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SANDRO PENNA
E’ il grande paradosso della poesia del ‘900 perché è un poeta che
sfugge alle categorie tradizionali della poesia ma con la sua poesia
riesce a costruire la cosa più importante del ‘900: un’idea moderna
di poesia.
Nasce a Perugia nel 1906 e muore nel 1977, attraversa quindi tutto
il ‘900. Vive a Roma dove conosce poeti e scrittori come Moravia,
Montale e Saba. Scrive molto ma non lavora per raccolte come fa
ad esempio Montale ma ragiona piuttosto come un pittore come se
le poesie fossero dei quadri senza connessione l’una con l’altra.
E’ un poeta “semplice” ma di una semplicità per niente ingenua la
cui limpidezza finisce per essere più “difficile” di tanto complicato
ermetismo.
Nella poesia “La vita è ricordarsi di un risveglio” che apre la raccolta
“Poesie” del 1973 il poeta prova a fare la cosa più difficile del
mondo: raccontare cos’è la vita e dice che la vita è la memoria di un
risveglio; i risvegli sono sempre qualcosa di gioioso nella nostra
esperienza ma aggiunge subito qualcosa che non ci aspettiamo
perché è un risveglio triste. Quindi quello che ci sembra la luce
massima all’improvviso si chiude in un’immagine triste e dolorosa e
scropriamo che il poeta è su un treno all’alba e si risveglia dopo
aver viaggiamo tutta la notte.
La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa e fuori
un mare tutto fresco di colore.
Prosegue dicendo che la vita è ricordarsi di aver veduto la luce
dell’alba che però è una luce incerta; ci troviamo quindi
psicologicamente in un luogo che non è più notte ma non è
neanche ancora giorno. E’ il luogo della poesia, è quell’interstizio
tra la vita e la morte dove la poesia può insinuarsi e raccontare
qualcosa.
Continua la descrizione della vita che, oltre al ricordo di aver veduto
la luce dell’alba, è anche ricordarsi di aver sentito nel corpo rotto
dalla stanchezza del viaggio una malinconia.
La malinconia è diversa dalla nostalgia, è qualcosa di più perché la
nostalgia è aver perso qualcosa che però sappiamo che
ritroveremo, la malinconia invece è un desiderio per qualcosa che
abbiamo perso e di cui non abbiamo nemmeno il ricordo.
Questa malinconia è connotata da due aggettivi: è vergine e aspra,
entrambi si riferiscono però anche all’aria infatti la malinconia è
pura come l’aria del mattino ma anche pungente.
Se la prima strofa offre un’idea precisa di cosa sia la vita, la
seconda, che si apre con l’avversativa “ma”, contiene uno sviluppo,
una spiegazione: ricordarsi la liberazione dalla malinconia, dal
risveglio triste è più dolce e si affaccia uno dei temi della poesia di
Penna: la pederastia, l’innamoramento per i ragazzi, in una chiave
di lettura tipica della cultura greca.
C’è un giovane marinaio accanto al poeta con la divisa azzurra e
bianca, i colori del cielo al mattino; c’è stata quindi un’evoluzione
temporale: il tempo della notte e diventato l’alba e l’alba è diventata
mattino con i colori del cielo e del mare che sono i colori della vita.
Penna è il grande poeta lirico del ‘900: il lirismo è la parola chiave
che permette di definirlo, è il lirismo di saper vedere la vita come
luce, come amore, come elemento sorgivo.
In una lettera scritta prima di morire Penna scrive che molti critici
hanno parlato delle tragedie della sua vita ma che lui in realtà di
tragedie non ne ha vissute; è come dire che la vita che ha vissuto e
cantato nella sua poesia è incomparabile. Nella poesia di Penna c’è
una grande serenità, c’è la certezza che gli esseri umani possono
vivere serenamente questa vita.
Il verso che chiude la lirica “Sole senz’ombra su virili corpi”
“Ma il peccato non esiste più” potrebbe essere tacciato di amoralità
(del resto la poesia offre un’immagine erotica di sensi che si
risvegliano e come isolotti emergono dal mare del sonno) ma in
realtà se capiamo che non deve passare giorno senza che abbiamo
conosciuto, capito e amato la realtà, se capiamo che non possiamo
vivere con il risentimento, se capiamo che non possiamo vivere se
non amando, allora il peccato, che è negare la vita, non può
esistere.
Sole senz’ombra su virili corpi
abbandonati. Tace ogni virtù.
