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CAMBIAMENTI STRUTTURALI E GRUPPI SOCIALI DALL’UNITA’ A FINE SECOLO
Musso evidenzia due grandi cambiamenti strutturali di lungo periodo:
La diminuzione del tasso di attività.
1) È dato dal rapporto tra popolazione
attiva e il totale della popolazione. Per popolazione attiva si intende l’offerta
di lavoro ossia chi lavora e chi sta cercando lavoro (occupati + disoccupati).
Nel 1861, quasi 2 abitanti su 3 appartenevano alla popolazione attiva,
questa tendenza si è poi ridotta a poco più di 1/3 nel 1970 e poi a partire
dagli anni ’80 c’è stato un lieve aumento che ha portato gli attivi a 2/5
(42%).
Le cause di riduzione del tasso di attività sono:
Crescita della scolarità Nel 1861 con la legge Casati l’obbligo scolastico
elementare venne fissato a 2 anni e risultava che ¾ dei cittadini era
analfabeta. A partire dal 1904 questo obbligo venne esteso a 12 anni (fino al
VI elementare) grazie al governo di Giolitti.
La riforma Gentile del 1923 istituì la VII e VIII elementare, estendendo
l’obbligo scolastico a 14 anni ma il titolo di studio minimo con valore legale
rimase la V elementare. Solo in corrispondenza della creazione della scuola
media unica obbligatoria, nel 1962, l’età di accesso al lavoro fu innalzata,
dapprima a 13 anni, poi nel 1967, a 14 anni. Vi era quindi un
disallineamento tra obbligo scolastico ed età minima di lavoro con uno
scarso rispetto dell’obbligo scolastico, quindi, fino agli anni ’60 del ‘900
questo non influenzò troppo la riduzione del tasso di attività.
Sviluppo del sistema pensionistico Esso, insieme all’innalzamento della
speranza di vita, ha comportato la crescita della fetta di popolazione
anziana ritirata dal lavoro. La speranza di vita alla nascita è cresciuta dai 41
anni nel 1861 ai 77 anni oggi.
Riduzione del lavoro femminile a causa dell’aumento delle casalinghe a
tempo pieno Agli inizi del ‘900, spostandosi dalle campagne alle città, le
donne facevano fatica a trovare un’occupazione anche perché in campagna
era più facile coniugare il lavoro con la cura della famiglia (bambini e
anziani). Nel periodo tra il 1950 e il 1970 (periodo della Golden Age) nasce
la figura della casalinga a tempo pieno, nel 1977 solo 1 donna su 3 era
occupata (33%).Negli ultimi decenni è cresciuto il tasso di attività femminile
(arriva circa al 50%), nonostante l’occupazione femminile sia comunque
inferiore a quella maschile. Bisogna osservare che in Italia è poco diffuso il
4 lavoro part-time, il che concorre a spiegare il minor tasso di attività
femminile in confronto agli altri paesi avanzati (come Svezia e Stati Uniti).
Accanto alla diminuzione del tasso di attività si è verificata una progressiva
riduzione dell’orario di lavoro, almeno per quel che riguarda il lavoro
dipendente. Alla fine dell’800 si lavorava circa 12 ore al giorno, per cui 70 ore
settimanali. Nel 1919 finisce la Prima guerra mondiale e lo stato concede 48
ore e ferie retribuite (all’epoca solo 6 giorni di ferie). Ad oggi le ore ammontano
a 40.
2) Gli spostamenti della popolazione attiva tra i settori produttivi (agricoltura,
industria, servizi).
Si ha un passaggio di forze di lavoro dal settore primario alle attività extra-
agricole. Il boom economico della Golden Age ha innescato un rapido
mutamento sociale che ha cambiato il volto del paese in venti anni, nel corso
dei quali il ritmo della crescita produttiva è stato secondo solo al Giappone ed
ha eguagliato quello della Germania.
Nel 1861 (Unità d’Italia): 2/3 della popolazione era addetta all’agricoltura
mentre il rimanente 1/3 era ripartito tra industria e servizi.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1951, gli occupati sono ancora del
44.3% nell’agricoltura, mentre ad oggi è al 3,8%.
Nel 1961 vi è un sorpasso dell’industria sull'agricoltura, la quale rimase
leadership fino al 1971
Nel 2019 il settore dei servizi e dell’industria pesavano rispettivamente il
69,5% e il 26,7% (Italia è il secondo paese per settore manufatturiero dopo
la Germania).
I GRUPPI SOCIALI DALL’UNITA’ A FINE SECOLO
I LAVORATORI AGRICOLI
Nel 1861 gli addetti all’agricoltura sfioravano il 70% della popolazione attiva.
Una quota così alta era indicativa dell’arretratezza italiana in confronto ai paesi
dell’Europa centro-occidentale. Gli agricoltori, infatti, erano poco più del 20% in
Inghilterra, e oscillavano intorno al 50% in Germania, Francia e Stati Uniti.
Nel quadro generale di arretratezza, avevano grande diffusione le figure
occupazionali miste, che svolgevano contemporaneamente attività di lavoro
autonomo e prestazioni di lavoro dipendente. Ciò rendeva difficile la loro
classificazione nelle condizioni professionali (come nel caso del contributivo
lavorativo delle donne o dei minori).
I criteri statistici variarono significativamente nei primi censimenti unitari
riflettendo gli interessi del ceto dirigente verso i fenomeni di trasformazione
che intendevano studiare o porre all’attenzione del pubblico.
