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L'ITALIANO COME LINGUA D'ÉLITE
L'interesse manifestato dai riformatori del Settecento per l'insegnamento scolastico dell'italiano non produsse, ovviamente, risultati rivoluzionari e immediati al livello della popolazione di ceto più basso. L'uso della lingua italiana continuò, anche in questo secolo, ad essere in sostanza un fatto d'élite. Il toscano era pur sempre una lingua d'occasione, adatta alle situazioni ufficiali, ai libri, ma poco adatta alle situazioni familiari, alla conversazione, ai rapporti confidenziali, alla divulgazione. Deborah Medici 60 Lo spazio della comunicazione familiare era sostanzialmente occupato dai dialetti, e quando non bastavano i dialetti, si doveva ricorrere ad una lingua che Giuseppe Baretti ha abilmente descritto. "Dov'è la città, la corte, il luogo in Italia, nel quale si parli con qualche soltanto mediocre correttezza, brio, varietà, esclusività di".Vocaboli e di frasi? In ciascuna terra nostra, dalla Novalesa appiè dell'Alpi giù sino a Reggio di Calabria, v'ha un dialetto particolare, di cui ogni rispettivo abitante, sia grande, sia piccolo, sia nobile, sia plebeo, sia dotto, non lo sia, fa costantemente uso nel suo quotidiano conversarci sì nella propria famiglia che fuori. E quando accade che qualcuno voglia appartarsi dagli altri favellando, a qual spediente s'ha egli ricorso? Aimè, ch'egli toscaneggia quel suo dialetto alla grossa, alla grossa bene! E non s'avendo fregata di buonora la memoria colla studiata lettura de' nostri buoni scrittori, viene a formare una lingua arbitraria, perché senza prototipo: una lingua tanto impura e difforme e bislacca sì nelle voci, sì nelle frasi, sì nella pronuncia, che fa pur d'uopo, sentendola, ciascuno si raccapricci, o abbrividi, o frema, se possiede il minimo tantino di quella cosa, che
già dissi, chiamata gusto di lingua". Probabilmente, Baretti esagerava il problema, sensibile com'era a questioni stilistiche, ancor prima che linguistiche. Difatto, però, questa sua testimonianza va d'accordo con altre, anche cronologicamente più tarde, ad esempio con quella di Ugo Foscolo, che parla di un "linguaggio mercantile" e "itinerario" usato da coloro i quali, come i mercanti, erano abituati a muoversi nelle varie regioni italiane. Osserva Foscolo che l'uso di una lingua non dialettale nella propria patria avrebbe rischiato di creare problemi di comprensione, o sarebbe stata considerata un'"affettazione di letteratura". Alessandro Manzoni, da parte sua, descrive i caratteri del cosiddetto "parlar finito", la lingua ritenuta elegante, che consisteva appunto nell'usare le parole che si supponevano italiane e nell'aggiungere finali italiane alle parole dialettali terminanti.per consonante. La lingua italiana, dunque, così come aveva affermato Baretti, si prestava poco alla conversazione naturale, perché era scritta ma poco parlata, ad ogni modo parlata come qualcosa di artificiale, di estraneo alla vivace comunicazione quotidiana spontanea e familiare. Solo i Toscani si trovavano in posizione di vantaggio, perché, nella loro regione, lingua scritta e lingua parlata coincidevano quasi perfettamente.
Nelle città e nelle campagne del Settentrione e del Mezzogiorno, nel Settecento si parla di regola in dialetto. Ciò vale non soltanto per i popolani, ma anche per i borghesi e per i nobili. Solo eccezionalmente la lingua della conversazione è l'italiano venato di dialetto; nelle occasioni più solenni (orazioni, prediche, arringhe e simili) predomina l'italiano quale si scriverebbe, cioè una lingua di tipo letterario e di registro alto.
Questa situazione era tale da far nascere il vero e proprio topos,
secondo il quale la lingua italiana non poteva essere classificata appieno tra le lingue vive, o addirittura era da classificare tra le morte.
Non mancano interessanti eccezioni alla marginalità culturale del dialetto: nei tribunali veneti, ad esempio, le arringhe si fanno in veneto illustre o anche, all'occorrenza, in un italiano misto di veneto, di cui Goldoni ci ha lasciato un interessantissimo esempio nella commedia L'avvocato veneziano. Ecco l'inizio di un'arringa dell'avvocato veneto Casalboni in risposta all'avvocato bolognese Balanzoni, nella finzione scenica goldoniana:
"Gran apparato de dottrine, gran eleganza de termini ha messo in campo el mio reverito avversario; ma, se me permetta de dir, gran disputa confusa, gran fiacchi argomenti, o per dir meglio, sofismi. Responderò col mio veneto stil, segondo la pratica del nostro foro, che vai a dir col nostro nativo idioma...".
Si noti il continuo passaggio dall'uno
All'altro codice, l'insinuarsi del codice dialettale nella lingua, con articoli e preposizioni venete (el, de), sonorizzazioni settentrionali (segondo secondo) con l'esito veneto di LJ latino (meggio), qui reso con un'improbabile doppia g grafica. Anche nel Settecento, come nelle epoche precedenti, è dato reperire scritture popolari, di semicolti, nelle quali si ha modo di osservare un uso assai difettoso della lingua scritta, mal conosciuta. Come sempre, questo tipo di situazione comunicativa darà luogo a interferenze del codice dialettale con quello dell'italiano.
