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TERZA OBIEZIONE CONTRO LA GIUSTIZIA DI DIO: DA DOVE VIENE LA DIFFERENTE DISTRIBUZIONE DEL BENE DI DIO?
Se alla buona condotta non dovesse seguire alcun benessere si avrebbe quella contraddizione tra natura e moralità che ci porterebbe a vedere quest'ultima come una chimera, un'idea esagerata della nostra ragione. L'esperienza ci mostra che non sempre seguire i doveri morali porti al benessere, anzi la virtù viene oscurata dal vizio. Deve esistere perciò un essere che governi il mondo secondo la ragione e le leggi morali e che abbia stabilito uno stato in cui la creatura che non si è lasciata abbagliare dall'uccichio della sensibilità possa essere degno di felicità e diventare partecipe, altrimenti tutti i doveri che io come essere razionale compio perderebbero la loro oggettività = quindi Dio come Postulato necessario.
Kant ora considera la terza obiezione che riguarda la giustizia divina: Dio è veramente giusto? Per quale motivo avviene una distribuzione del bene così diversa?
motivo l'uomo che si comporta correttamente non riceve già la sua quota di benessere sulla Terra?- Kant sostiene che essere virtuosi è il premio per la virtù stessa. L'uomo che vive virtuosamente è un individuo in pace con la sua coscienza, e questo gli dà già benessere. Poi, certo, gli potranno capitare dei mali: ma il fatto di sapere di essere virtuoso lo rende felice. Questo non è un movente eteronomo, è una conseguenza dell'agire morale corretto. Già questo dà un soddisfacimento di tipo razionale. L'uomo che agisce moralmente sopporta tutta la sofferenza che la legge morale gli impone perché il fatto stesso di avere rispettato una legge sovrasensibile e necessaria e di essere stato in grado di frenare gli impulsi patologici lo fa sentire un essere in sé sublime, degno e superiore a tutti coloro che sono viziosi.
Constatiamo una sproporzione. È vero che nel caso dell'uomo vizioso molto spesso è più evidente il benessere che lo circonda. L'uomo vizioso infatti è molto più facile da individuare tra le persone: si rende più manifesto. La virtù invece è sommessa, vissuta interiormente. L'uomo vizioso vive esteriormente ed è quest'ultimo che rende più manifesta la sproporzione tra il premio che il virtuoso sembra non avere ma ha in sé stesso e quello materiale che invece il vizioso ha.
2. Kant introduce qui un altro autore per sottolineare che secondo lui anche nella coscienza morale dell'uomo vizioso c'è una voce recondita. Si sta riferendo al neoplatonico moralista inglese Lord Shaftesbury, "Saggio sulla virtù e il merito". La ragione del vizioso gli confessa che è un farabutto, lo tormenta attraverso dei rimproveri e tutta la sua fortuna è illusoria.
Ovviamente non possiamo essercerti: l'unico essere che può vedere nell'intimo della coscienza degli uomini è Dio. Noi vediamo solo molti viziosi che forse sono interiormente tormentati ma vivono nel benessere. Rimane dunque il fatto che constatiamo una sproporzione retributiva tra bene e male. 3. Dobbiamo trovare un'altra spiegazione forse più fondata sulla ragione della ragione per cui non possiamo attribuire a Dio la responsabilità dell'ingiustizia. Come si risolve dunque il problema? Se volessimo trovare una giustizia su questa Terra che premi il virtuoso perché segue la legge morale, e desiderassimo questa compatibilità tra virtù e ricompensa immediata non agiremmo più attraverso il precetto della legge morale, ma attraverso una regola prudenziale dell'aspirazione alla felicità. Chi si comporta in maniera virtuosa non deve farlo per aspettarsi una ricompensa. Agiremmo in modo soltantoapparentemente morale. Il fatto che ci sia una sproporzione sulla terra dimostra che ci sono individui che la legge morale la seguono. La mancanza di retribuzione dipende poi dalla storia. Ciò che capita, capita: dobbiamo curarci soltanto di quello che dipende dalla nostra autonomia. Io divento virtuoso nel momento in cui combatto contro un impulso patologico. Io devo essere un essere desiderante privo di questa felicità assoluta. Se sono già colmo di benessere, non posso comportarmi moralmente: se non provo desideri, cosa sottometto con la legge morale? Questa sproporzione è in definitiva una condizione che permette la realizzazione della virtù sulla Terra. La virtù consiste nel rinunciare alla propria quiete e ai propri vantaggi in base alle obbligazioni della legge morale: tale virtù è degna di una ricompensa futura. La natura e la certezza delle fede morale: la fede come postulato pratico necessario. La probabilità può
valida, ma non possiamo dimostrarne l'esistenza in modo oggettivo. 2) La convinzione pratica, invece, si basa sull'esperienza e sulla testimonianza di altre persone. Possiamo credere nell'esistenza di Dio perché vediamo i suoi effetti nel mondo e perché ci sono persone che affermano di aver avuto esperienze personali con lui. In conclusione, non possiamo dire con certezza se Dio esista o meno. La conoscenza di Dio può essere solo probabile o basata sulla convinzione personale.1) La ragione teoretica da sola non può dimostrare l'esistenza di Dio, è necessaria una ragione pratica per farlo.
