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6.6 SOCIALITÀ SOLIDALE, CORPI, POLITICA
La salvaguardia della vita e della salute si lega oggi alle modalità di rivestire il corpo. Durante la
pandemia, medici, infermieri, operatori dei servizi sociali, cassiere dei supermercati e ogni
semplice cittadino hanno dovuto rispettare, nel vestire, protocolli sanitari per proteggere la
propria e l’altrui vita. Mediante mascherine, scudi facciali, distanziamento sociale ciascuno cerca di
salvaguardare l’intera collettività, per questo sarà importante, nel prossimo futuro, creare abiti
ospedalieri molto più comodi e funzionali.
La mascherina è, oggi, l’emblema della “giusta distanza” tra i corpi, di una nuova prossemica e una
nuova cinesica nell’uso degli spazi pubblici. Secondo Eco, per “cinesica” s’intende l’universo “delle
posizioni corporali, dei comportamenti gestuali, delle espressioni facciali, di tutti quei fenomeni
che stanno tra il comportamento e la comunicazione. La “prossemica” è invece l’ambito che
riguarda la questione delle distanze e degli spazi interumani.
Il contenimento fisico e sociale viene però trasformato proprio dal suo divenire moda: le
mascherine, ad esempio, assumono colori, fantasie, forme, dimensioni affidate all’inventiva e alla
creatività stilistica più sfrenata. Le mascherine alla moda diventano così oggetti che resistono
idealmente alla separazione tra i corpi imposta dal distanziamento, enfatizzando ed invertendo il
senso della distanza e dando forma all’idea di responsabilità solidale e collettiva dei corpi rivestiti.
Le mascherine, soprattutto quelle ispirate agli stili di strada, hanno rappresentato tutta la loro
portata politica ed estetica nelle manifestazioni antirazziste tenutesi in tutto il mondo in seguito
all’uccisione di George Floyd. In città diverse i partecipanti hanno assunto differenti modalità di
raggruppamento; a Berlino, la folla assembrata in modo simile ai tempi “normali”, ma tutti con la
mascherina; a Seul tutti con la mascherina ma ordinatamente a distanza e inginocchiati. 34
CAP.7 MODA E INCLUSIONE SOCIALE
7.1 PREMESSA
Uno degli aggettivi che spesso vengono usati per commercializzare oggetti di moda è “esclusivo”.
Questo termine deriva da “escludere”, quindi fa riferimento a qualcosa che riguarda pochi
individui mentre tiene fuori tutti gli altri.
Però nell’uso comune della pubblicità, dei servizi giornalistici e della comunicazione di moda,
questo significato viene in un certo senso rimosso: “esclusivo” si connota come la prerogativa, ad
esempio, di un capo prodotto in una quantità limitata e per poco tempo, che illude il consumatore
di poter vivere attraverso quell’indumento una condizione di unicità.
Resta però sottinteso che quell’unicità non sia per tutti.
In questo capitolo verranno invece messe in luce le modalità attraverso cui la moda può essere un
sistema democratico ed emancipatorio e può rappresentare un terreno di inclusione, invece che
di esclusione, delle molteplici differenze che i corpi presentano.
7.2 IL GENERE
La moda costruisce e riproduce il corpo nella sua determinazione di genere, in virtù di segni cui la
comunità attribuisce la qualità e il valore di “maschili” o “femminili”.
La moda rende questi segni stereotipi, secondo il principio dell’imitazione su cui essa regge, ma a
sua volta essa trae alimento nell’eccederli, nel deformarli, secondo la regola della distinzione
sociale.
L’identità di genere attraverso la moda gioca così tra le forme canoniche e stereotipate della
rappresentazione del maschile e del femminile da un lato, e le sfide all’ordine del discorso
dominante che i segni del corpo veicolano dall’altro.
Sin da quando l’umano viene al mondo, le sue tutine indicano il sesso del/della neonato/a.
In Italia si ricorre all’uso dei colori: rosa e celeste rendono distinguibili i maschi dalle femmine.
Il tema della dualità, dell’opposizione anche simbolica tra maschile e femminile, è dunque
presente sin dalla prima infanzia.
I modelli e gli stereotipi vestimentari si intrecciano poi anche con altri modelli e sistemi (dai
giocattoli, alle letture, agli sport) attraverso i quali si costruisce il corpo come esperienza vissuta:
intreccio di fisicità, cultura, biologia, abitudini, affetti, costrizioni, liberazione.
Da adulti l’identità sessuale che si mostra in pubblico è data dall’abito. Infatti, da oltre 2 secoli la
moda del costume maschile classico è quella dell’abito scuro rigido e squadrato, con poche 35
possibilità di varianti. L’abito maschile borghese rispetta i dettami di sobrietà e rigore ispirati a
quella che Max Weber definisce “l’etica protestante” e che lo psicologo Flugel ha descritto come
l’affermarsi di uno stile maschile che risponde a un’identità sobria e rispettabile, a differenza
della frivolezza che viene lasciata al mondo femminile.
Nell’abbigliamento classico occidentale, infatti, è consentita una maggiore varietà di scelta, tra
gonne e pantaloni, abiti, bluse ecc.
