentare più oggettivamente le aspirazioni dei costituzionali-
democratici in Russia.
La principale preoccupazione era quella di mettere in risalto il carattere fittizio delle
riforme del ministro ad interim di Vitte, le quali non avevano dato effettiva attuazione
ai diritti costituzionali proclamati dal Manifesto di ottobre (particolare critica alla
censura dei funzionari locali e la mancata libertà religiosa).
Weber dedica particolare attenzione anche al sistema di voto, basato su suffragio
censitario e indiretto, che il governo aveva escogitato per creare una maggioranza
nella Duma. La nuova legge elettorale dopo il Manifesto aveva aumentato gli elettori
della popolazione urbana; ma la burocrazia statale era riuscita a ridimensionare gli
effetti dell’ampliamento della base elettorale, facendo in modo che la rappresentanza
dei moderni ceti borghesi alla Duma restasse invariata numericamente e che non
diminuissero il peso e l’influenza dell’elettorato rurale.
Anche nel secondo saggio trova spazio il tema della questione agraria, che prende
piede da dentro il partito costituzional-democratico, sulle risposte e gli atteggiamenti
da dare al bisogno di terra dei contadini.
L’inasprimento dei contrasti di classe (contadini vs proprietari) faceva notare a Weber
la debolezza degli ideali liberali di fronte agli interessi materiali, prendendo spunto
proprio dal mutato atteggiamento di quel gruppo sociale da cui provenivano: “le
menti migliori del liberalismo degli Zemstvo”. (Zemstvo: era un assemblea/ concilio
provinciale della Russia zarista).
Il giudizio della Chiesa sulla rivoluzione del 1905: lettura de
“L’Osservatore romano” e della “Civiltà cattolica”
Lo scoppio inaspettato della rivoluzione russa del 1905 impone in tutta Europa di
seguirne oi successivi avvenimenti interni, la cui portata internazionale appare subito
evidente in relazione anche alla guerra in Estremo Oriente che tale evento
insurrezionale potrebbe provocare negli stati occidentali.
Di fronte a molti giornali anticlericali, c’era il bisogno di configurare una stampa di
diffusione e difesa della fede cristiana.
“L’Osservatore romano” e la “Civiltà cattolica”; le due riviste, nonostante idee di
base comuni, presentano alcune differenze dovute al loro carattere: quotidiano
politico-religiosa la prima, quindicinale di cultura religiosa la seconda.
La “Civiltà cattolica”
1.
La “civiltà cattolica”, rivista redatta dalla Compagnia di Gesù, si poneva lo scopo
esplicito di proporre “un solo modello di civiltà cattolica, valido ieri, oggi e domani,
in tutti i tempi, in tutti i continenti”.
Il primo numero uscì nel 1850; godette di una grande diffusione dovuta
principalmente all’attualità degli argomenti affrontati ed all’impostazione che univa
alle profonde disquisizioni teoriche pagine adatte a tutti, con racconti a tema e
sguardi acuti sugli avvenimenti contemporanei.
Della rivoluzione russa si parla sin dal quaderno del 28 gennaio 1905 e si continua
per tutto l’anno: da notare però che gli articoli sono proprio minimi e solo nella parte
dedicata al mondo orientale il collaboratore dalla Russia può permettersi di esprimere
le proprie idee attraverso il commento dei giornali locali russi.
Il clero ortodosso russo, allo scoppio dell’insurrezione nel 1905, era in una forma di
schiavitù nei confronti dello stato burocrate, tanto che il corrispondente fu costretto
ad ammettere che “veramente si può dire che la parola di Dio è legata in Russia”,
dilungandosi sull’effettivo valore delle concessioni religiose.
La “Civiltà cattolica” tornerà ad affrontare il problema della libertà religiosa
nell’impero moscovita nell’intervento di Padre Pierling, pubblicato a più riprese
durante il regime bolscevico.
“L’Osservatore romano”
2.
Il primo giorno di diffusione del quotidiano fu il 1 luglio 1861; esso vide la luce
come una qualsiasi pubblicazione e solo dopo il 20 settembre 1870 ed alla scomparsa
del “Giornale di Roma”, il primo foglio ufficiale pontificio, fu forzato ad assumere un
ruolo che non era nelle intenzioni iniziali dei responsabili. Nel 1885 in seguito
all’acquisto della proprietà del giornale da parte di Leone XIII, divenne organo
d’informazione della Santa Sede.
