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CAPITOLO 3: LA CORPORATION E I SUOI LATI OSCURI
1. Le esternalità negative
Le corporation producono una serie di esternalità negative. La prima esternalità è la tendenza alla monopolizzazione, che
viene sottovalutata perché si creano non dei veri e propri monopoli, ma duopoli o oligopoli di poche imprese che spesso
fanno degli accordi taciti. La prima legislazione antitrust al mondo è stata varata nel 1890 negli Stati Uniti, anche se non
ha mai impedito gli oligopoli. Anche in Europa la concentrazione delle imprese è aumentata, ma molto meno, perché
sopravvivono molte PMI. Possiamo ricordare che il monopolio va vietato perché porta ad un aumento dei prezzi, che
comporta un aumento dei profitti; i consumatori non avendo altra scelta vengono sfruttati. Le barriere all’entrata fanno
abbassare l’imprenditorialità. Nell’era della digitalizzazione la concentrazione produce quantità elevate di dati che
riguardano informazioni di miliardi di persone che si servono degli strumenti digitali: le corporation sono pronte a
vendere questi dati al migliore offerente senza il rispetto della privacy. Una seconda esternalità negativa della corporation
è il suo allontanamento dalla democrazia. Alcune grandi imprese si servono di avvocati, giuristi ed effettuano donazioni
per influenzare le decisioni della politica a loro favore, tenendo la democrazia nel sacco. Un altro esempio riguarda la
Cina, stato non democratico in cui si è avviata l’economia di mercato. Passiamo ora alle esternalità tecniche e pecuniarie.
Le esternalità tecniche sono le più note e coinvolgono tutte le imprese che producono danni materiali, come
l’inquinamento, questi costi che derivano dalle esternalità, non vengono contabilizzati nei bilanci, e ciò determina un
prezzo più basso dei prodotti delle imprese che inquinano; queste esternalità si ripercuotono sulla società: i cittadini si
ammalano, lo stato deve curarli. Le esternalità pecuniarie sono conseguenze negative causate dall’attività d’impresa: un
operaio che perde il posto di lavoro a causa di delocalizzazioni, la perdita di risparmi nel caso del fallimento di
un’impresa. Per quanto riguarda la globalizzazione, per la corporation si è rivelata essere molto importante per il suo
sviluppo, perché le ha offerto nuovi mercati in cui operare, la possibilità di pagare meno i lavoratori nei paesi in via di
sviluppo e di abbassare le tasse nei paradisi fiscali. Ma i mercati globali non sono regolati in maniera adeguata: non esiste
un’autorità antitrust a livello internazionale. Per questo motivo i mercati globali sono instabili, e la finanziarizzazione ha
peggiorato la situazione: tanti studiosi sostengono che più finanza ha fatto male alla crescita invece di renderla più facile:
si pensi alla crisi finanziaria del Giappone negli anni novanta e dell’Argentina nel 2002, fino alla grande crisi del 2007.
Altre due conseguenze negative delle corporation sono la distruzione di comunità, nel senso che le imprese sono diventate
come tende pronte a spostarsi in maniera repentina lasciando le comunità di origine desolate, e l’aumento delle
diseguaglianze, soprattutto in India, Russia e Stati Uniti, mentre l’Europa e il Giappone sembrano contenere meglio
questo fenomeno. Un’altra esternalità negativa riguarda la predominanza dei beni privati su quelli pubblici, di merito e
relazionali. La corporation per sua natura ha una forte propensione per la produzione di beni privati, che si scambiano sul
mercato in base al potere d’acquisto. Ma una società ben organizzata ha bisogno anche di beni pubblici (beni non
escludibili), beni di merito (istruzione, sanità), e di beni relazionali.
2. Tornare alle origini
Le esternalità negative della corporation possono essere limitate se si supera da un lato la teoria dello shareholder value e
dall’altro la separazione tra etica ed economia. La corporation è una forma d’impresa diversa da quella privata in quanto
ha una personalità giuridica propria che non coincide con quella degli azionisti. Come scrive Zamagni l’impresa non è
tenuta a massimizzare il profitto, perché non è posseduta dall’azionista, il quale è proprietario solo di un pacchetto
azionario ed è controllata dal consiglio di amministrazione. I manager dunque non sono agenti degli azionisti, ma della
corporation. Il principale obiettivo della corporation non sono gli azionisti e nemmeno gli stakeholders, ma produrre e
distribuire beni servendo la comunità. Un’altra questione ormai superata è la separazione tra etica ed economia:
un’impresa deve anche considerare tematiche etiche che riguardano la giustizia, la responsabilità e la democrazia. La
teoria del valore condiviso dà importanza anche agli obiettivi e alle modalità di produzione del valore. Questo concetto è
spiegato meglio dalla responsabilità civile dell’impresa proposta da Zamagni. Questa responsabilità pone le imprese in
relazione con Stato e società civile per risolvere i problemi del mondo. A partire dal 2010 negli Stati Uniti sono nate le
benefit corporation, le B-Corp, ossia delle corporation che prevedono nello statuto di voler perseguire obiettivi sociali e
ambientali. Non è più lo stato a controllare il raggiungimento delle finalità pubbliche da parte delle B-corp, ma gli stessi
manager. Nel 2019 circa 180 CEO americani, tra cui i Ceo di Amazon, Apple, Coca-cola, hanno firmato una
dichiarazione, in base alla quale si impegnano a realizzare questa teoria del valore condiviso.
