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PSI.
Sebbene non vi fossero ministri socialisti nel governo, la pressione riformatrice si fece
piuttosto evidente in questo governo che approvò provvedimenti come la nazionalizzazione
dell’industria elettrica, per spezzare uno dei principali monopoli operanti nel paese e con
l’obiettivo di fornire energia a basso costo al Sud. Le aziende private furono espropriate e fu
creato l’Ente nazionale per l’energia elettrica (ENEL).
La misura, che fu duramente avversata dalle compagnie elettriche, non fu però punitiva,
perché le aziende furono ampiamente compensate.
Il riformismo del governo Fanfani portò, inoltre, all’introduzione di una imposta sui dividendi
azionari, all’approvazione della riforma urbanistica che avrebbe dovuto alleviare la fame di
abitazioni dei centri abitati (concedendo ai Comuni il diritto di esproprio dei terreni) e la
riforma della scuola media inferiore.
Fu così introdotta la scuola media unica triennale con l’elevazione dell’obbligo scolastico da
11 a 14 anni, abolendo la divisione fino a quel momento esistente tra scuole che
preparavano al liceo e scuole che avviavano al lavoro.
Il centro-sinistra «organico» di Aldo Moro
Le riforme del centro-sinistra portarono a un ingiustificato allarmismo dei settori economici
conservatori che reagirono con massicce esportazioni di capitale all’estero.
Le inquietudini dell’opinione pubblica si ripercossero all’interno della DC dove l’ala più
conservatrice impose un colpo di freno all’attività del governo Fanfani. Nel 1962 venne eletto
presidente della Repubblica, il democristiano Antonio Segni, con i voti determinanti delle
destre.
L’esito delle elezioni del 1963 fu deludente per la DC (che scese al 38,3%) e per il PSI,
vedendo il rafforzamento del PLI a destra, del PSDI al centro e del PCI a sinistra (25,3%).
I risultati portarono a un nuovo governo di centro-sinistra guidato da Aldo Moro (segretario
DC dal 1959). Diversamente dai governi Fanfani, il governo di Moro vide la partecipazione
diretta di ministri PSI (per questo fu detto «organico») e prevedeva l’attuazione delle regioni
e altre riforme.
L’ingresso al governo portò alla scissione nel 1964 dell’ala sinistra del PSI, che formò il
PSIUP.
I tre governi Moro (1963-68) furono meno riformisti dei precedenti e più moderati, per
l’indebolimento dei socialisti e anche per il peggioramento delle condizioni economiche dopo
anni straordinari che avevano portato l’Italia tra le principali potenze economiche mondiali.
Il Piano Solo
A fermare il piano riformatore del governo di centro-sinistra contribuì anche il timore di un
possibile colpo di stato autoritario e reazionario come quello progettato nel 1964 dal
comandante dell’arma dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, la cui pericolosità emerse solo
qualche anno dopo.
Il piano messo a punto dall’ufficiale («Solo» perché si basava sull’utilizzo dei soli carabinieri)
prevedeva l’arresto di dirigenti sindacali e politici e di intellettuali di sinistra, l’occupazione
della RAI, di centrali telefoniche, ecc. per formare un governo di destra.
Fu anche per contrastare questi disegni eversivi che, quando nel 1964 Segni dovette
dimettersi, le sinistre e una parte dei democristiani votarono per il socialdemocratico
Giuseppe Saragat come presidente della repubblica.
La vicenda del «Piano Solo» dimostrava la vulnerabilità del paese di fronte alle trame
eversive di una parte dei suoi servizi segreti e dei suoi militari, ma indusse socialisti e
democristiani a proseguire comunque nella strada della collaborazione, accantonando le
riforme per garantire la stabilità politica del paese.
Socialisti e socialdemocratici si sarebbero uniti per qualche anno nel Partito socialista
unificato (PSU) dal 1966, mentre il PCI, dopo la morte di Togliatti nel 1964, si affidò a Luigi
Longo che proseguì nel progetto di costruzione della «via italiana al socialismo».
Il processo di decolonizzazione
Alla vigilia della seconda guerra mondiale la dominazione coloniale europea si estendeva su
una gran parte del pianeta.
L’indebolimento delle potenze coloniali europee durante la guerra (in particolare per Francia,
Belgio e Paesi Bassi) e il sorgere di nuove potenze come USA e URSS portò a quella che è
stata definita «decolonizzazione».
Il principio dell’autodeterminazione dei popoli, che era stato ribadito dalle potenze vincitrici,
sembrò segnare definitivamente la fine dei vecchi sistemi coloniali.
Nei paesi colonizzati, inoltre, erano sorti dei movimenti indipendentisti guidati da élite spesso
formate nei paesi europei sin dagli anni Venti e Trenta, anche se le potenze coloniali
avevano quasi sempre represso le aspirazioni autonomiste e indipendentiste.
In alcune aree del mondo dopo la Grande Guerra erano stati istituiti i «mandati» (ad es. Siria
e Libano per la Francia e Mesopotamia e Palestina per Gran Bretagna) in vista di una
possibile futura autonomia che, tuttavia, appariva all’epoca ancora sulla carta.
In alcuni casi si giunse, tuttavia, già prima del 1945 all’indipendenza: Iraq (1932), Egitto
(1936).
L’indipendenza dell’India
Anche l’India si avviò verso la decolonizzazione, forte di una già radicata presenza di
movimenti indipendentisti.
