MERCI E CAPITALI
1. La crisi del 1973
Questo capitolo mette in scena i mostri peggiori della globalizzazione: banche e finanza, compagnie multinazionali, merci e consumi di massa,
inquinamento dell’ambiente. Dalla fine del secondo conflitto mondiale a oggi ognuno di questi processi ha conosciuto periodi di stasi, inversioni di
tendenza. Per le economie occidentali la cosiddetta età dell’oro durò dal 1945 al 1973 e si svolse all’insegna dell’egemonia degli Stati Uniti. Tra i fattori
che la resero possibile vi furono gli accordi di Bretton Woods del 1944, i quali stabilirono l’adozione del gold dollar standard: un sistema monetario
internazionale basato sulla convertibilità a tasso fisso del dollaro in oro.
L’età dell’oro interessò anche l’URSS e il blocco dei suoi paesi satelliti: ebbero infatti un aumento di nove volte dei commerci e di due volte
della produzione, non dissimili a quelli occidentali. Africa, Asia e America Latina crebbero allo stesso ritmo. A preparare la fine
dell’età dell’oro furono in primo Lugo gli stessi fattori che l’avevano fatta crescere: nuove potenze economiche come il Giappone e la
Germania incrinarono la solitaria sicurezza della leadership USA. Si accelera allora un processo di finanziarizzazione
dell’economia globale destinato a perdurare fino ai nostri giorni.
3 La crisi dell’impero americano. Si parlò allora di una crisi dell’impero statunitense, ma la finanza continuò la sua corsa: dal 1973 al 2004,
mentre il Pil mondiale si triplicava, la media di denaro scambiato ogni giorno sul mercato crebbe da 15 a 1.900 miliardi di dollari. A
gonfiare questa bolla di carta sempre più svincolata dalla ricchezza reale erano sopratutto i derivati, ossia prodotti finanziari legati a
scommesse sul corso dei titoli azionari, quotazioni di valute e altre variabili del mercato. I guadagni non ricadevano più sull’intero
corpo sociale in termini di nuovi posti di lavoro, ma restavano appannaggio di una ristretta cerchia di investitori. Chi manovrava questo
denaro?
Alla metà degli anni ’60 vennero svelate diffuse pratiche di corruzione nei confronti di funzionari di governi stranieri ad opera di compagnie
multinazionali con sede nel paese, che nel 1977 divennero oggetto di sanzione penale con il Foreign Practices Act. Ma lo shock
petrolifero del 1973 arrestò bruscamente l'ascesa delle multinazionali con sede negli Stati Uniti.
È chiaro che da tutto ciò banche, società finanziarie e fondi di investimento guadagnano moltissimo. Ma tutti noi non ce ne avvantaggiamo
ameno un po in termini di quei servizi sociali che siamo abituati a ritenere indispensabili e che lo Stato finanzia non solo con le
entrate fiscali, ma anche con il debito. Il fatto è che il debito, in senso stretto, è soltanto tempo che ci viene prestato: alla
fine qualcuno dovrà pagare, e se non produciamo abbastanza valore e ricchezza ripagare i debiti diventa un problema.
1. Dall’Atlantico al Pacifico
Furono le società giapponesi a investire nei territori asiatici a loro più vicini. Una crescente interdipendenza con la locomotiva giapponese favorì quindi
la rapida ascesa di alcuni popoli affacciati sul Pacifico. Città-stato storicamente dedite ai commerci come Hong Kong e Singapore, assieme a giovani
economie come Taiwan e la Corea del Sud, formarono il primo nucleo di quelli che furono definiti Nics (Newly Industrializing Countries, paesi di
recente industrializzazione), oppure tigri asiatiche.
Capitali verso Oriente. Dagli anni ’70 il baricentro produttivo del mondo si stava così spostando verso l’Oriente: sue collochiamo questi
mutamenti in un contesto di lungo periodo, vediamo che gli equilibri produttivi del mondo sembrano tornare a essere quelli precedenti la
Rivoluzione industriale, quando la produzione e il peso demografico dei vari paesi andava di pari passo. Si tratta quindi di un processo
irreversibile. Quesiti movimenti di ritorno all’origine ebbero un riscontro nella distruzione dei posti di lavoro industriali del pianeta. Nel
1960 i paesi meni sviluppati ne detenevano il 38%, ma per effetto di una crescita constante nel 2010 erano al 75%. Nelle economie dei paesi
ricchi la deindustrializzazione fu compensata dallo sviluppo del terziario.
È molto significativo, però, che le aree a basso reddito (Asia senza Giappone, Africa e America Latina) fossero interessate a tendenze analoghe,
mettendo in mostra una precoce e accelerata terziarizzazione. È anche importante sottolineare l’aspetto sistemico della globalizzazione:
come sarebbe naturale, tende ad essere più lavoro dove ci sono più uomini e donne, si conferma che gli equilibri demografici e
produttivi stanno tornando a coincidere. Ma questo fa posto a costi non indifferenti: disoccupazione e sotto-occupazione nei
paesi ricchi, sfruttamento incontrollato e inquinamento di quelli poveri.
Il ruolo della politica nella globalizzazione. E qui torna il ruolo della politica: capire che la globalizzazione non è un complotto significa
comprendere che invertirla non si può, ma governarla sì. Nel 1975 venne convocato un incontro: i capi di Stato dei sei maggiori paesi
mondiali (Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Italia, Gran Bretagna) si incontrarono a Parigi, nasce così il G6. Quell’incontro è il
documento storico di un impegno alla ricerca di soluzioni cooperative tra le nazioni.