Alcuni esempi di italiano settecentesco appartenenti al genere epistolare, hanno un gustoso sapore popolare, e assieme alle notazioni di diario e ai quaderni di conti familiari, costituiscono la fonte prima di testi di questo ambito. Un italiano di tipo regionale e popolare si rintraccia anche in altre scritture tipiche di questo secolo, prima inesistenti: gli annunci.
commerciali sulle gazzette, sempre ricchi di parole locali. Anche negli articoli di cronaca giornalistica si rintraccia un italiano di livello assai modesto, caratterizzato da tratti popolari.
IL LINGUAGGIO TEATRALE
Altri elementi che favorirono il contatto degli incolti con la lingua italiana furono il teatro dell'arte il quale fu prevalentemente dialettale, ma in cui non mancavano inserti in lingua che venivano inseriti nelle parti in dialetto.
Il successo dell'opera italiana è nel Settecento molto grande, anche all'estero. Le tournées dei virtuosi italiani portano l'opera cantata in italiano presso pubblici eterogenei, per lo più ignari della lingua, ma capaci di intendere l'espressione musicale e drammatica. È una nuova ondata di italianismo centrifugo, ma un'onda che fa dell'italiano della diaspora teatrale-musicale la lingua europea del melodramma e del canto.
Intanto, il francese si affermava come organo della
cultura europea in domini ben più sostanziali della vita quotidiana ed intellettuale. Questo successo della lingua italiana nell'opera per musica contribuì in maniera sostanziale a fissare lo stereotipo dell'italiano come lingua della dolcezza, della cantabilità, della poesia, dell'istinto, della piacevolezza.
L'italiano è la lingua delle maschere e dei buffoni, in contrapposizione al francese, lingua della razionalità e della chiarezza, stereotipo che non era difficile volgere a sfavore dell'idioma italiano, in un secolo in cui la poesia ricopriva in fondo un ruolo marginale e in cui le novità più importanti venivano dalla prosa, spesso di tipo tecnico.
Laddove era necessario usare tecnicismi di qualunque tipo, immediatamente l'italiano entrava in crisi, e ciò poteva accadere non solo quando si affrontavano questioni di economia o di scienze naturali, ma persino nel caso in cui fossero in questione i
tecnicismi artistici, come quelli della nuova arte del melodramma. Molti trattatisti, specialisti dei più svariati campi del sapere, erano costretti a introdurre la terminologia del proprio settore con dichiarazioni di scusa di questo tenore, indirizzate agli Accademici della Crusca, quando non preferivano, come gli illuministi del Caffè, prendere di punta l’Accademia di Firenze. Nella sua forma positiva, invece, il giudizio sul linguaggio del melodramma portava anche all’estero una valutazione favorevole delle opere italiane. Il linguaggio dell’opera influenzò anche l’italiano imparato da alcuni stranieri: celebre è il caso di Voltaire, che scrive lettere in cui entra lessico melodrammatico e aulico. Quanto ai paesi di lingua tedesca, l’italiano, già ampiamente diffuso a Vienna, a Dresda e a Salisburgo, ebbe un nuovo successo con il trionfo dell’opera italiana a Vienna, con Pietro Metastasio. Benché si ritrovinonell'opera di Goldoni alcuni accenni al problema della lingua, non si può certo dire che egli ne fosse assillato. Eppure la rappresentazione scenica richiedeva, nella situazione italiana, uno sforzo notevole di approssimazione. Non esistendo in Italia una vera lingua comune di conversazione, un autore teatrale che volesse simulare il parlato senza imparare la lingua toscana viva era costretto o a ricorrere al dialetto, oppure a impiegare una lingua mista, in cui entrassero elementi diversi, dialettismi, francesismi, modi colloquiali di vario tipo. Goldoni optò via via per l'una o l'altra soluzione: scrisse opere in dialetto veneziano, in italiano, ed infine scrisse anche in francese, essendosi trasferito a Parigi. Il suo francese è stato giudicato una lingua formalmente imperfetta, da un punto di vista ortografico, ad esempio, ma assai vivace e adatta alla scena, cosa non da poco per un autore trasferitosi oltralpe in età matura. Goldoni nonambì mai adessere un teorico dei problemi linguistici del teatro. Dedicò semmai a questo tema meno spazio di quanto sarebbe stato legittimo aspettarsi. Nella presentazione della raccolta delle proprie opere toccò comunque la questione: «Quanto allalingua ho creduto di noni dover farmi scrupolo d'usar molte frasi, e voci Lombarde, giacché ad intelligenza anche dellaplebe più bassa, che vi concorre [al teatro] principalmente nelle Lombarde Città dovevano rappresentarsi le mie Commedie. Ad alcuni vernacoli Veneziani, ed a quel-le di esse [commedie] che ho scritte apposta per Venezia mia Patria, sarà in necessità di aggiungere qualche notarella, per far sentire le grazie di quel vezzoso dialetto a chi non ha tutta la pratica. Il Dottore che recitando parla in lingua Bolognese, parla qui nella volgare Italiana». Come si può notare, l'uso del dialetto, che in scena non costituisce un problema.richiede qualche temperamento in occasione della trasposizione scritta, a stampa, delle commedie. Sparisce il tradizionale bolognese del dottore avvocato; il dialetto veneziano resta, macorredato di una serie di chiose per fare intendere anche ai non veneti certe particolarità che altrimenti andrebbero perse. È così che vengono spie