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CONSENTE DI PREPORRE A DETTE SEDI ANCHE FUNZIONARI O CAPI UFFICI.

In altri termini: ad una determinata sede possono essere applicati funzionari e capi uffici; se un

dipendente che era stato preposto a tale sede, rivendica tale superiore qualifica (di funzionario) per

sè, e questa gli venga negata, la sentenza conferma questa pronuncia (ergo: le mansioni svolte non

erano da capo ufficio o da funzionario); tuttavia ritiene non infondata la censura che investiva il

potere del datore di lavoro di assegnare siffatti dipendenti a siffatta sede, in quanto nella

determinazione delle mansioni del funzionario, l'attribuzione di quelle funzioni, per essere

eventuali e perciò non caratterizzanti, erano considerate irrilevanti; ma l'esercizio di tale potere era

talmente discrezionale ed arbitrario, da vanificare totalmente il disposto dell'art. 2103 cod. civ..

-- c.1.2.

(Cass. 8 marzo 1990 n. 1888): è la sentenza che meglio mette in luce le conseguenze della

affermazione del cennato principio generale, sul piano della contrattazione collettiva.

La fattispecie: una annunciatrice rivendica la qualifica di annunciatrice-traduttrice dal 1977,

sebbene introdotta dalla contrattazione collettiva soltanto nel 1983; la cennata sentenza annulla la

decisione che aveva negato la invocata qualifica, affermando che il giudice di rinvio a) deve

accertare se dal comportamento delle parti posteriore alla contrattazione collettiva del 1980

emergono elementi dai quali desumere l'esistenza della differenza, qualitativa e quantitativa delle

prestazioni di annunciatore e di annunciatore-interprete, e la "intenzione" di provvedere, nella

vigenza di tale contrattazione, a sanare gli effetti retributivi deteriori di tale differenze; b) in caso

negativo, se, con riguardo a detto periodo, la differenza di modalità e di contenuto di tali due

prestazioni, importi una diversa retribuzione, o se tale diversità sia giustificata da causa coerente

con i fini dell'attività imprenditoriale (se dedotti); in caso negativo (cioè se le retribuzioni sono

uguali, o se la diversità di mansioni non è coerente con i fini imprenditoriali dedotti), il giudice

attribuisce alla ricorrente una retribuzione che tenga conto di tale differenza di prestazione

lavorativa.

-- c.1.3.

(Cass. 18 maggio 199 n. 590): il diritto a percepire una retribuzione uguale a quella corrisposta ad

altri lavoratori con pari mansioni (sent. 103-1989 c.cost.) non esclude la possibilità

dell'imprenditore di adottare, pur con riguardo a mansioni uguali, trattamenti economici

differenziati, semprecché tale diversità di trattamento non derivi dalla mera discrezionalità o

dall'arbitrio del datore di lavoro, nè da ragioni discriminatorie.

-- c.1.4.

(Cass. 26 gennaio 1991 n. 791): è derogabile quando risponda razionalmente a criteri

predeterminati e collegabili al perseguimento degli obiettivi previsti dall'attività imprenditoriale

(es. alloggio solo ai dipendenti obbligati ad alloggiare presso l'azienda), e, pertanto, escludeva

ricorrere nel caso di specie; in verità il senso della decisione sembra piuttosto nella direzione di

escludere la esistenza di un principio di parità, posto che contano soltanto la proporzionalità e la

sufficienza della retribuzione, con esclusione di valutazioni intersoggettive, tanto più che il

significato della sent. n. 103 non è ritenuto univoco, e, sostanzialmente si rimette al prudente

apprezzamento del giudice;

-- c.1.5.

(Cass. 8 gennaio 1992 n. 878): che, con riferimento al caso di specie, riteneva la questione

irrilevante, posto che l'esistenza di un solo caso di trattamento differenziato (in melius), non

consente di apprezzare, sotto il profilo della disparità di trattamento, la posizione del dipendente

che assume essere discriminato; la decisione è da richiamare perché in realtà non afferma la

esistenza di un principio di parità di trattamento, o, a tutto voler concedere, perché introduce un

altro elemento, quantitativo, al fine di stabilire se si versa in ipotesi di disparità di trattamento.

-- c.1.6.

(Cass. 8 luglio 1992 n. 8330) nella quale è testualmente affermato: "in tale situazione non si vede

perché tale principio possa dalla Corte, in presenza di una linea di tendenza di segno contrario

(sent. n. 1888 del 1990, n. 546 del 1991) nel solco della pronuncia costituzionale n. 103 richiamata

dai ricorrenti, essere ritenuto da sè solo sufficiente ad inficiare la validità delle conseguenze che

dal riconoscimento ad altri della qualifica i ricorrenti traggono in ragione di una affermata, e non

più contestabile, identità, qualitativa e quantitativa, di prestazione lavorativa".

- c.2 sentenze che negano la esistenza del principio di parità di trattamento -- c.2.1.

(Cass. 6 novembre 1990 n. 10648) non esiste un principio di parità che impedisca alla

contrattazione collettiva di prevedere in determinate situazioni una differenziazione della

retribuzione pur a parità di categoria e di mansioni. Pertanto le parti sociali, nell'esercizio della

loro autonomia collettiva, possono prevedere, in occasione di un rinnovo di un contratto collettivo

(anche aziendale) che determinati aumenti della retribuzione, riconosciuti con effetto retroattivo,

spettino unicamente ai lavoratori in servizio alla data del rinnovo, e non anche ai lavoratori cessati

dal servizio a tale data, ancorché in servizio nel precedente periodo relativamente al quale siano

stati retroattivamente attribuiti i miglioramenti retributivi.