Il quotidiano, con scopo chiaramente apologetico in difesa dello Stato pontificio,
svolgeva una doppia funzione: informativa ed esplicativa.
In questo giornale, rispetto al precedente, gli avvenimenti russi del 1905 sono oggetto
di un’attenzione maggiore volta a suscitare un indubbio interesse nell’abituale lettore
cattolico. Spesso furono presentati i “neutrali” resoconti degli avvenimenti pubblicati
spesso in maniera identica nei vari quotidiani italiani. Solo in occasione degli
avvenimenti più drammatici o inaspettati il trafiletto impersonale della cronaca è
sostituito quasi con un romanzo.
Nel 1905 non c’è una persona deputata allo studio ed al giudizio sugli eventi russi, di
cui spesso si è costretti ad ammettere di non poter conoscere la vera realtà; si
susseguono invece il direttore del giornale Giuseppe Angelini, il vice-direttore don
nazzareno Ignazi e il redattore capo Giuseppe Bayard de Volo.
La linea editoriale vedeva le concessioni imperiali come un frutto legato alla naturale
evoluzione legata al momento storico vissuto dalla Russia. I sobillatori della
rivoluzione, infatti, sembrano temere proprio una maggiore libertà civile e politica, la
cui realizzazione avrebbe impedito il moto rivoluzionario in corso. Questi ultimi non
si soffermano a riflettere se la Russia attuale sia realmente in grado di godere e
gestire le libertà richieste e in parte ottenute con la violenza.
La figura del settari privo di scrupoli, nel caso del 1905, viene delineata in tutta la sua
negatività sottolineando la differenza tra il perseguimento rivoluzionario di propri fini
utilitaristici e la lotta in corso per il miglioramento della vita socio-economica di tutti
i russi e non solo di una parte di essi a danno dell’altra. La colpa dei rivoluzionari, per
“L’Osservatore romano”, si configura come ancora più grave proprio perché la loro
azione si realizza in un momento di così grande difficoltà per la patria, in un
momento cioè in cui l’unità nazionale avrebbe dovuto costituire l’unica e vera
priorità.
Le critiche all’insurrezione che ha impedito la normale evoluzione legislativa e
l’approvazione dell’operato dello zar, ritornano nelle pagine dell’ “Osservatore
romano” in occasione della pubblicazione del Manifesto di ottobre; non si ha quindi,
alcun dubbio nell’affermare la totale assenza di responsabilità dello zar nella
rivoluzione così come nelle gravi condizioni economico-sociali della Russia.
[“Sappiamo benissimo che il Sovrano esiste per il popolo e non il popolo per il
Sovrano, sappiamo benissimo che ragione unica e sola dello Stato è quella di
promuovere il benessere del popolo, sappiamo pure che la pazienza di questo popolo
può, in casi rarissimi ed estremi, avere anche un limite e stancarsi, ma sappiamo pure
che la Russia contemporanea, per quanto essa sia alquanto in ritardo sulla via
dell’emancipazione sana, non offre pretesto sufficiente a rovesciare di punto in
bianco ogni ordine costituito solo perché così piace ad un pope esaltato e
malcontento”]
La responsabilità di tali violenze e pretese è quindi da ricercare nell’ambiente
internazionale: i governi di tutto il mondo, se da una parte sui loro giornali presero le
difese dei rivoluzionari, dall’altra già prima dello scoppio della rivoluzione hanno
fomentato gli animi degli anarchici e dei socialisti rivoluzionari spingendoli sulla
strada della rivolta.
Il tema delle riforme religiose, tanto caro come abbiamo già detto alla “Civiltà
cattolica”, è trattato solo secondariamente ne “L’Osservatore romano”. Nell’editoriale
di Bayard de Volo dedicato alle dimissioni da procuratore del Santo Sinodo di
Konstantin Petrovic Pobedonoscev, il tema della libertà religiosa appena riacquistata
dai cattolici è strettamente collegato a quello dell’accettazione di qualunque forma di
governo.