Nel censimento del 1881, ad esempio, la popolazione agricola venne suddivisa
in 9 categorie, quattro erano costituite da professioni minori mentre le altre
cinque erano costituite dagli agricoltori che lavoravano terreni propri (15,4%),
dai mezzadri (12,1%), da fittavoli ed enfiteuti (4,6%), dai braccianti di
5
campagna a lavoro non fisso (29,9%), da contadini e bifolchi a lavoro fisso
(32,9%). Quest’ultima era la categoria più numerosa.
Nel censimento del 1901, accadde il contrario: si sottolinea la persistenza della
piccola conduzione in proprio scorporando i contadini dai salariati fissi e
inserendoli nelle categorie dei coltivatori proprietari, fittavoli e coloni. Così
mentre i salariati fissi si riducevano al 10,5%, i conduttori proprietari salivano al
26,9%, i mezzadri e coloni al 20,8%, i fittavoli ed enfiteuti al 7,7%.
I dati nazionali sulle posizioni professionali nelle campagne erano il risultato di
differenze regionali molto accentuate.
In Val Padana alcune isole di conduzione moderna si erano consolidate
anche grazie alle opere di bonifica iniziate nel 1872: con l’estensione
delle aziende capitalistiche diventò consistente il numero dei
braccianti, che trovano occasioni aggiuntive di lavoro nelle bonifiche
stesse. Nell’alta pianura padana e nella fascia collinare pedemontana
predominavano la piccola proprietà, il piccolo affitto e la colonia
parziaria, con colture promiscue in cui assumevano rilievo il mais e il
gelso, quest’ultimo impiegato per l’alimentazione del baco da seta.
Nel Mezzogiorno e nell’Agro romano prevaleva il latifondo; qui la terra
continuava ad essere coltivata a cerealicoltura estensiva da contadini
molto poveri che lavoravano in parte come salariati, in parte con
propri strumenti e a proprio rischio, versando una rendita ai
proprietari, per lo più nobili (gabellotto in Sicilia, mercante di
campagna nel Lazio); questi, a differenza dei grandi affittuari della Val
Padana non operavano dunque come imprenditori ma si limitavano a
sostituirsi ai proprietari nel comandare i lavori, nell’assegnare le terre
e nel percepire i canoni imposti ai contadini, lucrando sulla differenza
tra il valore dei canoni e quello delle rendite pagate ai possidenti. Nel
Mezzogiorno vi erano anche zone con agricoltura più specializzata
(agrumeti, viticoltura, olivicoltura).
In vaste zone delle regioni centrali, specie nelle aree collinari,
prevaleva un’altra forma tradizionale, la colonia parziaria o mezzadria;
qui il raccolto, ricavato dal podere coltivato dal mezzadro veniva
suddiviso con il proprietario (per lo più a metà) con l’obbligo
aggiuntivo per il mezzadro di prestazioni di vario genere.
Nell’ultimo quarto dell’800 la crisi agricola dell’età della grande depressione
acuì le difficoltà derivanti dalla crescita demografica. Le aree rurali(campagna)
erano gravate da una crescente sovrappopolazione che prese ben presto ad
alimentare l’emigrazione. Con il nuovo secolo si accentua ancor di più la crisi
della piccola proprietà portando ad un aumento della quota dei lavoratori
dipendenti. Secondo il censimento del 1901, braccianti e salariati fissi
costituivano il 40% della popolazione agricola; la loro concentrazione nella
pianura padana favorì il rafforzamento delle leghe bracciantili. L’emigrazione di
massa all’estero (USA e Australia) invece, agì da valvola di sfogo per la
sovrappopolazione e scongiurò l’ulteriore impoverimento dei contadini delle
zone arretrate.
I LAVORATORI INDUSTRIALI
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Con i censimenti condotti tra il 1861 e il 1881 gli operai di fabbrica
rappresentavano solo una piccola minoranza. Nel 1881, gli artigiani erano circa
il 15,9% della popolazione attiva ed erano più numerosi dei salariati
dell’industria che raggiungevano il 13,2%
Gli addetti riguardavano soprattutto il settore tessile (34,5% del settore
industriale) ; l’industria tessile impiegava, specie in seguito all’introduzione del
telaio meccanico, manodopera in gran parte femminile e minorile di scarsa
qualificazione. Gli stabilimenti erano solo in parte situati nelle città perché in
parte venivano costruiti in prossimità dei corsi d’acqua usati poi come fonte di
energia.
Tra il 1861 e il 1901, la popolazione cresce del 30% e si concentra
principalmente nelle città (70%).
La popolazione urbana cresceva per il saldo migratorio positivo ma non
mancavano anche flussi consistenti in uscita dalle città. L’immigrazione nei
centri urbani non era dunque stabile e si legava solo in misura ridotta
all’industrializzazione; la manodopera era piuttosto attratta dall’edilizia e dalle
attività di servizio e amministrative.
Tra il 1881 e il 1901 vi è una forte contrazione degli artigiani che scendono da
2,3 a 1 milione.
Alla fine dell’800, ci fu un elemento importante: terminò la Grande Depressione
che coincise con l’avvento dell’elettricità come forza motrice a disposizione
degli impianti produttivi.
Grazie alla nuova fonte di energia, che liberava dalla dipendenza dai corsi
d’acqua e dalla costosa importazione di carbone, i nuovi stabilimenti poterono
insediarsi nelle periferie delle città, in prossimità delle linee ferroviarie.
Dalla metà dell’800 si ha una crescita della popolazione, uno sviluppo
dell’industria cotoniera e si avviano imprese industriali nei nuovi settori
trainanti della seconda rivoluzione industriale. Gli stabilim