Durante la guerra i nazionalisti guidati da Ghandi avevano promosso una grande campagna
di disobbedienza civile (rifiutandosi di ricoprire cariche pubbliche, di servirsi delle istituzioni
sociali) in segno di protesta per aver coinvolto l’India nel conflitto senza consultare il
Parlamento.
Il Partito del Congresso votò nel 1942 una risoluzione in cui chiedeva l’indipendenza
dell’India ma il rifiuto di Churchill, che si limitò a promettere l’indipendenza per il dopoguerra,
acuì l’ostilità popolare contro i dominatori, che agirono reprimendo le proteste.
Gli inglesi iniziarono, alla fine del conflitto, trattative per la devoluzione dei poteri allo stato
indiano, ma i negoziati furono ostacolati dal problema del contrasto tra indù e musulmani.
Gandhi e il Partito del Congresso volevano, infatti, un’India unita, mentre la Lega
musulmana voleva due nazioni distinte.
Il 15 agosto 1947 furono così creati l’Unione Indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan, a
maggioranza musulmana.
Da Gandhi a Nehru
La divisione condusse a un’esplosione di conflitti religiosi ed etnici in tutto il paese, che
fecero circa 100.000 morti portando a un drammatico esodo di popolazioni (17 milioni) nei
due sensi.
Lo stesso Gandhi fu assassinato nel gennaio 1948 da un fanatico indù che gli rimproverava
la predicazione della «nonviolenza» nei confronti dei musulmani.
La tensione portò a scontri armati tra i due stati come quelli del 1948-49 e del 1965 per il
controllo della regione del Kashmir (unito all’India, nonostante fosse a maggioranza
musulmana). Nel 1971 una nuova guerra provocò il distacco dal Pakistan del Bengala
orientale, a maggioranza indù, portando alla nascita del Bangladesh.
La guida del paese fu dal 1947 al 1964 Nehru, che mantenne la coesione del Partito del
Congresso e avviò la modernizzazione delle antiche strutture economiche e sociali del
paese, abolendo le caste, combattendo la poligamia e affermando la parità dei sessi e
l’uguaglianza dei cittadini.
Nehru portò avanti quello che fu definito come un «socialismo indiano» con un sistema
produttivo misto pubblico-privato e con una pianificazione industriale che portò a una lenta
industrializzazione.
I paesi non allineati
L’India si pose, inoltre, alla testa, insieme alla Jugoslavia di Tito e all’Egitto di Nasser dei
cosiddetti «paesi non allineati», ovvero di paesi che non intendevano schierarsi con gli USA
o con l’URSS.
Già nel 1954 Nehru aveva organizzato insieme a Ceylon, Pakistan, Birmania e Indonesia
una conferenza afroasiatica a Bandung per riunire i paesi ex coloniali e i popoli che stavano
ancora lottando per l’indipendenza.
29 stati parteciparono alla conferenza. Tra i paesi, tuttavia, vi erano paesi più vicini al blocco
occidentale (Ceylon, Pakistan, Turchia e Iraq) e altri filosovietici (Cina, Vietnam).
Fu parlando di questa conferenza che l’antropologo Alfred Sauvy coniò il termine «Terzo
Mondo», parlando anche di «terzomondismo».
Nel 1956 Tito invitò Nehru e Nasser per promuovere la costruzione di una Conferenza dei
Paesi non allineati che si svolse a Belgrado nel 1961 e che vide la partecipazione di 25 stati,
prevalentemente asiatici e africani.
La Jugoslavia era l’unico paese europeo.
La conferenza rifiutò la logica della «Guerra Fredda» sostenendo la necessità della
coesistenza pacifica e l’indipendenza dei popoli.
Le indipendenze asiatiche
Nell’agosto 1945 Sukarno proclamò l’indipendenza dell’Indonesia dai Paesi Bassi:
nonostante il rifiuto olandese, la resistenza armata indonesiana e le pressioni dell’ONU
portarono nel 1949 alla proclamazione dell’indipendenza.
Nel 1946 gli Stati Uniti avevano concesso l’indipendenza alle Filippine, salvaguardando i loro
interessi con l’appoggio a governi autoritari e anticomunisti come quello di Ferdinand Marcos
(1965-86).
Nel 1947 gli inglesi riconobbero indipendenza della Birmania e dell’isola di Ceylon (Sri
Lanka).
Formazioni indipendentiste malesi portarono nel 1957-58 all’indipendenza della Malesia e
alla nascita del piccolo stato di Singapore.
La guerra d’Indocina
Diversamente dai britannici, i francesi non avevano elaborato piani per un’uscita pacifica
dalle colonie: la Francia si trovò così coinvolta in diversi conflitti con le forze indipendentiste.
La Francia aveva perso durante la guerra il controllo di Cocincina, Annam e Tonchino, ma
rifiutò il riconoscimento della Repubblica Democratica del Vietnam, proclamata da Ho Chi
Minh nel settembre 1945 ad Hanoi.
Le forze francesi occuparono gran parte del Vietnam e cercarono un negoziato che, tuttavia,
fallì. Nel novembre 1946 la Francia diede dunque inizio alle ostilità con un bombardamento
navale del porto di Haiphong che fece più di 6.000 vittime.
I francesi impiantarono a Saigon un governo fantoccio, riportando sul trono l’imperatore
dell’Annam. La guerra fu, inizialmente, solo una guerra coloniale, ma la vittoria dei comunisti
in Cina e l’inizio della guerra di Corea integrarono il conflitto dentro la Guerra Fredda.
Le forze vietnamite guidate dal generale Giap e rifornite da URSS e Cina passarono dalla
guerriglia appoggiata dai contadini alla guerra ve