La concessione della libertà religiosa per mezzo dell’ukaz imperiale implica una
riflessione sulle condizioni di vita delle comunità ebraiche in Russia e sui frequenti
pogrom antisemitici, oggetto di una necessaria ma distaccata condanna.
“L’Osservatore romano”, quindi, nonostante la “Civiltà cattolica” avesse già
affermato che “la Russia nutre a buon diritto una diffidenza inveterata verso il
giudaismo”, vuole sottolineare con decisione che la libertà ottenuta non deve
assolutamente equivalere “ad intolleranza ed a guerra fratricida”.
Sarà, infatti, solo dopo le rivoluzioni russe del 1917 che la pubblicistica cattolica
uniformerà il proprio giudizio sugli ebrei identificandoli totalmente con i bolscevichi
che hanno preparato l’insurrezione e che continuano a muovere i fili nascosti della
finanza mondiale affinché la ribellione si estenda negli altri paesi.
La redazione de “L’Osservatore romano”, dunque, nonostante la quotidiana
attenzione riservata alle vicende russe, non riesce ad approfondire le reali cause della
rivoluzione in corso, né tanto meno ad analizzarle in maniera non superficiale le
diverse forze politico-sociali attive in Russia.
Il 1908 nel Baltico
Precondizioni
Il Baltico venne investito dalla rivoluzione del 1905 con grande violenza: l’inizio del
nuovo secolo si caricò di una tragicità che sarebbe poi stata costante nel XX secolo in
quello spicchio d’Europa ritenuto dalla Russia di vitale importanza strategica,
economica e militare.
La rivoluzione del 1905 in Lituania, Lettonia ed Estonia fu preparata da alcune
tendenze economiche, sociali e politiche che si erano sviluppate per decenni nei tre
paesi baltici e che trovarono nella reazione ai fatti di San Pietroburgo l’occasione
giusta per portare a termine il loro percorso politico assai articolato.
Alcune di queste tendenze mostrano caratteri di linearità e sono comuni in tutti e tre
gli stati. Tuttavia questa è spesso interrotta da elementi di discontinuità.
Molto più eterogeneo di quanto si pensi era il livello dello sviluppo economico nei tre
paesi: quindi il quadro del tessuto sociale era, in Lituania, Lettonia ed Estonia, molto
diverso e così anche le aspettative della popolazione.
Estonia: aveva visto crescere l’opposizione al centralismo russo: politicamente, le
parti moderate e radicali si erano delineate già nel corso dell’ultimo quarto del XIX
secolo. Il primo quarto del ‘900 offriva un panorama politico piuttosto maturo e in
grado di accogliere le istanze politiche nuove, come il socialismo. Questi
condividevano con i partiti nazionalisti, l’avversione al potere zarista, ma erano più
radicali e contrapposti ai moderati, le cui tendenze si basavano più su una sorta di
compromesso politico: I socialisti promuovevano l’abbattimento dello zarismo con
una rivolta armata violenta che avrebbe introdotto un governo proletario, abolito la
proprietà privata e dato il via ad un’economia pianificata.
Lituania: l’industrializzazione era meno marcata che negli altri due paesi e tutto
sommato ancora legata ancora legata alla tradizione di base dell’economia. Come in
Lettonia e d Estonia, la popolazione era aumentata nel corso del XIX secolo: ma
quasi il 75% di questi erano contadini.
L’esplosione della rivolta
La “domenica di sangue” del 1905 ebbe conseguenze notevoli nei confini occidentali
della Russia. I social democratici dei vari paesi baltici presero l’occasione per
predicare la lotta di classe, principalmente nelle provincie lettoni; a Vilnius, Risa e
Kaunas invece si avvicendarono proteste, scioperi e rivolte.
Iniziate nelle città, le rivolte si diffusero rapidamente nelle campagne, soprattutto in
seguito al ritorno delle truppe dall’Oriente.
Tuttavia fu in Lettonia che la rivolta fu più violenta: la causa è da trovare nelle
componenti ideologiche sviluppatesi a Riga, ma soprattutto nella presenza di una
maggior numero di proprietari terrieri tedeschi.
