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1. DOTTRINA TRASCENDENTALE DEGLI ELEMENTI:
a. ESTETICA TRASCENDENTALE = è la parte che si occupa di come avvenga
la ripresa del dato sensibile. Ad essa appartengono due intuizioni pure a
priori quali lo spazio ed il tempo. Spazio e tempo non derivano
dall’esperienza, perché sennò andrebbero presupposti, ma esistono solo nel
momento in cui l’uomo fa esperienza; sono delle condizioni che l’uomo
impone alla presa del dato sensibile cosicché l’esperienza sia recepibile. Lo
spazio deriva dalla capacità del senso esterno di creare continuità tra gli
elementi, e il tempo dalle successioni di queste. Le due semplificazioni
massime di spazio e tempo sono rispettivamente la geometria e l’aritmetica.
b. LOGICA TRASCENDENTALE = una volta recepito il dato sensibile, questo
deve essere oggetto di una lettura, e l’intelletto è la facoltà che legge il dato.
ANALITICA TRASCENDENTALE = la lettura del dato sensibile
avviene tramite le dodici categorie, le categorie aristoteliche suddivise
in quattro grandi settori secondo qualità, quantità, modalità e
relazione; queste servono per dare un nome al dato sensibile.
DEDUZIONE TRASCENDENTALE = il modo attraverso cui
Kant giustifica come avvenga questo atto conoscitivo e perché
sia simile a tutti, ovvero di la conoscenza si attua nell’intelletto
nel momento in cui le categorie interpretano il dato sensibile.
IO PENSO = l’intelletto deve compiere questa azione in
qualche luogo ed avvenire alla stessa maniera; qui entra in
gioco l’IO penso, che è un centro mentale unificatore, quella
funzione che permette di unificare i dati provenienti dall’esterno
attraverso le dodici categorie. È quella unità trascendentale che
agisce similmente in tutti gli uomini.
IMMAGINAZIONE PRODUTTIVA = Kant parla della facoltà
dell’immaginazione come la capacità di produrre degli schemi,
attraverso i quali l’intelletto condiziona la sensibilità nella presa
del dato sensibile. Gli schemi sono delle prefigurazioni intuitive
attraverso cui l’uomo coglie il dato sensibile. È un mediatore tra
l’intelletto e la sensibilità.
FENOMENO E NOUMENO = nel momento in cui ci troviamo di
fronte alla realtà, cogliamo questa secondo due fattori: il
fenomeno è la realtà come appare ai nostri sensi, il noumeno è
la cosa in sé, impossibile da conoscere. La conoscenza
dell’uomo è fenomenica, quindi limitata alle nostre capacità
conoscitive.
DIALETTICA TRASCENDENTALE = approfondisce la ragione, che è il
terzo momento della mente umana e che non si accontenta del
mondo fenomenico; questa vuole ottenere la massima unità sintetica,
cioè vuole delle spiegazioni definitive dell’esistenza. La ragione è
l’origine della metafisica, degli errori dell’uomo. L’errore della
metafisica è quello di voler oltrepassare il mondo fenomenico. I
concetti della metafisica ispirati dalla ragione possono essere
suddivisi nelle tre idee trascendentali, che non sono pensabili né
conoscibili:
ANIMA = il concetto di anima non è dimostrabile, in quanto l’IO
penso non è una sostanzialità ma una funzione.
MONDO = le antinomie sono dei discorsi doppi nei quali viene
proposta una tesi con la corrispettiva antitesi e delle quali
l’uomo non può decretare la veridicità. L’idea di mondo, quindi,
è un’idea solo pensabile e non conoscibile.
DIO = l’idea di Dio è stata semplificata, sin dall’inizio della
filosofia, a tre principali prove quali quella ontologica, quella
cosmologica e quella teologica.
Il loro limite è che sono frutto dell’errore dell’uomo e non
dell’esperienza. L’uomo, consapevole che non può decretare
l’esistenza di queste idee, può vivere come se esistessero.
2. DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO = è la parte applicativa in cui Kant
porta degli esempi e approfondisce l’attuazione di quello che è stato detto nella
dottrina trascendentale degli elementi. Qui riemerge una facoltà rappresentata
quale l’immaginazione produttiva, che già era comparsa nell’analitica
trascendentale.
