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DARE UN NOME ALLA SALUTE MENTALE

Si distinguono diagnosi più comuni, come i disturbi ansiosi o depressivi, e altre

legate al carattere, come i tratti narcisistici o ossessivi. La parola diagnosi, in

passato associata a semplificazione e stigma, suscita ancora diffidenza in

alcuni professionisti, ma rappresenta comunque un passaggio inevitabile e utile

nel rapporto con il paziente. Una diagnosi, anche implicita, aiuta a

comprendere la personalità, il funzionamento mentale e le relazioni del

paziente, senza essere riduttiva o stigmatizzante, ma orientata al suo

benessere e alla scelta della terapia più adeguata. Negli ultimi decenni, la

pratica diagnostica è diventata più sensibile ai contesti e promuove un

linguaggio comune tra colleghi.

RESTITUIRE LA COSCIENZA

Un momento chiave del colloquio psicologico è la restituzione, in cui il clinico

comunica al paziente quanto compreso in termini diagnostici, decidendo come

esporlo. Questo passaggio può riguardare sia i risultati di test psicologici sia la

diagnosi complessiva, e richiede un’abilità quasi poetica nel dare forma e nome

a ciò che è sconosciuto.

L’autobiografia di Oliver Sacks offre un esempio: nel 1966, durante la sua

analisi, Sacks chiese al terapeuta se fosse schizofrenico come il fratello,

ricevendo un semplice “no” come risposta. Anche alla domanda successiva, se

fosse “solo nevrotico,” non ci fu una definizione precisa. Quella mancanza di

ulteriori spiegazioni rimase con lui per quasi mezzo secolo.

Oliver Sacks racconta come, più che un’etichetta diagnostica, avesse bisogno

di essere accolto nella sua complessità, lontano dalle definizioni che avevano

segnato la sua vita, come “schizofrenia,” “omosessualità” e “tossicomania.” Il

suo analista, Shengold, pur avendo elaborato una diagnosi, non gliela

comunicò direttamente, evitando categorie rigide. Per altri pazienti, invece,

attribuire un nome al proprio disagio può essere fondamentale. Simona Vinci,

ad esempio, descrive come definire la sua condizione come “depressione

ansiosa reattiva” l’abbia aiutata a capire chi era diventata e a sentirsi meno

smarrita.

La restituzione diagnostica è il momento in cui il clinico comunica al paziente

quanto emerso dalla valutazione. Non esiste un approccio unico, ma è

fondamentale adattarsi alla persona, evitando un linguaggio tecnico che possa

risultare alienante, come ironizza la vignetta citata (figura sotto), in cui un

terapeuta usa termini incomprensibili per il paziente.

≪Ma, esattamente, che cosa non ha capito del mio discorso sulla sua

propensione alla regressione maligna e alla reintroiezione patogena come

strategie difensive contro lo scompenso psicotico?≫

Oggi, questo processo è orientato alla collaborazione, al coinvolgimento e alla

costruzione di un’alleanza diagnostica e terapeutica, compatibilmente con le

capacità mentali e relazionali del paziente. Feedback e disclosure, riscontro e

rivelazione, sono termini entrati da tempo nella nostra pratica clinica. Lo stesso

vale per consenso informato, o meglio, volontario. Finché le condizioni della

coscienza del paziente lo consentono, quindi in assenza di deliri o allucinazioni.

Anche il terapeuta è riconosciuto come una variabile rilevante nel processo

diagnostico. Caratteristiche come l’età, il temperamento, l’esperienza e lo stile

di attaccamento influenzano la relazione clinica, rendendo la diagnosi un

processo dinamico e personalizzato, che tiene conto delle caratteristiche

uniche di chi è coinvolto. Durante il colloquio di restituzione diagnostica, è

importante adottare alcune accortezze: usare un linguaggio accessibile e

adatto al paziente, sottolineando non solo gli aspetti problematici della

personalità ma anche quelli positivi; evitare termini stigmatizzanti come

“anormale” o “patologico”; e incoraggiare il paziente a fare domande o

condividere osservazioni. Domande implicite come “Che cosa ho?”, “Guarirò?”,

o “Cosa può fare per me?” emergono naturalmente nella relazione clinica e

rappresentano, in molti casi, l’inizio stesso della terapia.

PAROLE GRECHE

La parola “diagnosi” affonda le sue radici etimologiche nel concetto di

conoscenza “attraverso” (διά): sintomi (soggettivi e riferiti da paziente), segni

(oggettivi e riscontrati dal medico) e tutto ciò che può aiutare il clinico a

comprendere il paziente, non solo a livello fisico, ma anche nei suoi pensieri,

emozioni e comportamenti. Tuttavia, il processo diagnostico richiede sensibilità,

perché i segnali del paziente possono essere sottili o, al contrario,

eccessivamente rumorosi. La diagnosi, quindi, non è solo un’etichetta, ma un

processo di ascolto e comprensione, che si adatta al paziente e non viceversa.