1. Spettri neoliberisti e crisi reali
Nel dicembre 1978, a poco più di due anni dalla morte del presidente Mao Zedong, il comitato centrale del Partito comunista cinese guidato da Deng
Xiaoping avviò la politica delle quattro modernizzazioni: agricoltura, industria, scienza, difesa. Si crearono zone economiche speciali nella Cina
per sperimentare forme di cooperazione con i mercati internazionali.
Alla base della svolta del 1979 c’era la consapevolezza che neppure i modelli di comunismo realizzato dall’URSS e dall’Europa
orientale avevano diffuso tra i cittadini un benessere almeno paragonabile a quello dell’Occidente.
4 La Gran Bretagna della Thatcher. Dall’altra parte del mondo Margaret Thatcher, leader dei conservatori inglesi, nel 1979 divenne la
prima donna nella storia inglese a rivestire la carica di primo ministro, che tenne fino al 1990. In un contesto diverso da quello cinese,
Thatcher opponeva al principio di preminenza dello Stato sui cittadini l’idea di un rilancio delle spontanee forze naturali dell’economia
capitalistica, cioè appunto della ricerca del profitto da parte degli individuali. La lady di ferro impose una politica di tendenziale
cancellazione dei vincoli sindacali, privatizzate molte industrie dello Stato, dai trasporti alla telefonia. L’idea era di diminuire le
tasse sui redditi medio-alti confidando nel fatto che quei soldi sarebbero stati tradotti in investimenti . In realtà l’idea
funziona poco: i maggiori profitti regalati ai ricchi non gocciolarono verso il basso e scelsero la via della speculazione finanziaria,
inaugurando una ripresa in gran stile dell’ineguaglianza dei redditi, ferma dagli anni ’30.
Nel 1987 alla Borsa di New York i titoli azionari registrarono un crollo burro e generale, era la fine di un ciclo di rapide e facili fortune. Fu la
prima di una lunga serie di crisi che, negli Stati Uniti e altrove, mostrarono sia il potere, sia la volatilità raggiunti dal capitale
finanziario. Si comincia allora a parlare di “modello giapponese di capitalismo”, fondato su valori comunitari di
attaccamento alla nazione e alla propria azienda. Imboccando tale strada, il Giappone e poi tutti i Nics insieme alla Cina e
India mutarono gli equilibri dei commerci mondiali.
Proprio quando sembrava destinato a prendere il posto degli Stati Uniti, il Giappone va incontro a una lunga recessione che dura per tutti gli anni ’90. La
disoccupazione sale dal 2,3% al 5% nel 2000. La crisi finanziaria asiatica non fu l’ultima: alla fine del secolo la bolla speculativa colpisce Wall Street
di nuovo e in particolare la cosiddetta new economy statunitense, cioè la rete di imprese che utilizzavano Internet per vendere direttamente prodotti
ad altre aziende e ai consumatori.
Il boom e bust americano. Nella storia degli Stati Uniti non era il primo caso di ascesa e crollo delle quotazioni legate alle scommesse
finanziarie. L’esempio più significativo fu la fusione annunciato da inizio 2000 fra Time Warner e America on Line (un’azienda si
servizi per il web): nel giro di pochi anni il patrimonio di America on Line precipita da 226 miliardi a 20 miliardi, i suoi clienti da 30 milioni
dot.com
a 6 milioni, nel 2000 numerose società appena create fallirono perché non erano in grado di restituire i capitali a loro prestati,
ma fu subito dimenticato perché la borsa si riprese grazie a un nuovo campo di investimento: i mutui per abitazioni elargiti anche a
famiglie non benestanti.
Come osserva il sociologo Dahrendorf, non il Giappone ma i Nics asiatici incarnavano un nuovo modello di capitalismo senza
democrazia, diverso da quello occidentale. In quei paesi esistevano infatti forti limiti all’esercizio dei diritti civili e dell’opposizione
politica e sindacale. Nella seconda parte degli anni ’80 il modello di capitalismo senza democrazia contagia alcuni paesi limitrofi: Malesia,
Thailandia, Indonesia e Vietnam. Tale contraddizione tra sviluppo e libertà riguardava ovviamente anche la Cina: l'ascesa industriale
cinese era destinata a mutare in breve tempo gli equilibri mondiali, il dinamismo economico si accompagna al permanere di una politica
autoritaria.
1. La crisi del 2008
Nel 2008 il quadro globale muta radicalmente, basta dire che il commercio mondiale dal 2008 al 2009 crolla del 20%, segue poi un recupero veloce nel
2011, ma anche un’ulteriore caduta nel 2015, non una crisi passeggera. A indurre banche società finanziare a prestare facilmente denaro, il rischio
di non recuperarlo veniva suddiviso e ridistribuito attraverso la vendita parallela ad altri consumatori dei derivati. Così il rapporti diretto tra
creditore e debitore si smarriva in una rete di mediazioni finanziarie sempre più incrinata.
Il mercato dei mutui ipotecari (subprime). Con queste procedure il mercato dei mutui ipotecari sulla casa, chiamati subprime (ossia
seconda scelta), era salito negli anni ’90. L’idea era che la costante crescita del prezzo delle case avrebbe comunque garantito il denaro
⅔
prestato: così la percentuale dei proprietari di abitazioni raggiunge i del totale. Improvvisamente nel 2006 i prezzi delle case
iniziarono a scendere (erano sempre in ascesa dal 1990): banche e società finanziarie si accorsero allora che il loro valore non
copriva più quello del prestito erogato e cominciarono a far valere i propri crediti. Prese dal panico, banche e società bloccarono
prestiti e finanziamenti alle imprese, dando luogo a una generalizzata perdita di fiducia che trasforma la crisi finanziare in una
r
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