Il Manifesto del 17 ottobre 1905 aveva permesso ai primi partiti politici di
abbandonare la clandestinità. In Lettonia e in Estonia, la sua uscita era coincisa con il
culmine della repressione. Il 18 novembre 1905 si aprì, a Riga, il Congresso dei
Delegati Lettoni, che vide la partecipazione di 900 delegati, tra cui molti
rappresentanti delle aree rurali.
In questo congresso, solo le ali più estremiste si spinsero a chiedere un’immediata
rivolta armata contro il governo zarista, senza tuttavia raccogliere consensi tra i
delegati.
In Lituania invece le cose erano andata diversamente: non esistendo un largo
proletariato, le idee social-democratiche si erano diffuse solo in alcuni attivisti. Gli
scontri si ebbero nelle zone rurali e ebbero come bersaglio gli insegnanti russi e il
clero ortodosso.
La Grande Assemblea di Vilnius
La rivoluzione del 1905 culminò il Lituania con la Grande Assemblea che si tenne a
Vilnius il 4 e 5 dicembre del 1905. L’Assemblea, chiamata inizialmente Conferenza
lituana, articolò le richieste rivoluzionarie del popolo lituano e catalizzò le diverse
richieste delle molteplici anime politiche del paese. L’unanimità con le quali le
risoluzioni passarono al vaglio dell’Assemblea, furono il risultato di compromessi di
alto valore ideologico, in grado di sopire le differenze ma non di annullarle: dopo
l’Assemblea, infatti, ogni partito trovò il modo di dettagliare e specificare le proprie
posizioni, in parte allontanandosene.
Ovviamente non tutti i partiti erano inclini a quest’Assemblea; il Partito Social-
Democratico e la sinistra sottovalutavano, nella prima fase, questa iniziativa:
ritenendo che una riunione accademica non avrebbe portato loro alcun beneficio e li
avrebbe marginalizzati, preferirono non partecipare.
L’assemblea e il suo programma avrebbe dovuto riguardare alcune delle principali
problematiche del momento: dagli effetti del Manifesto alle imminenti elezioni della
Duma, dalle questioni religiose e scolastiche, alle tasse. Ancora, l’Assemblea avrebbe
affrontato il problema della terra e altri problemi sociali che caratterizzavano il
momento politico, come le relazioni di classe, la convivenza con le minoranze e la
crescente immigrazione.
I contadini che vi parteciparono, però, considerarono l’Assemblea come una vera e
propria costituente. Alla base di questa convinzione c’era l’attività dei social-
democratici, che a cavallo dei due secoli era diventato di matrice marxista dopo
essere stato il punto fermo del ceto medio urbano. Quindi i contadini arrivarono a
Vilnius con grandi aspettative. L’enorme numero di delegati, molti social-
democratici, spinse il partito verso una piena partecipazione: un’inversione di rotta
che però non riuscì a modificare l’organizzazione dell’Assemblea nel senso di
accentuarne gli aspetti politici rispetto a quelli culturali.
L’inizio dei lavori fu pieno di difficoltà: i social-democratici volevano un cambio
nell’organo di presidenza, sostituendo Basanevicius (nazionalista), ritenuto non
rappresentativo delle istanze rivoluzionarie. Il compromesso a cui si giunse, anche
con i rappresentati di destra, fu quello di ruotare gli esponenti moderati alla direzione
dell’Assemblea.
Dopo questa vittoria, i social-democratici vollero anche cambiare il programma
dell’Assemblea, rendendolo più aderente alla situazione rivoluzionaria in Lituania. Se
da un lato i moderati e nazionalisti volevano valorizzare l’eredità di un glorioso
passato, i social-democratici volevano rafforzare l’analisi sugli aspetti rivoluzionari.
Ottenuta anche questa vittoria permise di dare all’Assemblea un carattere politico e a
determinare il corso successivo delle discussioni.
Il 4 dicembre, data di inizio dei lavori, fu subito capito che esistevano dei problemi di
comprensione sul ruolo dei delegati: tra i contadini c’era la convinzione che
l’Assemblea potesse essere un espediente per distribuire le terre e risolvere i problemi
legali.
