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Bulgaria) e, come tutti i barbari, era un personaggio da tenere a distanza; proprio per
questo risultava essere misterioso ed interessante. Di lui si inizia a parlare attorno al
VI secolo a.C., come di un personaggio a metà tra lo storico e il mitico. Egli, oltre ad
essere un poeta e un cantore, era anche un incantatore poiché con il suo canto
riusciva a persuadere chiunque e qualunque cosa. Era legato al mondo degli inferi.
Egli veniva visto come il detentore di un sapere misterico, poiché aveva rapporto con
il mondo dei morti ed era riuscito anche a trascinarne uno per ricondurlo alla vita.
L’orfismo è la prima dottrina in occidente che sostiene una antropologia dualistica,
ovvero che l’uomo è un composto di anima e corpo che però non sono fatti della
stessa natura e non sono destinati allo stesso fine. Ad esempio, nei poemi di Omero,
le anime sono dei fantasmi che hanno un ricordo lontanissimo del mondo nella Terra,
poiché, per Omero, l’uomo vero non è colui che sopravvive nell’aldilà, bensì l’eroe
valoroso che combatte e agisce: il vivo, non il morto. Ciò che resta dunque dell’uomo
quando muore, nell’Ade (negli inferi), non ha più niente dell’uomo vero. Gli Orfi,
invece, sostengono esattamente l’opposto, ovvero che l’uomo vero non sia il
contenitore, quindi il corpo, ma la sua anima, che è immaginata come uno spirito
che per una colpa non precisata è stata incarcerata in un corpo dal quale cerca di
uscirne attraverso reincarnazioni e rituali, e comportamenti ascetici che la aiutino a
liberarsi dai legami corporei (es. smettendo di mangiare carne). Il concetto di
dualismo antropologico lo introduce dunque l’orfismo e non il cristianesimo, e
prevede che l’anima e il corpo vivano in contrapposizione e dove la prima deve
svincolarsi da quest’ultimo; si tratta di una lunga serie di pratiche che tentano di
liberare l’anima dalla sua dipendenza dal corpo - niente carne, niente cibi che
rimandino al corpo, purificazioni, preghiere, contatto col mondo spirituale, pratiche
ascetiche. Lo scopo è quello di liberare l’uomo dalla sua condizione mortale: l’uomo
vero non è il corpo ma la sua parte nascosta.
- I presocratici
I presocratici, o naturalisti, vengono chiamati da Platone e Aristotele ‘‘fisiologi’’,
‘‘fisici’’, o ‘‘teologi’’, tre termini che ad oggi non hanno più lo stesso significato.
Vengono chiamati ‘‘teologi’’ perché ricercano il divino, che per loro sussiste nelle
cause prime. Il ‘‘fisico’’ o ‘‘fisiologo’’ si occupa della ricerca della physis, che in latino
significa ‘‘natura’’, ovvero il punto di partenza della realtà; ecco perché Aristotele,
quando fa un discorso sulle cause nomina per primo Talete, e poi Esiodo. I
presocratici si sono occupati dell’uomo, anche se si conosce di questi abbastanza
poco. Di loro ci sono pervenuti frammenti delle loro opere e testimonianze da parte
di due autori molto importanti quali Platone e Aristotele.
Talete è stato un grande filosofo, matematico e geometra vissuto tra il VII e il VI
secolo. Talete, per Aristotele, è un personaggio avvolto nelle nebbie. La differenza
tra l’atteggiamento di Talete e di Omero consiste nel fatto che Talete pensava che
l’origine di tutte le cose, l’archè, fosse l’acqua, con la differenza che, mentre i poeti
come Omero raccontavano senza dare prove, Talete ragionava sugli eventi che
voleva spiegare, desumeva delle cose da ciò che osservava, ragionava su ciò che
vedeva e su ciò che era desumibile. Talete pensava dunque che il principio fosse
l’acqua, questione che gli è stata suggerita probabilmente dall’osservazione che
tutto si alimenti di acqua, anche il caldo, che sopravvive anch’esso grazie a lei -
l’acqua è fonte di vita. Talete è stato il primo a porsi criticamente il problema
dell’origine di tutte le cose.
Aristotele afferma che la Filosofia sia un sapere che non ha scopi pratici, quindi che
non serve a nulla di importante. Lo dice nel primo libro della ‘‘Metafisica’’ : la Filosofia
nasce una volta che sono stati risolti i problemi del quotidiano (es. avere una casa,
un telefono, un televisore) e i problemi superflui (es. avere il telefono di ultima
generazione); questo significa che, finché non si sono risolti questi problemi, non si
può fare Filosofia, e poi che anche dopo aver risolto questi problemi, c’è sempre un
qualcosa che manca. Non si può fare a meno di interrogarci del senso dell'esistere,
poiché ci sarà sempre un qualcosa che manca. Questo sta a significare che le
condizioni di prosperità sono condizione necessaria ma non sufficiente. Certamente,
il mondo greco era un mondo dove si viveva bene e c’era prosperità, ma la Filosofia
rispondeva a dei bisogni diversi, e non nasceva dall’interesse.
La Scuola di Mileto, della quale facevano parte Talete e i suoi due allievi
Anassimandro e Anassimene, è testimonianza di una ricerca libera da scopi pratici.