2) La convinzione pratica è ciò che serve a dimostrare l'esistenza di Dio.
Un presupposto basato su fondamenti soggettivi è solo un'ipotesi.
Un presupposto basato su fondamenti oggettivi è un postulato necessario.
Questi fondamenti oggettivi possono essere teorici, come nella matematica, o pratici, come nella morale.
Gli imperativi morali si basano sulla natura dell'essere umano come creatura libera e razionale e possiedono l'evidenza delle proposizioni matematiche.
Un postulato pratico necessario della nostra conoscenza pratica è come un assioma riguardo alla nostra conoscenza speculativa: Dio è un postulato pratico necessario.
La teologia morale serve a dimostrare la certezza dell'esistenza di Dio e ci conduce alla religione legando il nostro pensiero di Dio alla nostra moralità.
La fede morale non consiste nel fatto che le opinioni abbiano
luogo solo come ipotesi, cioè come presupposti che si fondano su fenomeni contingenti: se dalla contingenza del mondo si conclude a un autore del mondo questa è solo un'ipotesi, un'opinione per quanto altamente probabile. I presupposti della fede morale nascono da dati necessari e non sono opinioni ma ordini a una saldissima fede. Questa fede non è un sapere, noi non possiamo sapere ma dobbiamo credere che ci sia un dio. Se potessimo essere certi grazie all'esperienza che ci sia un dio ogni moralità sarebbe soppressa e prenderebbe il sopravvento al posto dei motivi morali, la speranza di una ricompensa e la paura di una punizione. L'uomo così sarebbe virtuoso in base a impulsi sensibili. La giustizia divina La giustizia può essere divisa in remunerativa e punitiva secondo cui dio ricompenserebbe il bene e punirebbe il male. 1. Giustizia remunerativa: ma le ricompense di dio non derivano dalla sua giustizia bensì dallasuabontà: se le ottenessimo dalla sua giustizia non sarebbero dei premi gratuiti ma avremmo il diritto diesigerle e dio sarebbe obbligato a darcele. Noi osservando le leggi morali facciamo solo il nostro doveree non dobbiamo aspettarci per questo una ricompensa dalla giustizia di dio, non abbiamo nessun dirittoalle ricompense. In dio dunque non vi è alcuna giustizia remunerativa nei nostri confronti e lericompense derivano solo dalla sua bontà. 2. Giustizia punitiva: la sua giustizia si occupa solo di punizioni. Queste pene si suddividono in: CORRECTIVE, EXEMPLARES oppure VINDICATIVAE. Uninnocente non può essere punito come esempio per gli altri senza che egli stesso abbia meritato lapunizione. Le pene correttive hanno come scopo il miglioramento del soggetto e quelle EXEMPLARES vengono inflitte come ammonimento ad altri oltre che ai colpevoli. Al tempo stesso queste pene però devono essere vendicatrici. Questo termine non si addice a dio poiché inlui non può essere pensata una vendetta poiché essa presuppone una sensazione di dolore e il desiderio di fare qualcosa di simile a chi ci ha offeso. Quindi le punizioni della giustizia divina a causa dei peccati commessi si possono riferire alla justitia distributiva, una giustizia che limita la bontà nella distribuzione secondo le leggi della santità. Le prime due pene sono più che altro atti di bontà in quanto promuovono ciò che è meglio per il singolo uomo che deve essere corretto, o per il popolo intero a cui la punizione deve servire da ammonimento. Mentre le ultime sono il proprium della giustizia divina: La giustizia divina infliggerà delle pene al criminale per punire l'atto con il quale ha trasgredito le leggi e si è reso indegno della felicità, e non perché tramite ciò venga raggiunto ciò che è meglio per lui o per altri. Per poter comprendere e apprezzare queste pene,l’uomo deve riflettere sulla propria esistenza: essediventeranno chiare solo considerando l’intera esistenza e da qui ritroviamo l’idea di un GIUDIZIO UNIVERSALE che renderà il genere umano consapevole del modo in cui si sia reso degno o indegno di una felicità. Al tempo stesso la coscienza metterà l’uomo di fronte alla sua vita e lo convincerà della giustizia della sentenza. LONGANIMITA’: egli esegue la punizione del male solo dopo aver preventivamente dato all’uomo un’occasione per correggersi, ma dopo di che la sua punizione sarà inesorabile. Non si può pensare a un giudice che perdoni. All’uomo è sufficiente potersi aspettare che la bontà divina in questa vita dia la capacità di osservare le leggi della moralità per divenire degni. IMPARZIALITA’: non può essere un attributo che viene predicato di dio in modo particolare perché nessuno può dubitare.della sua imparzialità gli spetti: essa è già contenuta nel concetto di un dio santo. L'imparzialità divine consiste nel fatto che dio non ha nessun favorito Dio perché ciò presupporrebbe una preferenza.