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Francia e in America. Perché? Perché le due società hanno storie molto diverse alle spalle,
ma soprattutto si basano su strutture sociali differenti. La Francia, uscita da una rivoluzione
sanguinosa e con profonde disuguaglianze sociali, non può realizzare la democrazia nello
stesso modo pacifico e stabile degli Stati Uniti, dove esiste già una società più omogenea e
più egualitaria.
Il compito dello studioso, quindi, non è quello di prendere posizione tra passato e futuro, tra
aristocrazia e democrazia, ma quello di capire quali sono le direzioni verso cui si muove la
società e, allo stesso tempo, evidenziare le ambiguità di ogni direzione possibile.
Tocqueville, in questo senso, anticipa quello che sarà definito individualismo
metodologico: l’idea che le scelte individuali, condizionate ma non determinate dalla
società, influenzino profondamente il corso degli eventi storici.
Anche se raramente è stato considerato un sociologo a tutti gli effetti, Tocqueville lo è nel
senso più pieno del termine. Quando analizza la democrazia, non si limita a valutarla come
sistema di governo: la osserva soprattutto come forma di organizzazione sociale, cioè come
un modo in cui le persone vivono insieme, si relazionano tra loro, condividono idee e valori.
Non basta avere un potere politico democratico, se i rapporti sociali sono ancora
dominati da abitudini tradizionali e gerarchie rigide: in quel caso, la democrazia politica
rischia di fallire. Al contrario, anche un potere autoritario avrebbe vita breve se si trovasse
all’interno di una società con valori e comportamenti profondamente democratici.
Tocqueville ha una visione profondamente sociologica della realtà: non crede che basti
obbedire a una stessa legge o riconoscere un leader comune per dire che esiste una
società. Una società, secondo lui, nasce solo quando le persone condividono davvero un
gran numero di significati, abitudini, credenze. La politica è solo la superficie; sotto,
bisogna guardare alla struttura della società. Questo è particolarmente evidente nel suo
modo di interpretare la repubblica americana: lì la repubblica funziona non perché è una
semplice forma istituzionale, ma perché è l’espressione naturale di una società già
egualitaria e coesa.
Democrazia e modernità
Alexis de Tocqueville, osservando la società americana, nota con stupore che mentre in
Europa si susseguono guerre, rivoluzioni e conflitti interni, l’America sembra vivere in una
condizione di straordinaria stabilità. Nessuna sommosse, nessuna anarchia, nessun
dispotismo. La repubblica americana non è un fattore di disordine, ma al contrario tutela i
diritti, tra cui spicca quello alla proprietà privata. Questo quadro positivo diventa per
Tocqueville il punto di partenza per riflettere più a fondo sulla democrazia come sistema
sociale.
La democrazia, secondo Tocqueville, ha come caratteristica fondamentale l’eguaglianza, ma
attenzione: non si tratta né di eguaglianza economica né di eguaglianza culturale, che
sarebbero impossibili da raggiungere. L’eguaglianza che conta è quella delle opportunità.
In una società democratica non devono esistere caste, né ruoli imposti dalla nascita: ogni
posizione deve essere teoricamente accessibile a chiunque, a prescindere dalle origini. Si
tratta quindi di una rottura profonda con le società aristocratiche del passato, dove ognuno
era incasellato rigidamente in una gerarchia sociale stabile e tramandata di generazione in
generazione.
Tocqueville descrive la società aristocratica come una lunga catena, fatta di anelli ben
collegati, dove ogni persona era strettamente legata ai propri pari, ai propri superiori e
inferiori, e alle generazioni passate e future. In questo mondo, si conosceva e rispettava il
passato (gli avi) e si immaginava il futuro (i nipoti); ci si sentiva parte di una continuità
storica e comunitaria. Le classi erano immobili, il territorio era stabile, la vita era
prevedibile. Al contrario, la società democratica rompe quella catena: ogni individuo è un
anello a sé stante, non più vincolato a posizioni ereditarie, ma libero – o obbligato – a
costruire da solo il proprio destino.
Questa rottura produce sia grandi vantaggi (libertà individuale, mobilità sociale) sia profondi
rischi (isolamento, perdita del senso di comunità). In America, secondo Tocqueville, questa
trasformazione è avvenuta senza traumi, perché la società americana è nata democratica.
Qui non c’è stata una vera e propria rottura con un passato aristocratico: gli individui erano
già liberi, già slegati da ruoli ascrittivi. È proprio da questa condizione che nasce il mito
americano del “self-made man”: ognuno può, partendo dal nulla, costruire il proprio futuro
grazie all’impegno personale.
In Europa, invece, la transizione verso la democrazia è dolorosa, conflittuale, rivoluzionaria.
Tocqueville conosce bene l’esperienza della Rivoluzione francese, e ne ha una visione
critica: in quel caso, non solo il sistema politico fu abbattuto, ma furono distrutti anche tutti i
punti di riferimento morali e religiosi. Il risultato fu una perdita totale di stabilità e una deriva
verso l’estremismo. Qui, la democrazia non è un punto di partenza, ma un punto di arrivo,
e per arrivarci le società europee devono affrontare grandi lacerazioni interne tra classi
sociali, che si risolvono spesso in violenza o nella restaurazione dell’ordine.
