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Dunque, chi commette un reato lo fa perché si conforma alle aspettative del suo
ambiente (Sutherland), le sue motivazioni non sono diverse da quelle di chi rispetta
le leggi.
Ad oggi, un altro fattore che colpisce è che la precocità delle ultime generazioni nei
comportamenti devianti non riguarda solo i ceti più popolari e meno scolarizzati
della società, ma anche le fasce sociali tradizionalmente più integrate e conformiste.
Questo a sottolineare quanto sia diffuso il problema della scarsa comunicazione
interpersonale tra adulti e ragazzi, poiché i primi sono troppo presi dai loro problemi
e spesso fragili emotivamente alla pari dei figli.
Insieme alla famiglia stanno progressivamente perdendo efficacia istituzioni
educative come le parrocchie, le associazioni giovanili organizzate e come
sottolineato in precedenza, la scuola.
Le scuole risultano infatti incapaci di coinvolgere gli studenti, contribuendo quindi a
creare individui annoiati e insoddisfatti; i giovani cercano quindi sistemi d’azione che
offrano loro alternative anche se questi risultano essere di tipo antisociale, come la
delinquenza. All’interno del sistema scolastico, invece, la prevenzione dei
comportamenti rischiosi dovrebbe andare di pari passo con lo sviluppo delle
competenze e la formazione dei talenti, sfruttando la naturale devianza dalla strada
maestra dell’adolescente e le capacità di innovazione che ne possono derivare.
Tuttavia, i tentativi di limitare il fenomeno da parte delle istituzioni non mancano
sebbene queste debbano poi scontrarsi con la questione della cronaca e della
“costruzione” della percezione collettiva del problema. Si pensi per esempio al titolo
dal contenuto piuttosto “minaccioso” che testate come Il Messaggero, La
Repubblica, Il Tempo pubblicarono in merito al decreto firmato il 27 aprile 2016 che
prevedeva il coinvolgimento di circa 700 istituzioni: Il ministro Giannini: «Scuole
aperte d’estate e anche di domenica».
Un progetto, rinominato “Scuola al Centro”, votato alla trasformazione delle scuole
in poli di aggregazione in aree periferiche e ad alto rischio di dispersione per venir in
aiuto di tutti quei ragazzi che, quando gli istituti chiudono per le vacanze estive,
finiscono per mancanza di alternative a trascorrere le giornate in strada, tutto ciò
non tramite ulteriori ore di studio ma con iniziative che comprendono ambiti quali
sport, musica e teatro.
Dunque, è spesso difficile contrastare l’intenzione dei media nel ricercare lo
scandalo o nel cavalcare l’immaginario criminale dei giovani e delle gang, anzi
spesso questi diventano protagonisti di film e serie TV pesantemente romanzate che
finiscono per mettere da parte l’originale intento informativo e rappresentano
unicamente modelli sbagliati da imitare ai giovanissimi ad esse esposti.
Un esempio è “Mare fuori”, serie televisiva che racconta le storie di un gruppo di
ragazzi rinchiusi nell'Istituto di Pena Minorile (IPM) di Nisida, nel corso delle puntate
i protagonisti si rendono colpevoli di svariati crimini, ci sono omicidi all’interno della
struttura, intimidazioni e reati che si svolgono all’esterno della struttura su mandato
degli stessi giovani carcerati; produzioni televisive come questa contribuiscono a
creare un’immagine distorta di quella che è la realtà all’interno di istituti come
quello campano dove viene applicata la giustizia riparativa, un luogo che garantisce
la scolarizzazione e la “mediazione penale”, ovvero l’incontro costruttivo tra l’autore
del reato e la sua vittima.
Questa forzata ricerca dello scoop e le spesso non troppo velate intenzioni di
condanna, superano l’intento di documentazione e cercano solo di suscitare una
reazione sociale che si traduce in sospetto, timore, ostilità, sentimenti da cui poi
derivano gli attacchi al limite di punibilità a quattordici anni dell’ordinamento
giudiziario italiano e la riforma, da alcuni auspicata, dell’abbassamento a 12 anni.
Le modalità frequentemente improprie di presentare le situazioni di disagio da parte
della cronaca, infatti, procedono di pari passo con gli orientamenti culturali,
all’insegna della “tolleranza zero”, e la stigmatizzazione dei soggetti colpevoli di
reato che, come conseguenza della loro condizione di “devianza secondaria”
(Lemert), si sentiranno sempre più isolati dal resto della società al punto da essere
spinti a proseguire la “carriera” di deviante.
Ovviamente è indubbio come alcune inchieste giornalistiche abbiano invece
contribuito contrastare e ridimensionare il fenomeno, inoltre spesso il terrorismo
psicologico a cui siamo sottoposti quotidianamente fa perdere di vista il fatto che al
netto del numero oscuro i dati sulla rilevanza, l'andamento e alcune caratteristiche
della delinquenza minorile sono tendenzialmente stabili o semmai hanno subito una
contrazione nel corso degli ultimi tempi.
Infatti, oltre ai dati sulle segnalazioni di reati alle autorità giudiziarie ben al di sotto
degli altri paesi nel centro e nel nord dell’Europa, anche nel fronte interno i dati
ministero dell'interno sulle segnalazioni alla magistratura di minorenni denunciati e
arrestati hanno subito una contrazione tra il 2013 e il 2017 sia per quanto riguarda i
minorenni che per la fascia dei giovani adulti (18-24 anni), lo stesso discorso vale per
le femmine autrici dei delitti denunciati dalle forze dell'ordine (l’unico dato in
crescita è quello che riguarda le infraquattordicennni ma il totale risente del peso
apportato dalle ragazze dei gruppi rom). Questi numeri risultano ancora più rilevanti
se messi in relazione con la maggiore propensione, negli anni più recenti, alla
denuncia anche dei giovanissimi da parte delle vittime e altri interessati o da parte
delle forze dell'ordine. Infatti, in tempi passati, soprattutto tra gli
infraquattordicenni, le denunce erano rare sia da parte delle vittime che dai
responsabili di istituzioni come la scuola. Persino, nonostante l'obbligo a farlo, dagli
stessi rappresentanti delle forze dell'ordine che preferivano trattare informalmente