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IL RAPPORTO TRA TRADEUNIONISMO E POLITICA
Il rapporto tra Tradeunionismo e politica è sempre stato di netta separazione fra i due campi: nella
prima parte del XIX sec. le Unions chiedevano solo il pieno riconoscimento della libertà di
associazione e di contrattazione collettiva. In seguito, abrogate le leggi restrittive dei Combination
Acts, cresciute e meglio organizzate le varie Unions, raggruppate e coordinate queste, dal 1868, in
una struttura unitaria confederale, il TUC, i sindacati iniziavano da subito un’opera di pressione
pro-Labor su governi e parlamento.
Nel 1899 il TUC per esercitare una più efficace azione parlamentare a favore dei lavoratori dava
vita ad uno speciale “comitato sindacale” per i rapporti con il parlamento, con il compito di
preparare e sostenere petizioni, leggi, progetti di politiche sociali ed economiche proposte dai
sindacati stessi.
Nel 1906 veniva fondato il Labour Party, partito di diretta espressione dei sindacati e da essi
finanziato. Un partito che arrivava nel 1945 ad ottenere la maggioranza assoluta dei seggi
eleggendo un Primo Ministro ex sindacalista e governando il Paese per anni. Lo stesso percorso si
ripeteva in tutti i paesi del Commonwealth (Australia, Canada, Nuova Zelanda). Tutti espressione in
politica delle Unions ma autonomi nelle decisioni, tanto da avere anche loro momenti di forte,
reciproco, contrasto.
Nel 1979 in Gran Bretagna avveniva una svolta: arrivò al potere la Thatcher con un programma
radicalmente neoliberista ed esplicitamente anti-union. Quindi si ebbe con il suo arrivo una chiusura
verso le lotte sindacali e un rifiuto del dialogo sociale operando privatizzazioni e ristrutturazioni di
grandi imprese e settori. Ci furono clamorosi scontri sindacali ed il TUC radicalizzava posizioni
sindacali e politiche.
Nel 1997 tornava al potere il leader laburista Tony Blair che però mostrava volutamente una netta
svolta nei rapporti tra sindacati e partito, annunciando la nascita di un “New Labour”: si dichiarava
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esaurita la tradizionale stretta alleanza con il TUC e si svincolava dal tradizionale “programma
comune”, specie sui due scottanti temi dell’intervento dello Stato in economia e della difesa del
welfare state universalistico e pubblico.
In realtà era già avvenuta una simile politica negli anni ’60 quando i governi laburisti e sindacati si
erano scontrati più volte su singoli temi sociali ed economici.
Esauritasi la stagione di Tony Blair, il peso dei sindacati britannici nel Labour Party resta ancora
determinante: essi contribuiscono oggi a circa il 75% delle entrate del Partito, il cui programma di
massima continua ad essere in gran parte concordato assieme al TUC.
Completamente diversa la vicenda politica del Tradeunionismo negli Stati Uniti.
L’azione sindacale in politica si esprimeva in due direzioni, almeno dalle origini agli anni ’20 del
Novecento: da una parte concependo l’associazione sindacale come scuola di democrazia per i
lavoratori, accentuando la vocazione formativa del sindacalismo visto come una via alla conquista
della piena cittadinanza democratica per milioni di lavoratori, loro famiglie e comunità, specie
immigrati. Dall’altra esercitando una mirata e costante azione di pressione (lobbying) presso i
leader di partito e gli eletti, nei diversi Stati e a livello federale: orientando cioè il più possibile la
produzione legislativa e le decisioni politiche dei governi locali, statali e federali.
Le cose cambiavano con la Grande Crisi del 1929 e con il successivo New Deal di Roosevelt
quando il sindacalismo dovette interessarsi anche alle grandi questioni di politica economica e
sociale e schierarsi apertamente per una politica pro-Labour.
Nelle elezioni del 1936, il voto operaio sindacalizzato fu decisivo per la rielezione di Roosevelt e la
prosecuzione delle sue politiche sociali, ricevendone in cambio alcune legislazioni di sostegno,
come il Wagner Act.
La situazione non mutava nei decenni successivi al dopoguerra, in un lento logoramento e declino
avvertito, però, da alcuni studiosi, già nei primi anni ’60: da una parte si rilevava l’evidente
fallimento delle politiche economiche per la piena occupazione tanto sostenute allora dai sindacati,
mentre era crescente il numero dei disoccupati e dall’altra si rilevavano gli errori di tanti leader
sindacali che proseguivano nel tradizionale approccio adversarial (conflittuale) perdendo man mano
contatto con la base, specie più professionalizzata. Si arrivava così alla grande ondata antisindacale
degli anni ’80-’90, sotto le presidenze di Reagan e Bush che, come la Thatcher, in Gran Bretagna,
intendevano ridurre la tradizionale influenza politica delle Union sulla politica americana.
Dopo le delusioni della presidenza del democratico Bill Clinton ci fu in alcune delle Federazioni più
vivaci e di successo come il SEIU (sindacato dei servizi) una rivolta di iscritti e sindacati di base
contro l’azione politica della dirigenza nazionale dell’AFL-CIO.
Nasceva così nel 2006 CTW (Cambiare per Vincere): una nuova confederazione di sindacati di
settore e locali, quasi tutti molto attivi e presenti nei rispettivi ambiti, che, usciti dall’AFL-CIO,
decidevano di orientare piuttosto le proprie risorse in campagne di nuova sindacalizzazione, dette di
deep organizing, aggressive e mirate sui bisogni immediati dei lavoratori sul posto di lavoro.