Anassimandro è il primo Filosofo che pare abbia usato la parola archè, che per lui è
identificata nell’apeiron – ‘‘senza limiti’’, ‘‘illimitato’’, ‘‘indeterminato’’, ‘‘infinito’’.
Questo principio, per Anassimandro non si identifica in un principio fisico (acqua aria,
fuoco), bensì con un qualcosa che non ha limiti né qualità. Secondo lui, tutto nasce e
tutto ritorna a questo principio – ciclicità e periodicità nel divenire delle cose.
Anassimandro sosteneva che le cose che sono pagano le une rispetto alle altre il fio
della loro ingiustizia secondo l’ordine del tempo – il nascere di un qualcosa toglie
l’esistenza ad un qualcuno che già c’è; la generazione è implicante il morire di
qualcun altro. Ciascuna realtà, quando inizia ad esistere, toglie spazio ad una realtà
che già esiste.
Anassimene mette come primo principio l’aria, esattamente per gli stessi motivi per
cui Talete poneva come primo principio l’acqua. L’aria non è intesa solamente come
respiro, ma nel senso che la stessa anima dell’uomo era identificata come un soffio
vitale – animus deriva dal greco anemos che vuol dire ‘‘vento’’. L’aria si rarefà e si
condensa permettendo così il divenire.
Quasi nello stesso periodo, sulla costa occidentale della Magna Grecia, nascono i
Pitagorici, un gruppo di Filosofi che lavorano in comune ma che si confondono tra
loro poiché senza nome (sono conosciuti da tutti come i ‘‘Pitagorici’’). Vengono
riconosciuti tutti nel loro insieme e non nella loro individualità. I Pitagorici non erano
semplicemente una scuola filosofica ma anche un partito politico e una setta, tanto è
vero che, ad un certo punto, prendono potere politico a Crotone, dove risiedeva
Pitagora, facendo così scaturire contro di loro una rivolta. Pitagora è così costretto a
scappare e si rifugia a Metaponto, in Basilicata, dove fa nascere una nuova scuola
pitagorica. Oltre a lavorare in comune e ad avere un carattere settario, per il quale
l’insegnamento era trasmesso in maniera segreta, sono stati i primi ad avvicinarsi
alle scienze matematiche facendole progredire. L’elemento unificante di questa
scuola erano le ricerche sul numero, che diventa, per quanto paradossale, l’archè. Il
numero è il principio dei Pitagorici, che per loro si identificava in una figura
geometrica (es. il 3 era rappresentato con un triangolo). Quando i Pitagorici
pensavano al numero come principio di tutte le cose, non intendevano che ogni
singolo numero potesse generare ogni cosa, ma piuttosto che questi fossero la
struttura nascosta delle cose. Studiando la natura, i Pitagorici, e praticando la
matematica, si sono resi conto che, nella natura, i fenomeni come le stagioni, i ritmi
biologici, i tempi di incubazione del feto e la struttura armonica della musica, si
basano sui numeri, quindi su un qualcosa di ordinato e misurabile. Quando Aristotele
parlava di causa, non la intendeva solamente come un qualcosa che determina un
certo avvenimento, bensì come un principio di integrazione, ovvero ciò che ci aiuta a
capire la natura di una cosa (es. conoscere la natura di un tavolo, quindi di cosa sia
fatto, ci aiuta a capire se questo può essere trasportato con facilità o meno). È
necessario conoscere anche la struttura, il principio interno, la formula, oltre che il
fine. Quando Aristotele afferma che il numero sia una causa formale, sottintende che
questo sia la struttura interna della realtà. Se i Pitagorici erano così bravi osservatori
della realtà da capire che questa si comportasse con regolarità (secondo un ordine),
a tal punto che Pitagora per primo ha chiamato il mondo ‘‘cosmo’’, per loro, infatti,
quest’ultimo non era visto come un’accozzaglia di fenomeni strampalati e disordinati,
ma rispondeva ad una serie di regole, un’armonia, poiché i fenomeni rispettavano
delle proporzioni, erano misurabili e riconducibili al numero. I numeri rappresentano
dunque per questo la struttura portante della realtà, perché tutto ciò che compone
una determinata cosa (es. un cane, un gatto, un tavolo), risponde a un ordine ed è
misurabile. I numeri erano la chiave interpretativa di tutti i fenomeni del cosmo. Il
numero aveva una caratteristica divina, quindi si caricava di significati altri dalla
misurabilità strettamente detta, tanto che, pare che i Pitagorici associassero ciascun
numero a una cosa (es. il 4 era la giustizia). Questa struttura numerica aveva una
valenza simbolica, i quali venivano ricondotti alla coppia pari-dispari (1-2). L’1 era il
principio unitario, il 2 il principio del molteplice; la funzione del numero era di
unificare il molteplice. A questa caratteristica, i Pitagorici attribuivano anche valori
etico-religiosi, poiché, per i Greci, tutto ciò che è delimitato è perfetto. Questo
miscuglio di osservazioni della realtà che la riconducevano a dei principi unificanti, si
mescolava con considerazioni di carattere religioso, etico e spirituale. La realtà è
dunque una sorta di delimitazione dell’indeterminato. Lo stile di vita pitagorica era
fortemente caratterizzato in senso dualistico, cioè si pensava che l’uomo fosse un
composto di anima e di corpo dove ciò che conta non è il corpo ma l’anima: da una
parte c&rsquo