Un altro tema cruciale per Tocqueville è il rapporto tra democrazia e religione. Secondo lui,
la modernità tende a sciogliere i legami del passato, e questo include anche la religione. Ma
non per questo la fede deve sparire. Anzi: Tocqueville è convinto che la democrazia abbia
bisogno della religione. Gli individui, liberati da ogni autorità esterna, possono sentirsi
smarriti e soli; possono finire per affidarsi a un nuovo padrone, magari sotto forma di uno
Stato onnipotente. La religione, invece, offre un punto fermo, un senso, una guida morale.
Tocqueville arriva a dire che se un popolo non ha fede religiosa, è destinato prima o poi a
perdere anche la propria libertà.
Fin qui Tocqueville ha descritto il processo di affermazione della democrazia, che può
essere graduale e pacifico (come in America) o conflittuale e rivoluzionario (come in
Europa). Ma a questo punto si apre un secondo grande tema: una volta instaurata, la
democrazia è al sicuro? La risposta di Tocqueville è no. Anche la democrazia consolidata
può essere messa in pericolo, perché dentro di sé contiene una tensione costante tra due
valori: eguaglianza e libertà. Se non si riesce a tenere insieme entrambi, il rischio è che il
desiderio di eguaglianza spinga la società a sacrificare la libertà, aprendo le porte a un
nuovo tipo di dispotismo: il dispotismo democratico.
In una società democratica, infatti, può accadere che gli individui, desiderosi di essere tutti
uguali e garantiti, si affidino a un potere centrale forte e paternalista, che promette sicurezza
in cambio della libertà. Questo tipo di dispotismo non è brutale come quello di un tiranno, ma
è subdolo: toglie poco a poco l’autonomia individuale, infantilizza i cittadini, li abitua a
dipendere dallo Stato, spegne lo spirito critico e la partecipazione attiva.
Per evitare questo pericolo, secondo Tocqueville, la religione può giocare un ruolo
fondamentale, perché fornisce valori stabili, limiti morali e responsabilità che bilanciano il
potere politico. Solo una società in cui gli individui sono davvero liberi dentro – cioè capaci di
giudicare e scegliere con consapevolezza – può mantenere viva la democrazia senza
scivolare nel dispotismo.
Libertà è partecipazione
Per Tocqueville, la democrazia è una forma di società fondata sull’eguaglianza tra gli
individui. In essa non esistono più gerarchie naturali o immutabili: tutti, in linea teorica,
hanno le stesse possibilità di emergere, di migliorarsi e di costruire la propria vita. Tuttavia,
proprio questo tipo di società porta con sé delle criticità profonde, che Tocqueville individua
come rischi interni alla democrazia stessa, legati agli effetti sociali dell’uguaglianza.
Primo rischio: l’indifferenza verso la cosa pubblica
Nei secoli aristocratici, le persone erano inserite in un sistema gerarchico che creava legami
sociali forti. Ogni individuo era parte di una catena relazionale: ciascun anello era legato
all’altro. Con la democrazia, invece, quegli “anelli” si spezzano. Gli uomini diventano
semplici individui affiancati gli uni agli altri, ma non legati da nulla. Questo isolamento rende
le persone più concentrate su sé stesse e meno coinvolte nella vita pubblica. Il desiderio di
affermazione personale, legittimo, finisce per attenuare il senso di appartenenza a una
collettività. Il risultato? Le persone diventano indifferenti alla cosa pubblica e meno
interessate al bene comune. È il primo grande rischio della democrazia: l’atomizzazione
della società, che indebolisce il tessuto sociale e lo spirito civico.
Secondo rischio: la perdita delle diversità e l’omologazione
La società aristocratica, seppur diseguale, dava un ordine e un significato alle diversità
sociali. Le classi erano distinte ma complementari, ciascuna con il proprio ruolo. La
democrazia, invece, tendendo all’eguaglianza, elimina queste distinzioni. Le differenze si
confondono, e nasce un grande ceto medio uniforme, dominato da uno stile di vita “medio”,
senza slanci. In questa uniformità, si perde la qualità che nasceva dalla diversità: il pensiero
critico, la creatività, l’originalità si appiattiscono sotto il peso dell’opinione della
maggioranza. Paradossalmente, quindi, proprio in una società che esalta l’individuo,
l’individualità vera rischia di scomparire, soffocata dal conformismo. È il secondo rischio: la
fine delle diversità e il trionfo dell’omologazione.
Terzo rischio: il dispotismo democratico
Nel passato, le classi sociali – soprattutto quelle aristocratiche – fungevano da argine al
potere assoluto. Controllavano, mediavano, si opponevano quando necessario. Ma con la
loro scomparsa, il potere centrale rimane senza freni. L’individuo, da solo, non ha la forza
per contrastare il potere. E nemmeno la massa degli individui può farlo, perché non è
organizzata. Così si apre la strada a un