Quando l’Assemblea chiuse i lavori ci fu un colpo di scena: il leader dei social-
democratici, Domasevicius, occupò il palco e invitò i delegati a raggiungere le masse
nella lotta rivoluzionaria.
La sessione del 5 dicembre riguardò invece la delicata questione agraria: fu proposta
una nazionalizzazione della proprietà con successiva divisione della terra tra coloro
che realmente lavoravano. I leader politici compresero che questo tema avrebbe
toccato interessi e passioni differenti, toccando anche questioni materiali; quindi
l’Assemblea non sarebbe mai arrivata all’unanimità.
Nella sera del 5 dicembre le risoluzioni dell’Assemblea furono approvate
all’unanimità. Il governo zarista vene dichiarato “nemico inconciliabile” delle nazioni
e i lituani furono incoraggiati ad abbattere l’autocrazia zarista unendosi alle altre
nazioni che si stavano ribellando in tutto il territorio dell’impero.
Venne auspicata la fondazione di una Lituania autonoma, democratica e federata agli
stati vicini: per questi obbiettivi, furono autorizzati scioperi e forme di resistenza, ma
non venne autorizzata la rivolta armata.
Questo evento dimostrò grande unità nazionale, ma i risultati dell’Assemblea erano
viziati da una debolezza di fondo: nessun partito aveva voluto rischiare di dividere la
nazione in un momento tanto importante e tutti i leader avevano cercato la via del
compromesso.
I contadini tornarono a casa scontenti, delusi nelle loro aspettative concrete; ma
avevano comunque un senso di unità ed erano rafforzati nella lotta contro il governo
centrale.
Conseguenze
Anche se la rivolta venne soffocata in pochi mesi, gli eventi del dicembre 1905
disorientarono il governo provinciale: la maturità politica lituana impressionò il
governatore generale Frese, che il 6 dicembre 1905 annunciò il suo rodine di
garantire ai lituani l’insegnamento in madrelingua, di permettere al clero di insegnare
e di eleggere giurisdizioni cittadine. La politica lituana sortì quindi delle risposte che
portarono all’affermazione di alcune libertà, cosa differente che in altre provincie
dove le rivolte armate avevano dato il via a delle repressioni.
Durante l’Assemblea i delegati furono esposti ad una grande varietà di ideologie
politiche, mentre i leader avevano avuto a disposizione una platea vastissima per
esporre le loro idee; quindi queste possibilità diedero il via all’evoluzione politica di
un’intera nazione: i social-democratici condizionarono anche i più conservatori,
costringendoli ad adattarsi alle tattiche più innovative di proposta degli ideali alla
gente. Sia pure indirettamente, la svolta politica della rivoluzione in Lituania portò
alcuni benefici: il regime incoraggiò i piccoli proprietari terrieri di origine tedesca ad
emigrare in Lettonia ed Estonia come supporto allo status quo di quelle regioni e
questo permise la nascita di una classe rurale di contadini lituani.
Per quanto riguarda la Lettonia, va detto che la rivoluzione del 1905 fu un esempio di
lotta materiale e ideologica di stampo europeo e occidentale. Una delle maggiori
concause della rivoluzione era stata la straordinaria modernizzazione alla fine del
XIX secolo che poneva la Lettonia al secondo posto tra i paesi più industrializzati
dietro all’Inghilterra.
La struttura della società aveva un modello sociale complesso: accanto agli ufficiali
della pubblica amministrazione della Russia zarista, che promuoveva una
russificazione e che usava l’esercito per mantenere lo status quo, era presente un
vasto proletariato urbano, una borghesia nella città, un ceto di proprietari terriero di
estrazione conservatrice.
Il ceto dei proprietari terrieri sostenne comunque la controrivoluzione zarista
trovando un appoggio nell’alta borghesia della capitale: di trattava di una nuova élite
di finanziari e industriali che si erano elevati durante il processo di espansione
economica di riga e che ritenevano i loro successi legati alle vicende del governo
centrale.
La storiografia riconosce oggi che la rivoluzione del 1905 fu, per tutto il Baltico, una
tappa determinante in un percorso di crescita e di consapevolezza politica e
nazionalista che aveva preso le mosse già alla metà del secolo precedente e che
avrebbe poi condotto all’indipendenza dei tre paesi baltici dopo la caduta del regime
zarista nel 1917.
