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Shakespeare e gli elisabettiani fecero una scoperta simile: si avvalsero dell'interazione tra un linguaggio quotidiano e uno più elevato, tra prosa e poesia, per variare la distanza psicologica tra il pubblico e il tema trattato. L'importante non è la distanza in sé, ma il continuo spostamento tra i diversi piani.

Spostamenti che analoghi contrasti di forme e di stili producono nel teatro di Mozart, dove persino le variazioni del rapporto tra accento della parola, prosodia del verso e ritmo musicale generano effetti "cinematografici" di continui mutamenti d'inquadratura; mentre nel Don Giovanni l'enfatizzazione del punto di vista e il suo continuo spostamento assurgono, addirittura, a regola del taglio scenico e della costruzione drammatica. Dunque attraverso la lettura formale del testo quest'interpretazione shakespeariana del Don Giovanni finisce per ricondurre l'opera alle sue più autentiche radici storiche.

reciproca dissolvenza del tragico nel comico e viceversa eral'argomento fondamentale attorno a cui, nei primi anni dellarecezione mozartiana, ruotava il paragone con Shakespeare:
"Lo scavo profondo, audace, felice, nell'animo umano e la vivacerappresentazione degli affetti sono comuni ad entrambi. Pari sonol'inclinazione e il talento per il grottesco, nel tragico come nelcomico. Il rimprovero di una certa indifferenza verso le anticheregole dell'arte colpisce entrambi e riguarda in Shakespearel'unità poetica, in Mozart la scrittura forbita. Entrambi hanno unprofondo sentimento estetico, senza possedere un gustoperfettamente limpido, per mancanza di educazione scientifica. Diqui, in Shakespeare, la frequente violazione del decoro medianteanacronismi e scene raccapriccianti, in Mozart mediante ilfrequente contrasto del tragico col comico e bizzarre successionidi suoni. (Peraltro in questo il loro pubblico aveva le sue bravecolpe.) Eppure Shakespeare"

“Sopraffà ogni critica con situazioni che colpiscono, e Mozart con modulazioni che colpiscono, eccetera.” Nessuna frattura tra il reale e l'ideale; apparizione dell'illimitato in forme circoscritte. Sono proprio i capisaldi della poetica elisabettiana che ha da sempre orientato il teatro di Peter Brook e che, applicata al Don Giovanni, ne ha messo in evidenza le radici tecniche, estetiche e storiche. Il sonatismo classico che Mozart applicò al teatro con esiti dirompenti - il crollo, in pratica, di ogni modello di opera precedente - era basato su di una concezione del tempo musicale analoga a quella del tempo interiore che i contemporanei scoprivano in Shakespeare e che Kant ha spiegato nella sua gnoseologia. D'altro canto, il compositore conosceva l'Amleto, era un lettore appassionato di teatro, frequentava assiduamente i teatri di prosa dove spesso si davano i drammi di Shakespeare, e condivideva con Shakespeare l'ideale di una suprema naturalezza teatrale; inoltre,

viveva immerso in ambiente shakespeariano, amico di celebri attori, primo fra tutti Schikaneder, il librettista della Zauberflöte e famoso interprete di Macbeth. Lo stesso Da Ponte lavorò su Shakespeare. Dopo due secoli di oblio, ritorna attuale una prospettiva ermeneutica che può determinare conseguenze di notevole portata in una rilettura dell'intera drammaturgia di Mozart, liberandola dal filtro, oggi tutt'altro che disinnescato, delle interpretazioni romantiche. Guai a considerare il Don Giovanni nella prospettiva esclusivamente ludica del dramma giocoso; ma guai, anche, ad appesantirlo troppo, leggendolo nell'ottica romantica di un "dramma musicale" a sfondo realistico o mitologico o simbolista: il teatro di Mozart non è né un gioco, né un rito, né una rappresentazione della realtà, ma, come quello di Shakespeare, un discorso sulla vita che comprende illusione e straniamento, dramma e ludus, artigianato e arte.ma queste parole di Luigi Pirandello descrivono perfettamente l'essenza del teatro mozartiano. Mozart, con la sua musica, è in grado di esplorare e rappresentare una vasta gamma di emozioni e stati d'animo, senza limitarsi a una singola categoria o definizione. Le sue opere come "Le nozze di Figaro", "Don Giovanni" e "Il flauto magico" sfuggono a ogni tentativo di categorizzazione, poiché sono uniche e irripetibili. Il teatro mozartiano è fondato sulla naturalezza, ma allo stesso tempo è estraneo al naturalismo. Non ha bisogno di scenografie elaborate o di effetti speciali per trasmettere la sua potenza emotiva. Anche su una semplice pedana di un palco senza scene, la musica di Mozart riesce a trovare la cassa di risonanza necessaria per far vibrare l'infinita gamma dei suoi armonici. Mozart stesso è l'incarnazione della vitalità. La sua musica è esuberante e piena di vita, così come lo era lui stesso. Questa vitalità è il fattore unificante di tutta la sua produzione musicale. Mozart è in grado di esprimere la gioia, la tristezza, la leggerezza e la solennità attraverso le sue composizioni, creando un'esperienza unica per chi ascolta. In conclusione, il teatro mozartiano è unico e irripetibile. Le sue opere sfuggono a ogni definizione e categorizzazione, ma sono tutte mozartiane nella loro espressione di vitalità e nella loro capacità di emozionare e coinvolgere il pubblico.

queste dichiarazioni: su di esse è basato il processo d'individualizzazione che caratterizza l'allestimento del Don Giovanni, dove ogni personaggio è inimitabilmente lui, ogni gesto dettato dalla situazione specifica, ogni movimento "ritmato" su quel testo e quella musica, e in cui ogni pezzo appare irriducibile a qualsiasi modello perché trova esclusivamente in sé stesso la norma della propria struttura. Una posizione critica del tutto antitetica a quell'azzardata tendenza musicologica che mira a ridurre i personaggi mozartiani entro le categorie goldoniane delle parti serie, parti comiche e mezzi caratteri e a costringere le arie entro i modelli formali dell'opera settecentesca, col risultato di accomunare astrattamente, sulla base di elementi esteriori, pezzi in realtà antitetici.