3. Quando lo Stato diventa imprenditore
Cerchiamo di capire se la gestione pubblica delle corporation rappresenta un’alternativa efficace alla sua gestione privata.
Esistono casi in cui non è efficiente avere più di un’impresa in funzione dato lo stato delle tecnologie: si tratta dei
cosiddetti monopoli naturali, che esistono in quei settori dove i costi fissi sono talmente alti da fare in modo che solo
un’impresa possa operare. Per evitare le conseguenze negative del monopolio, gli stati possono intervenire fissando i
prezzi oppure gestendo il monopolio, approccio più usato in Europa, oppure lasciando l’impianto fisso in mano pubblica e
gli altri servizi vengono dati in gestione a privati. Si pensi al settore delle ferrovie e dei servizi pubblici. Anche alcune
categorie di imprese dette strategiche nascono imprese pubbliche: si pensi ad Agip creata da Mussolini nel 1926 poi
diventata Eni. Inoltre le imprese pubbliche nascono a causa dei fallimenti di mercato. Quando imprese private di grandi
dimensioni falliscono, come le banche, i governi intervengono per limitare la crisi del sistema economico. Un caso
interessante è stato il caso italiano della creazione di una banca d’investimento pubblica, IMI, e di una grande holding
industriale, IRI, per reagire alla grande crisi del 1929. Nel secondo dopoguerra le imprese pubbliche si diffusero anche in
Europa: alcune imprese in mano ai nazisti vennero nazionalizzate (si pensi a Volkswagen in Germania). L’Italia che già
aveva ereditato IRI e IMI dal fascismo, creò altre banche di investimento pubblico, fra cui Mediobanca, trasformò Agip in
Eni, e con la creazione di Enel nazionalizzò l’energia elettrica. Negli anni novanta si è avviato il processo di
privatizzazione delle imprese pubbliche. I proventi che derivarono da questo processo servirono agli stati per abbassare i
loro debiti pubblici, anche se nel caso italiano fu un effetto temporaneo. Due casi rilevanti riguardano l’Unione Sovietica
e la Cina. Per quanto riguarda l’Unione Sovietica tutte le imprese furono amministrate dallo stato per eliminare il
mercato. Il partito comunista russo, dopo la morte di Lenin, che invece aveva introdotto un’economia mista, con Stalin
decise di eliminare il mercato, e si passò alla pianificazione integrale dell’economia grazie all’aiuto di matematici ed
ingegneri, che fissavano le quantità di risorse necessarie per raggiungere gli obiettivi fissati dal governo. Questo
approccio eliminava il ruolo dei prezzi, anche essi fissati dallo stato. Tuttavia ci furono vari problemi: i bisogni della
gente che venivano pianificati dall’alto non corrispondevano a quelli reali, le risorse non bastavano e i dirigenti
rischiavano di non raggiungere gli obiettivi fissati, con sanzioni fino all’internamento nei gulag; il sistema era chiuso e la
pianificazione limitava le innovazioni. Oggi in Russia gli oligarchi hanno preso le redini delle imprese più redditizie,
lasciando poco spazio ai nuovi entranti. Per quanto riguarda il caso Cinese, nel 1912 venne proclamata la repubblica ma
intorno agli anni venti fu fondato il partito comunista cinese che, nel 1949 sotto la guida di Mao Tse-tung, vinse la guerra
civile. L’agricoltura venne collettivizzata, e ciò provocò diverse carestie in Cina. Nemmeno la pianificazione industriale
andò bene, poiché la Cina non aveva né i matematici e né gli ingegneri dell’Unione Sovietica. Intorno al 1970 ci fu una
rivoluzione culturale, che provocò la chiusura delle università e il ritorno all’agricoltura: in questo modo Mao fece
arretrare la Cina ancora di più. La svolta si ebbe nel 1978, con il piccolo timoniere Deng Xiaoping, che diede avvio a
delle riforme improntate al modello di mercato occidentale. Da allora la Cina è cresciuta a tassi di crescita spettacolari. I
cinesi hanno fatto leva sulle imprese familiari e sulla formazione di cooperative nel campo agricolo. Si tratta di
un’economia socialista di mercato, e non si era mai vista un’economia di mercato prosperare sotto una dittatura politica.
CAPITOLO 4: IMPRESE FAMILIARI E SISTEMI TERRITORIALI
1. Le imprese familiari di grandi dimensioni
Nell’impresa familiare il controllo proprietario è nelle mani della famiglia, così come la gestione strategica, che consiste
nel definire gli obiettivi del medio e lungo periodo. Le imprese familiari possono essere di grandi, medie e piccole
dimensioni. Le grandi imprese familiari spesso utilizzano la forma gestionale della corporation, prevedendo una
separazione tra proprietà, della famiglia, e gestione, affidata a manager esterni. Alcuni sostengono che le grandi imprese a
controllo familiare hanno performance peggiori, tuttavia non risulta che paesi come Svezia, Belgio, Norvegia e Austria,
dove molte delle più grandi imprese sono a controllo familiare, siano dei paesi sottosviluppati. In realtà la performance
dei grandi gruppi familiari dipende dal contesto sociale e politico di ciascun paese. Esistono diversi motivi positivi o
negativi che hanno portato allo sviluppo delle imprese familiari: in molti casi asiatici la mentalità del clan familiare
prevaleva su quella individualistica, nel caso del Messico il motivo era la bassa fiducia nelle istituzio