Nella ‘‘Critica della ragion pratica’’ si tratta della ragione nell’uso etico, ovvero quando si
utilizza la ragione per produrre un’azione. Se noi utilizzassimo sempre la ragion pura,
saremmo sempre nell’azione corretta, mentre, sviluppando una ragion pratica, questa sarà
condizionata da altro. La questione principale che viene trattata è che per tutti,
universalmente, alcuni assunti morali sono giusti e vincolanti; questi assunti sono
universalmente riconosciuti perché sono espressione di una legge morale che accomuna
tutti gli uomini. Questa legge morale si impone nell’uomo e non è semplicemente prodotta
da questo. Kant, partendo da questo rilievo, si domanda da dove giunga e nota una
scissione tra il comando della legge morale e la difficoltà dell’uomo di adeguarsi ad essa –
l’uomo, talvolta, pur sapendo ciò che è giusto, non riesce a mettere a punto quanto
conosce. L’uomo vive su due sponde: da una parte è un ente che riconosce questa legge
morale che manifesta un piano intellegibile, e dall’altra è abitante del mondo sensibile;
l’uomo è scisso tra ragione e sensibilità. La moralità risulta essere una lotta continua tra il
richiamo della legge e gli impulsi egoistici – la moralità kantiana è deontologica, per cui la
legge morale è un richiamo al dovere, non descrittiva e autonoma. La moralità non
dipende dal sentimento, dalle proprie abitudini, dal fanatismo religioso, o da regole date
dall’esterno. L’uomo deve vivere l’autonomia della propria moralità e non sposare regole
provenienti dall’esterno. Quando noi agiamo, la formulazione delle nostre azioni viene
chiamata ‘‘massima’’, ed è una regola soggettiva personale attraverso cui noi decidiamo
quale azione compiere; si tratta di una manifestazione di un precetto soggettivo che noi
autonomamente scegliamo. Però, la moralità va oltre le regole della condotta soggettiva,
quindi, per essere tale per l’uomo deve avere una forma ben precisa, che è quella
dell’imperativo, un comando che può essere di due tipologie: ipotetico, un comando che
noi stessi ci diamo affinché ci sia un secondo fine, e categorico, una norma che ci diamo e
che deve essere perseguita essenzialmente per la rettitudine universale. La massima non
basta, ma occorre l’imperativo, proprio per la scissione presente nell’uomo, il quale è
continuamente sottoposto alla sua esigenza di appagamento e a cui non basta la
massima, perché si concentra sulla pura soggettività, ma ha bisogno dell’imperativo,
poiché va oltre. L’imperativo categorico, però, si presenta come una semplice formula
poiché è responsabilità dell’uomo scegliere in autonomia il contenuto dell’imperativo
categorico in relazione alla legge morale che agisce su di lui. La formula dell’imperativo
categorica afferma: ‘‘agisci in maniera tale che la massima della tua volontà possa essere
principio di una legislazione universale’’ – significa che, quando produco una massima
della mia azione, devo pensare che il principio prodotto da essa possa essere uguale per
tutti, quindi universalizzato. L’uomo, quando formula un assunto morale, deve porsi in
maniera antiegoistica, quindi uscendo dalla concezione dell’amor proprio. Spesso, i buoni
sentimenti sono un limite per la morale, perché se compio un’azione seguendo i miei
sentimenti, non mi trovo dentro la morale ma dentro l’attitudine; la moralità non dipende
dall’azione che produco, ma dall’intenzione. L’unico sentimento ammesso da Kant è quello
di rispetto per la legge morale: critica il concetto d’amore e ritiene che sia importante il
rispetto pratico – non si può comandare l’amore, ma il rispetto per la legge sì. C’è una
differenza, dunque, tra la legalità e la moralità: la legalità è la pura aderenza esteriore,
mentre la moralità è l’intenzionalità. Vi è una soggettività trascendentale che determina la
moralità. Per quanto riguarda la dialettica, di parla di ‘‘antinomia della ragion pratica’’,
ovvero una questione di difficile soluzione. L’uomo vive un percorso di perfezionamento
verso la legge morale chiamato virtù, e dall’altra parte ricerca la propria felicità in una
situazione di compiutezza in cui non si ha più nulla da desiderare. L’antinomia della ragion
pratica consiste proprio nel trovare una condizione in cui la virtù e la felicità sono
contemporaneamente presenti; nessuno però è in grado di raggiungere un tale livello di
perfezione morale facendo poi coesistere virtù e felicità, poiché una escluderebbe l’altra –
questa antinomia fa dunque svanire l’impianto morale kantiano, poiché non raggiungerà
mai questa condizione di compiutezza. Non si tratta però di un’illusione, perché la legge
morale è talmente presente nella vita degli uomini che non può essere in alcun modo
definita tale. I postulati sono degli assunti che vengono ritenuti veri pur non essendo
dimostrati; vi sono in particolare tre postulati che devono necessariamente essere
considerati veri pur rimanendo indimostrabili, poiché sono la condizione della realizzabilità
della moralità e di ciò che l’uomo vive:
1. LA LIBERTÀ = rappresenta la chiave di volta dell’intero sistema della ragion pura.
La libertà consiste nel poter aderire al mondo intellegibile, di non essere solamente
un brutale essere sensibile ma di essere a pieno titolo un ente morale. È la
possibilità di uscire dalla propria essenza e raggiungere quella intellegibile. La
libertà è la possibilità dall’indipendenza delle inclinazioni: l’uomo è emancipato dal
carico del proprio egoismo che sennò lo renderebbe determinato dalle inclinazioni
che non lo farebbero raggiungere la moralità.
2. L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA = l’uomo deve presupporre che è impossibile che
tutti siano predisposti ad un percorso di perfezionamento che poi non sia in grado di
portare a termine. Il percorso verso la beatitudine, attraverso l’immortalit&a