La Chiesa russa del 1905: il prologo di una tragedia
La prima rivoluzione russa incominciò a San Pietroburgo il 22 gennaio 1905 a opera
di un prete ortodosso, in parte “socialista cristiano” in parte provocatore e agente dell’
“Ochrana”: Georgij Aleksandrovic Gapon.
Fondò la “Società russa degli operai delle fabbriche e stabilimenti”. Quando nel 1905
lo stabilimento “Putilov” di San Pietroburgo licenziò numerosi operai, la “Società” di
Gapon proclamò uno sciopero. Il 22 dicembre organizzò una manifestazione di massa
di operai, che si recarono al Palazzo d’Inverno per presentare una petizione allo zar
Nicola II. La manifestazione fu repressa e il 28 marzo 1906 Gapon fu ucciso da un
socialista rivoluzionario.
Questa immagine è emblematica della situazione ecclesiastica nella Russia zarista
dagli inizi del XVIII secolo.
La Chiesa ortodossa infatti, dai tempi di Pietro il Grande viveva nella duplice
condizione di organismo privilegiato e nello stesso tempo di prigioniero dello stato. Il
primo patriarca fu Iov nominato nel 1859. Dopo che il 16 novembre 1701 morì il
patriarca Adrian, Pietro il Grande sospese l’elezione e diede in amministrazione la
Chiesa ad un suo fidato: Javorskij.
Successivamente Pietro I sottopose la Chiesa ortodossa ad una riforma strutturale di
tipo “anglicano”: abolì il patriarcato e nominò se stesso capo della Chiesa istituendo
un organo collegiale.
Da questo momento la vita della Chiesa praticamente si divise in due settori; da una
parte un movimento carismatico che aveva alcuni monasteri come punto di contatto
spesso sotto controllo di “monaci anziani”. Accanto a questa c’era una chiesa
ufficiale che esercitava il controllo sull’istituzione pubblica. Infine l’ortodossia,
all’interno della Chiesa e al di fuori di essa, fu un importante elemento nella disputa
tra slavofili ed occidentalisti.
La posizione della Chiesa Ortodossa si esprimeva anche in una serie di privilegi. Solo
questa aveva il diritto esclusivo di predicare liberamente fra la popolazione. Era
vietata e perfino punibile penalmente l’apostasia alla fede ortodossa.
Formalmente la legislazione russa riconosceva ai sudditi dell’imperatore il diritto di
professare anche altre religioni diverse dall’ortodossia. Ma lo status delle chiese non
era uguale per tutti. Le chiese cristiane infatti avevano più diritti delle confessioni
non cristiane.
Agli inizi del XX secolo sotto lo zar Nicola II, in un regime che si ispirava alla triade
di Uvarov (Autocrazia, ortodossia, nazionalismo), il malcontento popolare per la
situazione esistente era notevole. Di questa situazione erano consapevoli le menti più
illuminate dell’epoca, fra cui Tolstoj. Agli inizi del XX secolo inoltre, si cercò di
avvicinare l’intelligencija russa alla Chiesa ortodossa.
Anche nell’ambito delle conservative “riunioni filosofico-religiose” la politica dello
stato verso la religione andò incontro a critiche.
Konstantin Pobedonoscev, che occupò la carica di sovrintendente del Santo Sinodo
dal 1880 al 1905, era un uomo di vedute conservatrici che vedeva la situazione in una
luce completamente diversa. Nell’autunno del 1881 consegnò allo zar una “nota”
nella quale proponeva di nominare alle cariche amministrative solo persone di fede
ortodossa e di inasprire le pene per i sacerdoti cattolici che prendessero la difese di
quegli ortodossi che avevano accolto l’unione con Roma pur conservando i riti
bizantino-slavi: Lo zar approvò questi suggerimenti.