Di grande importanza è l'affermazione contenuta nella motivazione di questa sentenza, secondo la

quale le ragioni per le quali la clausola collettiva ha posto in essere tale regolamento differenziato,

sfuggono al controllo del giudice in quanto investono l'esito di trattative valutato ed accettato nella

complessiva considerazione della nuova normativa scaturita dalle trattative stesse.

-- c.2.2.

(Cass. 17 luglio 1990 n. 7300; la sent. è stata deliberata prima e pubbl. dopo la sent. n. 103-89

della C. Cost.): Il diritto del lavoratore al riconoscimento di una qualifica superiore a quella di

fatto attribuitagli deriva, ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., SOLO dalla effettiva assegnazione del

lavoratore stesso a mansioni superiore e non già dalla sua mera preposizione, in corrispondenza

della qualifica posseduta e in conformità di specifiche norme contrattuali collettive, ad una

succursale dell'azienda alla quale, per la sua importanza, il datore di lavoro, nell'esercizio del suo

generale potere imprenditoriale, possa preporre, secondo le stesse norme collettive (ed in ciò si

ravvisa, invero, una notevole analogia con la fattispecie di cui alla sentenza n. 947 del 1990,

surrichiamata, che peraltro perveniva a conclusioni opposte), anche personale con qualifica

superiore. "Non possono al riguardo essere invocate le disposizioni costituzionali sull'uguaglianza

dei cittadini davanti alla legge, sulla parità delle opportunità socio-economiche, sulla libertà, anche

dal bisogno, dei lavoratori, sulla efficienza e l'imparzialità della amministrazione pubblica, atteso

che con le dette disposizioni non è stato introdotto nell'ordinamento, come invece preteso dal

ricorrente, anche il ben differente principio della generale obbligatorietà nei rapporti di lavoro,

della parità di trattamento normativo e retributivo dei lavoratori con medesime mansioni".

-- c.2.3.

(Cass. 18 settembre 1991 n. 9695): la legittimità, per mancanza di ogni intento discriminatorio, di

una disciplina collettiva che, con riguardo ai lavoratori cessati dal servizio prima di una certa data,

preveda una erogazione straordinaria "una tantum" in favore dei lavoratori con diritto immediato

ad un trattamento pensionistico, ma non anche dei lavoratori più giovani senza tale diritto, non

esime il giudice del merito dall'esame della fondatezza o meno della pretesa alla stessa erogazione

ai sensi dell'art. 36, ove la relativa domanda ANCORCHÈ IN FORMA NON ESPLICITA ED IN

RELAZIONE ANCHE AD UN ASSUNTO PRINCIPIO DI PARITÀ DI TRATTAMENTO, sia

stata proposta (applicazione all'accordo 17.1.1983, il quale, premessa la inapplicabilità

dell'accordo per il rinnovo c.c.n.l. per il credito ai lavoratori cessati dal servizio entro il 1 dicembre

1982, prevedeva per questi - esclusi i licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo - una

erogazione straordinaria "una tantum" soltanto per i lavoratori con diritto a pensione o per quelli

cessati dal servizio per morte o per superamento del comporto).

-- c.2.4.

(Cass. 28 gennaio 1992 n. 886): la sent. 103 non ha affermato la esistenza di un principio di parità

di trattamento, ma il divieto di trattamenti discriminatori che non si identificano in una semplice

diversità di retribuzione o di inquadramento, richiedendosi altresì, oltre beninteso alla coincidenza

delle mansioni, che ciò avvenga per un motivo illegittimo o irragionevole (razza, colore, sindacale,

sesso, religione, politica, etnia).

d) analisi dei motivi del ricorso Non è certo questa la sede per neppure tentare di riassumere le

diverse posizioni che, in tutti i tempi, si sono espresse intorno al principio di uguaglianza; basti

ricordare, per comprendere a quando risalga la consapevolezza del problema, la parabola dei

vignaioli chiamati a lavorare in ore diverse e pagati tutti con la stessa mercede (Matt. 2.15). Va

solo ricordato come la più accreditata dottrina che si è occupata del problema nel diritto privato,

ha generalmente concluso nel senso che la esatta delimitazione del campo di applicazione del

principio di parità di trattamento, l'ambito delle differenziazioni consentite e le conseguenze delle

violazioni della parità dovrebbero SEMPRE essere determinati sulla base di specifiche

disposizioni legislative: nei casi dubbi, dovrebbe prevalere la ammissibilità della differenziazione,

costituendo l'autonomia privata, la regola, ed il principio di uguaglianza, la eccezione.

I diversi argomenti nei quali si articola il ricorso, sono fondati, talché, nel risolvere il contratto

interpretativo insorto tra le sentenze surrichiamate, queste Sezioni Unite, ritengono di aderire,

confermandola, alla ampia elaborazione giurisprudenziale che la Corte aveva compiuto prima

della sentenza n. 103 del 1989 della Corte Costituzionale, ed alle pronunzie successive, che, dando

una lettura della sentenza n. 103 non antitetica rispetto a quella giurisprudenza, ad essa

esplicitamente o implicitamente si richiamano. Ed in particolare:

- d.1. si è visto che effettivamente la sentenza n. 103 non afferma la esistenza di un diritto generale

ed inderogabile di parità di trattamento; in particolare, le norme indicate dalla Corte Cost.:

- art. 37 Cost., - artt. 15 e 16

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Scienze giuridiche IUS/07 Diritto del lavoro

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