"Non ho mai creduto in un'unica verità, né in quella mia né in quella degli altri: sono convinto che tutte le scuole,

tutte le teorie possono essere utili in un dato luogo e in una data epoca: ma ho scoperto che è possibile vivere soltanto se si ha un'ardente e assoluta identificazione con un punto di vista... Se vogliamo, infatti, che un punto di vista sia di qualche aiuto, bisogna dedicarvisi con tutte le nostre forze, difenderlo sino alla morte. Nello stesso tempo però una voce interiore sussurra: "Non prenderti troppo sul serio. Tienti forte e lasciati andare con dolcezza." "Di vedere e non vedere": lo spettatore all'opera di Paolo Fabbri Perché trovo indispensabile che oggi si restituisca in palcoscenico un testo letterario-musicale storicamente e filologicamente accertato di un melodramma del passato, e non ho invece la medesima esigenza sul piano visivo? Perché, nella riproduzione domestica di un'opera, preferisco ascoltare alla cieca un CD, immaginandone la dimensione scenica, piuttosto che vederne

un'esplicita realizzazione in DVD? Una risposta che mi convince è che, pur essendo un'arte la quale si esplica nel tempo, la musica ha sistemi di scrittura che consentono di fissarne con buona approssimazione schemi e flussi sulla pagina. Tutto il resto dell'impasto teatrale ci è giunto invece per schegge e frammenti: indicazioni - esplicite o no - contenute nel libretto e nella partitura, didascalie, scenografie abbozzate o magari compiute ma comunque bidimensionali, figurini, progetti di mise en scène, appunti di regia, allusioni o descrizioni in qualche recensione coeva. Neppure in presenza di tutte queste prime testimonianze potremmo pensare di ricostruire il testo-spettacolo con la medesima fluidità e relativa compiutezza che la partitura consente. Nella fruizione personale, il suo implicito porsi come testo compiuto al pari di quello musicale finisce per sembrarmi una forzatura cui rilutto. È appunto questo limite originario e sostanziale.

che però dà al riallestimento di un'opera del passato la libertà di proporsi come rilettura e strumento di mediazione per lo spettatore odierno. Ma da ciò non discende - a mio giudizio - che il patrimonio operistico storico possa considerarsi un campo d'Agramante per le scorribande di registi e scenografi, magari aizzati da direttori artistici giulivamente tesi a far parlare di sé. Proprio per questo mi chiedo: è possibile individuare punti fermi essenziali sia per gli storici della musica operistica, sia per gli spettatori, i registi e gli organizzatori teatrali? Siamo in grado di mettere a fuoco nuclei d'intangibilità su cui piantare un cartello ammonitorio: ne varietur? Come per il direttore d'orchestra, anche per scenografi e registi a norma del lavoro teatrale stiano partitura e libretto: per coglierne magari non la lettera, ma la sostanza sì. Senza dimenticare, comunque, che la sostanza non può mai contraddire la lettera.da studiare e assimilare preliminarmente con attenzione e cognizione storica. Importante è il rispetto del genere: se serio, comico o semiserio; se misto perché antecedente a distinzioni di tal fatta o per volontà di loro rimescolamento. La rilettura distanziata "ironica" di un testo, e il suo proporlo su piani del tutto estranei alla volontà degli autori, finiscono per risultare stucchevolmente banalizzanti proprio perché non restituiscono modelli e implicazioni storico-culturali. Neutralizzare e rovesciare il senso voluto dall'autore non mi sembra segno di buon servizio nei suoi confronti: mi si invita a ridere a dispetto della situazione, si sparge polvere esilarante a un funerale. Perché? Solo perché il regista vuole a tutti i costi dimostrare di avere un'idea? Ma il primo regista di un'opera è il compositore stesso, che legge e interpreta un testo drammatico imprimendogli una dimensione pienamente teatrale: quindi,

La Corte di Cassazione di ogni idea registica dovrebbe essere la pagina musicale, con quella librettistica che essa ingloba e che la accompagna. A tutto ciò si lega anche la questione dei rapporti tra i personaggi, e la necessità di non eclissarne i livelli sociali e le reciproche relazioni. L'unica famigliarità che Figaro, Leporello o Rigoletto possono intrattenere coi rispettivi padroni è appunto quella di comportarsi da loro "famigli": servire rispettosi, consapevoli della loro irrimediabile subalternità e di dover tenere le distanze perché appartenenti a mondi abissalmente distanti. Anzi, molti meccanismi drammatici proprio in questo dislivello trovano la loro ragion d'essere. I personaggi aristocratici potranno anche indossare temporaneamente gli abiti dei subalterni, e degnarsi

Dettagli
A.A. 2022-2023
161 pagine
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SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/05 Discipline dello spettacolo

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher aurora.ferraro.af di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia mediale del teatro musicale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Roma La Sapienza o del prof Senici Emanuele.