Tuttavia sia la Chiesa che lo Stato si rendevano conto che la situazione stava
avviandosi in un vicolo cieco e non mancarono iniziative di riforma. Lo zar Nicola II
cominciò ad occuparsi del problema della libertà religiosa nel 1902. Ma gli
avvenimenti del 1905, furono un chiaro avvenimento che le cose dovevano cambiare
nei rapporti tra Chiesa e Stato. Proprio nel gennaio 1905, su indicazione di Nicola II,
incominciò l’elaborazione di un nuovo decreto sui problemi della libertà religiosa In
questa impresa venne coinvolto anche il metropolita Ladoga Antonij.
Questi pubblicò nel 1905 sulla rivista “Slovo” una “nota” indirizzata allo zar e al
Comitato dei ministri in cui chiedeva la convocazione di un’assemblea speciale di
rappresentanti ella gerarchia ecclesiastica, senza nessuna partecipazione di esponenti
del governo. Questa assemblea avrebbe dovuto conferire alla Chiesa autonomia,
garanzie di libertà da ogni funzione politica o statale e di amministrare i suoi affari
interni.
Il progetto ebbe un riscontro positivo da Vitte, che sarebbe poi stato l’autore del
Manifesto di ottobre. Incoraggiato dalla benevolenza di Vitte e dall’appoggio di quasi
tutti i vescovi, il Santo Sinodo, sorpassando Pobedonoscev, sempre nel marzo 1905,
si riunì sotto la direzione di Antonij e chiese allo zar di autorizzare la convocazione
del Concilio, assemblea che non era più riunita da due secoli. Ma, consigliato da
Pobedonoscev, Nicola II rifiutò il suo consenso.
Nonostante ciò però alcune considerazioni(questionario compilato dai vescovi)
vennero fatte verso un cambiamento; Pobedonoscev cercò quindi di ritardare le
riforme chiedendo l’inizio di un lungo e complicato processo di consultazione
personale con i singoli vescovi.
Podebonoscev diede le dimissioni successivamente e lo zar nominò il principe
Obolenskij come suo sostituto. Questi era favorevole al Concilio e il 14 dicembre
1905 lo zar Nicola II acconsentì a ricevere tre metropoliti, tra cui Antonij, che
riuscirono a convincerlo ad autorizzare il Concilio.
Il 27 gennaio 1906 si riunì una commissione preconciliare per preparare la
convocazione del Concilio che, secondo l’opinione di molti vescovi, avrebbe dovuto
iniziare il giorno di Pasqua del 1906.
Il Concilio però non si realizzò e sarebbe stato convocato solo 12 anni dopo, durante
gli avvenimenti del 1917, riuscendo a restaurare il Patriarcato e a nominare nuovo
Patriarca di Mosca e di tutta la Russia il metropolita Tichon.
Questo ritardo fece si che la Chiesa di russa rimanesse spiritualmente debole, legata
al regime zarista ormai in disfacimento e incapace di affrontare con la necessaria
preparazione materiale la sfida alla rivoluzione comunista.
Il problema della Chiesa e della sua funzione nella società e nello Stato era ben
presente allo zar e alla classe dirigente, ancora prima del 1905. Tre anni prima, nel
1902, si erano gettate le basi del Manifesto, pubblicato poi nel 1903, che riconosceva
l’importanza della Chiesa, ma solo come fattore di “protezione” delle basi del regime
esistente.
Ma queste proposte “liberali” non furono accolte dallo zar. Nel testo definitivo del
manifesto, pubblicato il 26 febbraio 1903, non vi è neppure la promessa di creare
condizioni favorevoli all’ “estensione” della libertà di coscienza. Tutti si riduceva ad
osservare le leggi già esistenti.
La lotta nel governo e nella gerarchia ecclesiastica sul tema delle riforme rese
difficile la redazione del decreto sulla tolleranza religiosa, ma non potè bloccarla.
Il 17 aprile 1905 il decreto fu pubblicato sulla stampa. Per la prima volta veniva
considerato giuridicamente possibile e non punibile il passaggio dall’ortodossia ad
un'altra confessione cristiana.
Il decreto del 17 aprile introdusse nella vita della Russia nuovi elementi di libertà
religiosa, ma esso fu accolto in maniera differente dai diversi ambiti sociali. Molti
vescovi ortodossi lo considerarono un “attentato” ai diritti della Chiesa dominante e
una sua “umiliazione” di fronte alle altre confessioni.
