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Il fallimento di alcune delle maggiori operazioni di pianificazione (primariamente il
piano di Roma del 1962, come si riferirà più avanti), la conseguente diffusione
pervasiva dell’abusivismo, lo sviluppo dell'urbanistica contrattata» negli anni Ottanta e
poi la crisi politica della Prima Repubblica negli anni Novanta (molte vicende di
corruzione ruotano intorno ai progetti di trasformazione urbana) contribuiscono allo
screditamento attuale della materia urbanistica.
La politica sembra progressivamente posizionare in secondo piano nei suoi programmi
la visione urbanistica generale, in quanto i tempi brevi dell’azione di governo non sono
compatibili con le finalità dell’azione urbanistica, tradizionalmente di media-lunga
durata.
Nella cittadinanza si diffondono sentimenti di indifferenza, quando non di aperta
ostilità.
L 'attenzione per il paesaggio e le sue modificazioni, per l’ambiente e per la
«sostenibilità» sono temi sempre più avvertiti. L'attenzione, però, rimane a livello
epidermico: si esprime nostalgia per le città e la campagna di una volta o per la natura
incontaminata e ci si accontenta del risparmio energetico o della ricerca del cibo
biologico. Ma si ignorano, o sono comunque trascurati, i contesti insediativi in cui
un’opera architettonica si colloca o i processi che portano alle decisioni sulle
trasformazioni urbane, che pure incidono significativamente sulla qualità di vita di
tutti.
L’obiettivo del libro è quello di mettere in risalto in maniera istruttiva molti errori che
hanno condotto alla situazione attuale, ma anche i possibili punti di riferimento per
concepire qualche concreta speranza di un futuro diverso e migliore
Anni 60-80
La difficoltà principale, non collocata nella progettazione del piano ma nel passaggio
dal progetto all'esecuzione, sfuggiva allora a quasi tutti noi. L’insistenza sugli aspetti
formali del disegno e sui risvolti politico-sociali delle previsioni urbanistiche (la cui
interpretazione creava contrapposizioni insolubili) non permettevano di cogliere
l’elemento di vulnerabilità dell’intera operazione pianificatoria. Le leggi affidavano il
processo attuativo ai «piani particolareggiati»
A Roma negli anni 60 mentre tardavano le iniziative conformi al piano sull’intero
territorio comunale crescevano le lottizzazioni illegali, in misura tale da scoraggiare
ogni eventuale repressione futura e rendere irrealizzabile qualunque versione delle
previsioni vigenti. L’illegalità urbanistica, da quegli anni in avanti, diventa un fatto
pubblico, non punito e non tenuto nascosto. Dal 1976 in poi la maggior parte di quelle
lottizzazioni vengono «legalizzate» e da allora compaiono nei nuovi piani come «aree da
ristrutturare»; ma è noto che il disordine originato dalle prime occupazioni del suolo
può essere modificato in seguito solo marginalmente. Un'espansione abusiva di tali
proporzioni, in una grande città, non ha paragoni in Europa; e si ripete in scala ridotta
anche in molte città italiane, soprattutto del Meridione. Ma viene alla luce solo quando
è accompagnata da eventi catastrofici come la frana di Agrigento del 1966. La fiducia
nella cultura urbanistica tradizionale viene meno allora in modo irrefutabile
La speranza di una ripresa avviene con le esperienze specifiche di alcune
amministrazioni locali, come a Como, Bologna, Brescia, Modena, Ferrara e Urbino che
hanno cercato di affrontare in modo più efficace le sfide urbanistiche dell'epoca.
Queste città hanno tentato di integrare gli aspetti tecnici ed amministrativi nella
pianificazione urbana, ottenendo risultati positivi e servendo da modello per altre
realtà urbane. Purtroppo l’impulso politico da cui dipendevano: la ricerca di un
possibile consenso alternativo alle rivalità politiche consolidate del dopoguerra, è
venuto meno dopo il rapimento di Aldo Moro (1978) così rapidamente da non lasciar
sussistere la speranza della ripresa.
Parallelamente a queste vicende, dal 1970 si assiste a un cambiamento di grande
rilevanza: viene attuato il titolo V della Costituzione, che specifica l'ordinamento
amministrativo della Repubblica, e vengono istituite le Regioni a statuto ordinario.
L’urbanistica è inserita, insieme a molte altre discipline più o meno rilevanti, in un
elenco di settori di esclusiva competenza regionale, aprendo di fatto la stagione
immediatamente successiva delle leggi regionali in materia. La direzione urbanistica
nazionale presso il ministero dei Lavori Pubblici viene sciolta, sancendo di fatto la
scomparsa – una volta per tutte – della materia urbanistica dai programmi della
politica nazionale. L’Italia, differenziandosi in questo dalla migliore tradizione europea,
rinuncia ad un ruolo di coordinamento nazionale delle politiche urbane e addirittura
trascura di elaborare una legge quadro di principi (rimane ancora la legge 1150 del
1942) a cui si debbono attenere le legislazioni regionali che, da allora in poi, evolvono
ciascuna per la propria strada.
Due vicende emblematiche
- Il terremoto in Abruzzo
Il 6 aprile 2009, in seguito ad uno sciame sismico durato parecchie settimane, un forte
terremoto colpisce una vasta porzione del territorio abruzzese, interessando in
particolare L’Aquila e i centri circostanti con conseguenze tragiche.
Quello del 6 aprile è il primo evento sismico, dopo il terremoto di Messina, che abbia
interessato direttamente un capoluogo e gli effetti sono stati particolarmente pesanti:
circa 8 mila edifici gravemente danneggiati nel solo territorio comunale dell’Aquila, tra
cui oltre il 25% nel nucleo storico della città. Nei giorni immediatamente successivi al
sisma sono state organizzate, come di consueto, le tendopoli per i senza tetto ma nelle
settimane successive è emersa una novità rispetto all’esperienza degli ultimi terremoti
che hanno colpito il nostro paese: si è vagheggiata l'adozione della soluzione delle new
towns
palazzine, costruite con criteri innovativi di resistenza alle sollecitazioni sismiche e
definite significativamente durevoli (né provvisorie né definitive) dai responsabili del
programma. Si tratta in sostanza, più che di new towns, di quartieri di espansione
collocati a ridosso delle frazioni, nelle aree libere tra queste e la città:
un’accentuazione, forse inconsapevole, del carattere policentrico dell’insediamento
aquilano.
In Abruzzo, finita la fase della prima emergenza e della realizzazione dei quartieri
«durevoli» gestita direttamente dalla Protezione Civile nazionale, è stata restituita la
competenza per la ricostruzione alle amministrazioni locali. Il centro storico è tuttora
delimitato come «zona rossa», abbandonato a sé stesso, e la ricostruzione è ancora da
cominciare e immaginare:
L’intera vicenda del terremoto abruzzese è stata caratterizzata da una singolare
assenza di dibattito culturale. Persino i partiti di opposizione nell’ultimo governo
Berlusconi, al di là delle consuete prese di posizione sui risvolti giudiziari connessi con
la ricostruzione, non hanno ritenuto necessario alimentare un dibattito intorno alle
scelte da compiere per la ricostruzione dei centri urbani abruzzesi, confermando una
volta di più il disinteresse generale per i temi della pianificazione territoriale