In realtà, questa immagine dualistica può essere molto criticata, alla luce sia della prospettiva
decoloniale, sia sulla base di una ricostruzione della storia del vestito maschile tesa a guardar oltre
la nera e rigida superficie del suit classico.
Innanzitutto, non tutto il mondo è Europa: nelle società non-occidentali, il passaggio dalla legge
suntuaria al regime della moda non ha instaurato lo stesso tipo di differenziazioni tra il maschile e
il femminile.
In ogni cultura esistono regole e sintassi specifiche dell’abbigliamento finalizzate a preservare la
differenza tra uomini e donne. Tuttavia, queste regole nascondono spesso contaminazioni.
Il vestito rappresenta la differenza tra i sessi così come questa è stata valorizzata socialmente e
culturalmente. Parliamo infatti di genere per indicare come la differenza biologica tra uomini e
donne venga elaborata in discorsi sociali, come cioè assuma un valore che comprende in sé
procedure di natura discorsiva, storica, ideologica, culturale, che producono la soggettività.
I segni che indicano il genere, tra i quali il vestito, non si limitano però a riflettere in modo stabile
l’immagine prevalente dei sessi che la società elabora, ma proprio in quanto segni, essi generano a
loro volta altri segni che rimandano a nuove immagini.
La moda traduce costantemente al suo interno e al suo esterno i significati sociali nei quali si
esprime il genere.
7.3 IDENTITÀ IN TRANSIZIONE, FIGURE ANDROGINE, GENDERLESS
Nella seconda metà del 900, la moda ha inventato il casual e l’unisex.
Nel casual i tratti distintivi del maschile e del femminile sono stati mescolati e ridisegnati in una
parificazione universale dei diritti di uomini e donne.
È stato il mondo delle immagini, della moda, il cinema, la pubblicità, a farsi carico di interpretare
modelli né dualistici né paritari di raffigurazione dei corpi rivestiti: a volte evidenziando tratti
anche euforici di “femminilità” maschile (si pensi al drag) o di “mascolinità” femminile.
Il segno-abito riesce così a definire un universo umano e culturale di persone la cui identità
sessuale non corrisponde a quella definita come “biologica”. 36
Il linguaggio racchiude queste esperienze nel termine “transgender”, abbreviato spesso in “trans”.
➔ La fisicità esteriore e dunque L’abito sono per le persone trans un elemento fondamentale
di identificazione e rappresentazione sia privata che pubblica.
L’espressione comune “travestito” che spesso si usa per indicare il/la cosiddetto/a trans la
dice lunga proprio sulla dimensione di vera e propria protesi corporea che l’abito
rappresenta.
Il genderless e il gender neutral sono le formule che indicano la non necessaria identificazione di
un capo di moda con la sessualità biologica binaria di chi lo indossa.
Quello del genere sessuale è dunque un tema determinante quando si affrontano i fenomeni di
moda, perché il corpo rivestito è il territorio fisico-culturale in cui si realizza la performance visibile
e sensibile della nostra identità.
Si possono così esprimere tratti individuali che sfidano gli stereotipi quotidiani relativi alla
sessualità, purtroppo ancora radicati nel senso comune e ancora in grado di dar vita a forme di
omofobia, transfobia e sessismo.
7.4 MODA, DISTURBI ALIMENTARI E LIMITI DEL CORPO
Il corpo ideale della moda come sistema e istituti ione è quello della/del modella/o.
Nel Sistema della moda, Roland Barthes fa riferimento a una specifica figura che incarna questo
ruolo, la cover girl, e la definisce come un paradosso: da un lato il suo corpo è una “istituzione
astratta”, dall’altra si tratta invece di un corpo individuale.
La funziona dea modella “di carta”, soggetto corporeo della moda sulle riviste specializzate non è,
secondo Barthes, estetica. Non è un bel corpo a venire rappresentato, ma un corpo deformato al
fine di realizzare una generalità: l’indumento di moda.
L’analisi di Barthes si riferisce alla moda descritta sulle riviste tra gli anni 50 e 60 del XX secolo.
Il paradosso individuato da Barthes nella figura della cover girl venne poi infranto negli anni 80,
anni d’oro dello stilismo, soprattutto italiano.
Il corpo delle top model (es. Naomi Campbell, Linda Evangelista) non significò più infatti solo
l’abito, ma l’intero mondo. Le modelle diventarono le nuove dive che erano da tutti conosciute e
costruite nei discorsi della moda quale discorso pubblico.
Verso la fine del XX secolo, dal corpo della top model si passò invece al corpo di un genere di
“modella quotidiana”, da moda di strada, nel duplice senso letterale e volgare di “strada”.
È il corpo della moda come mondanità, come cultura popolare. 37
Oggi le modelle e i modelli di professione non sono più star, ma precari, che solo in pochissimi casi
riescono a raggiungere retribuzioni eccezionali.
In questo mondo l’anoressia è sempre in agguato, quale malattia sociale di cui non è responsabile
la moda in sé, bensì il meccanismo di costruzione dei corpi che il modello è la modella accettano
nella loro professione.
Bisogna essere forti per controllare il fatto di essere in realtà non corpi, ma manichini.
La sociologa Fatema Mernissi definisce come “harem d’occidente” gli stereotipi in cui sono
ingabbiati i corpi delle donne “occiden