Aderiscono ancora oggi a CTW i forti camionisti dell’IBT, gli agricoli e braccianti dell’UFW, il
sindacato a lungo guidato dallo storico leader Cesar Chavez, e infine la federazione dei lavoratori
delle comunicazioni, CWA.
I SINDACATI D’ISPIRAZIONE RIFORMISTA O SOCIALDEMOCRATICA
I sindacati d’ispirazione riformista sono distribuiti per il mondo, ma predominanti in Europa
centrale e settentrionale. Hanno continuato in ogni paese e per tutto il ‘900 nel tradizionale stretto
rapporto di alleanza, alla pari e nella reciproca autonomia, con i partiti socialdemocratici.
Negli ultimissimi anni, i rapporti tra sindacati e partiti riformisti sono entrati in crisi. Si sono
alternati in sostanza periodi o situazioni di stratta collaborazione e di sostegno reciproco ad altri di
sostanziale distanza e autonomia tra i due mondi: quello sindacale e quello politico-partitico. Questo
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è avvenuto soprattutto in Europa Occidentale, a partire dagli anni ’80, dove molti partiti riformisti e
socialdemocratici mettevano in discussione idee e programmi tradizionali e consolidati fin dagli
anni ’50 accogliendo almeno in parte alcune riforme liberali e liberiste.
A loro volta i sindacati riformisti, in calo di iscritti anche se sempre maggioritari, cercavano più
autonomia nelle singole scelte di politica economica e sociale.
I SINDACATI COMUNISTI
Diversa l’evoluzione storica dei sindacati comunisti.
Nei paesi a socialismo reale essi hanno sempre operato come sindacati-istituzione, ed era
impensabile ogni autonomia dal Partito-Governo, espressione e guida della classe operaia al potere.
Svolgevano un’intensa attività nelle politiche economiche, sociali ed educative dello stato
socialista, mentre era completamente assente ovviamente l’azione contrattuale e vertenziale.
Importante era la presenza istituzionale a pieno titolo dei leader sindacali negli organismi
governativi di direzione economica, ad esempio in URSS nel grande Ministero centrale
dell’Economia di Piano. Crollati in Est Europa quei regimi, anche i sindacati ne seguivano la sorte,
sostituiti in questi ultimi due decenni da altri sindacati, liberi e democratici ma decisamente ridotti
nel numero di aderenti e nell’influenza politica.
Esiste in verità negli ultimi tempi anche qualche fenomeno di ripresa di tali sindacati ex comunisti
di Stato.
IL SINDACALISMO RIVOLUZIONARIO
Il sindacalismo rivoluzionario ha sempre posto tra i propri obiettivi il rifiuto dell’ordinamento
politico esistente nella prospettiva finale dell’assunzione delle sue funzioni generali da parte del
sindacato stesso.
Una tradizione ed una prassi ancora oggi rivendicate con orgoglio da vivaci piccoli gruppi di
lavoratori in aperta contestazione dei sindacati tradizionali.
I MOVIMENTI SINDACALI NEI REGIMI CORPORATIVO-NAZIONALISTI
I movimenti sindacali nei regimi corporativo-nazionalisti sono un fenomeno molto diffuso negli
anni ’20-’30 del Novecento, a cominciare dall’Italia governata dal Partito fascista o in paesi simile
regime autoritario come la Spagna franchista o il Portogallo di Salazar. In essi operava un
sindacalismo unico, di diritto pubblico e nei fatti obbligatorio, rappresentante di specifici interessi
settoriali e professionali di cui uno Stato moderno non poteva non tener conto, considerato un
efficace strumento di controllo e di consenso politico e sociale.
Questo sindacalismo esercitava il collocamento, il dopolavoro, l’assegnazione delle case popolari e
in generale gestiva, direttamente e non, i servizi sociali. Contribuiva a definire i salari e condizioni
di lavoro con contratti stipulati a tre livelli: interconfederale, nazionale di categoria (CCNL) e a
livello provinciale.
I contratti erano firmati con le rispettive organizzazioni padronali fasciste ed avevano forza di
legge. gli scioperi erano proibiti ma si poteva ricorrere, in caso di vertenze e contrasti con la
controparte, ad una magistratura del lavoro creata dal Regime stesso, cui spettava l’ultima parola.
Esperienze simili si ebbero nella Spagna franchista.
I SINDACALISMI CRISTIANI
Cooperativo ma distante appare il rapporto tra i sindacalismi cristiani e i rispettivi partiti nazionali
di simile ispirazione: come il Zentrum nella Germania di Weimar, il Mouvement populaire nella
Francia della IV Repubblica, il Partito popolare e poi la Democrazia cristiana in Italia. Lo stesso
accadeva in Belgio, Olanda, Svizzera. 6
Alleati quindi, sindacati e partiti cristiani ma sempre, come per il sindacalismo socialdemocratico,
su di un piano di parità.
Tale forte sottolineatura di autonomia non impediva un coordinamento stretto tra le due esperienze:
ad esempio nelle Francia della IV Repubblica quando metà dei deputati e dei quadri dirigenti più
importanti del Mouvement populaire erano al tempo stesso leader del sindacato CFTC, spesso
collocati nei posti chiave dei governi. Più recenti studi hanno infatti evidenziato come furono loro i
protagonisti primi di alcune tra le più importanti riforme sociali e del lavoro nella Francia del
dopoguerra.
Proprio per questo, negli anni a cavallo dei decenni ’50-’60 si apriva un intenso dibattito interno per
introdurre o meno il principio della piena incompatibilità statutaria tra cariche sindacali e cariche
politiche. Dibattito molto acceso in Francia, tanto da influenzare processi simili in altri paesi come
l’Italia dove si abbandonò infine nei congressi sindacali del 1969 la traduzione, trasversale, d