Antonij espresse il timore che dopo il decreto molti avrebbero abbandonato la Chiesa
ortodossa e ricordava che le norme che vietavano il proselitismo a danno degli
ortodossi rimanevano in vigore.
Negli ambienti liberali questo decreto fu percepito solo come un primo passo, sia
pure non spontaneo e in ritardo, indispensabile per l’affermazione in Russia della
libertà di coscienza.
Nell’autunno del 1905 però, Nicola II, fu costretto a fare una nuova concessione
firmando, il 17 ottobre, un Manifesto in cui imponeva al governo il compito di “dare
alla popolazione le basi incrollabili della libertà civile sulle basi di un’effettiva
intangibilità della persona, della libertà di coscienza, di parola, di riunione e di
associazione”.
Nello stesso tempo, in gran segretezza, cominciarono i lavori per la redazione delle
Leggi fondamentali dell’Impero russo. In essa vi era un’importante innovazione: un
capitolo speciale dedicato ai “Diritti dei sudditi russi”, fra i quali c’era il diritto alla
libertà di coscienza e di confessione religiosa.
Il 27 aprile si inaugurarono i lavori della prima Duma di Stato, il primo vero
parlamento nella storia russa. Fra i suoi 499 membri v erano 18 rappresentanti della
Chiesa russa, 16 sacerdoti e due vescovi.
Insomma un nulla di fatto. Bisogna riassumere gli eventi successivi da un punto di
vista ecclesiale e non politico per capire come per la Chiesa ortodossa russa i fatti del
1905 siano stati un’occasione perduta trasformandosi invece nella prefazione di una
tragedia che si sarebbe consumata nel 1917. Come già ricordato, nel 1906, Nicola II,
accettò che si riunisse la Conferenza pre-conciliare. Il nuovo sovrintendente del Santo
Sinodo, principe Obolenskij, dirigeva i lavori. Egli confermò il suo atteggiamento di
apertura proponendo per il Concilio che divenisse il vero organo direttivo della
Chiesa, mentre il sovrintendente avrebbe dovuto svolgere semplicemente un ruolo da
osservatore.
Il Concilio avrebbe dovuto eleggere il Patriarca che avrebbe presieduto il Concilio e
in seguito il Santo Sinodo, il quale doveva rimanere il principale organo di
collegamento fra la Chiesa e il governo. In realtà il Concilio non fu mai convocato
(fino al 1917) e le riforme previste furono realizzate solo in parte.
Generale e particolare nel movimento contadino in Russia
negli anni 1917-1922 ed in quelli della Prima rivoluzione
Un fattore dei grandi sovvertimenti rivoluzionari della Russia all’inizio del XX
secolo, conclusosi con la formazione dell’URSS, fu il movimento contadino. I
contadini intervennero come soggetto attivo della rivoluzione, predeterminando in
grado significativo il suo esito finale. Per movimento contadino intendiamo le azioni
di massa dei contadini contro il potere (rivolte, disordini) e in secondo luogo, forme
di azioni quali la partecipazione alle elezioni, la formazioni di organi di autogoverno
locale, diverse richieste verso il potere.
L’analisi condotta testimonia sia continuità del movimento contadino in Russia nel
1917-1922 con quello degli anni della Prima rivoluzione russa, sia le differenze
esistenti tra di essi.
In che cosa si manifestò la continuità?
La continuità si manifestò nell’intensificazione nel 1917 del movimento contadino di
massa nella zona delle Terre nere della Russia europea e dell’Ucraina, zone che
vedevano la prevalenza della grande proprietà fondiaria signorile e privata.
Elementi fondamentali del malcontento contadino furono la scarsità di terra, gli alti
prezzi degli affitti per la terra, la pesantezza del fardello delle imposte.
In tal modo, il 1917 è collegato al 1905. Le radici sociali della guerra contadina
vanno cercate nella crisi economica, demografica e normativa della penetrazione
capitalistica nel mondo contadino e nell’inefficienza politica agraria dell’autocrazia,
che non riuscì a scongiurare lo scoppio rivoluzionario.
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Alessio Rota di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia dell'Europa orientale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Milano - Unimi o del prof Lami Giulia Maria Isabella.
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