Lenta l’anima affonda – con il mare –
entro un lucente sonno. D’improvviso
balzano – giovani isolotti – i sensi.
Ma il peccato non esiste più.
D’ANNUNZIO
La storiografia colloca D. tra poeti decadenti accostandolo a poeti
molto diversi da lui come Huysmans e Wilde e ciò ci può far
incorrere nell’errore di considerarlo una sorta di dandy italiano. In
realtà D. come anche Pascoli sono realmente i fondatori della
nostra modernità, sono poeti pienamente novecenteschi non solo
anticipatori del ‘900.
Dal punto di vista strettamente anagrafico D. muore nel 1938 quindi
vive i momenti tragici e salienti del primo ‘900: la prima guerra
mondiale e l’ascesa del fascismo. Alcune delle sue opere in prosa
IL PIACERE e L’INNOCENTE e in poesia IL POEMA
PARADISIACO sono della fine dell’800 ma le sue prove migliori
quindi in poesia i 3 libri delle LAUDI (Elettra, Maia e Alcyone) e i
romanzi FORSE CHE Sì FORSE CHE NO e NOTTURNO sono del
‘900. Chiaramente i dati anagrafici non sono sufficienti a renderlo
un poeta della modernità ma le sue idee poetiche, i temi e la qualità
della sua scrittura lo allontanano dal decadentismo.
Una poesia come “Un ricordo” tratta dal Poema Paradisiaco non
può non sembrarci moderna.
Io non sapea qual fosse il mio malore
né dove andassi. Era uno strano giorno.
Oh, il giorno tanto pallido era in torno,
pallido tanto che facea stupore.
Non mi sovviene che di uno stupore
immenso che quella pianura in torno
mi facea, cosí pallida in quel giorno,
e muta, e ignota come il mio malore.
Non mi sovviene che d’un infinito
silenzio, dove un palpitare solo,
debole, oh tanto debole, si udiva.
Poi, veramente, nulla piú si udiva.
D’altro non mi sovviene. Eravi un solo
essere, un solo; e il resto era infinito.
Il componimento si inserisce nel solco della tradizione, è un sonetto
ed è in endecasillabi, il metro per eccellenza della tradizione lirica
italiana e lo schema delle rime è molto chiaro e razionale, la
musicalità che si produce non ha nulla di decadente anzi è
estremamente razionale e tradizionale. Il sonetto si apre con una
dichiarazione di assoluta ignoranza “io non sapea” e in questa
totale non conoscenza l’unica realtà conosciuta è il malore. Il
malore è qualcosa di più del “sentirsi male”, è qualcosa che si
avvicina ad una parola chiave del ‘900 che è ANGOSCIA che è uno
dei temi dell’esistenzialismo di Heidegger e, in altra forma, di
Sartre. L’angoscia è una strana nausea che prende dentro e D. lo
dice chiaramente “era uno strano giorno” quindi all’interno di una
struttura razionale c’è qualcosa di altamente ipnotico, un malessere
di cui il poeta non ha razionalità, all’interno di una scrittura
tradizionale troviamo un tema nuovo e moderno quello del malore e
dell’angoscia.
Nel secondo verso troviamo una “strana” espressione: “tanto
pallido” è strana perché non è facile stabilire cosa sia tanto o poco
pallido. Quando Dante nella Vita Nova deve descrivere il pallore
usa una vasta gamma di colori e anche noi con pallore intendiamo
una perdita di colore ma quando si impallidisce l’incarnato può
assumere colorazioni diverse. Quindi il tanto pallido è
un’espressione ambigua proprio come malore e dire tanto pallido è
come dire tanto incerto. Allora l’unica certezza rimane il malore che
è qualcosa di così inenarrabile da diventare stupore.
Il primo verso della seconda quartina si apre con “Non mi sovviene”
chiaramente legato al “non sapea” dell’incipit. Il sapere è
strettamente legato alla memoria, possiamo dire che il sapere è la
memoria, quindi abbiamo un’ulteriore perdita di conoscenza rispetto
a prima e ciò che rimane è solo lo stupore che è diventato immenso
e fa vacillare, non fa capire più nulla. E in questo disorientamente
compare la pianura che è totale desertificazione di tutto quello che
c’è fuori di noi, è la perdita di senso, è il Novecento. Lo stupore non
è più dato da qualcosa che è in noi, dal malore ma dalla pianura da
ciò che non si vede, che non si distingue.