Ecco dunque il significato ultimo della parola diagnosi: conoscenza e ascolto

nell’incontro. Questo rispecchia l’etimologia di “clinico” (ϰλίνη), che richiama

l’idea di un medico che si avvicina al letto del malato, con un atteggiamento di

cura e rispetto. Allo stesso modo, il termine “terapia” deriva da ϑϵραπϵύω,

indicando un’assistenza che include anche onore e custodia.

Il sapere diagnostico deve bilanciare due approcci: quello idiografico, che si

concentra sull’unicità del singolo paziente, e quello nomotetico, orientato a

individuare leggi generali e somiglianze utili per la cura. Questa dualità pone il

diagnosta in una continua tensione tra personalizzazione e generalizzazione.

Ad esempio, un clinico deve riconoscere le peculiarità di ogni individuo, proprio

come i fiocchi di neve, e allo stesso tempo essere capace di categorizzare,

come si distinguono il nevischio e la bufera.

Solo attraverso l’equilibrio tra questi due poli è possibile costruire una diagnosi

che abbia senso sia per il paziente sia per il contesto scientifico. La diagnosi

diventa così un processo dinamico, capace di tradurre leggi generali in

applicazioni specifiche e viceversa, garantendo un’adeguata sensibilità senza

rinunciare al rigore scientifico.

LE TAVOLE DELLA DISCORDIA

La psichiatria, più ancora della medicina, è una scienza inesatta, in cui le cause

dei disturbi mentali e la loro evoluzione rimangono spesso oscure. La

spiegazione bio-psico-sociale combina genetica, neurochimica, relazioni

interpersonali e contesto socioeconomico, ma la complessità e l’incertezza di

queste dinamiche hanno spinto la diagnostica psichiatrica a formalizzare

modelli come il DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali).

Nato nel 1952 e oggi giunto alla quinta edizione, il DSM è un manuale che

elenca e descrive le malattie mentali secondo criteri standardizzati e sintomi

osservabili. Sebbene rappresenti un pilastro per la psichiatria moderna, il DSM

è oggetto di accesi dibattiti e controversie.

Con un approccio ateorico e descrittivo, il DSM si concentra sui sintomi

rilevabili senza affrontare le cause profonde dei disturbi mentali. È categoriale,

cioè stabilisce criteri per classificare condizioni come patologiche o meno,

anche se l'ultima edizione ha introdotto aspetti più dimensionali, basati

sull’intensità dei sintomi. Per decenni, ha utilizzato un modello multiassiale

che esaminava il paziente attraverso diverse dimensioni, ma questo approccio

è stato abbandonato. Inoltre, il DSM cerca di limitare la comorbilità, la

presenza di più diagnosi in un paziente, benché spesso non riesca a evitarla,

poiché scomporre sindromi complesse porta inevitabilmente a sovrapposizioni.

Dal primo DSM, con 130 pagine e 106 disturbi, all’attuale, con quasi 1.000

pagine e circa 300 disturbi, si è assistito a un’espansione costante del

manuale, accompagnata da un incremento di diagnosi. Ciò riflette sia un

aggiornamento scientifico sia una tendenza verso l’iperdiagnosticismo, che

solleva questioni culturali ed economiche. Ogni nuova edizione del DSM

provoca discussioni, conflitti interni all’APA (American Psychiatric Association) e

critiche. Ad esempio, nella quinta edizione, nonostante l’intento di rinnovare la

sezione sui disturbi di personalità, si è mantenuto un modello tradizionale,

aggiungendo solo un’alternativa in appendice.

Le diagnosi proposte dal DSM sono state influenzate da scoperte scientifiche,

tendenze culturali e interessi economici. Alcune condizioni, come il disturbo di

panico o il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD), sono emerse

con forza, suscitando sia consenso sia polemiche. Per i sostenitori, il DSM porta

ordine e razionalità; per i detrattori, rappresenta una semplificazione eccessiva

che rischia di oggettivare e medicalizzare in modo inappropriato. Critiche

particolarmente aspre provengono da figure di spicco come Allen Frances,

curatore del DSM-IV, che ha denunciato gli eccessi e i rischi del DSM-5 in libri

La diagnosi in psichiatria Non curare chi è normale.

come e Anche Peter Tyrer

ha ironizzato sul DSM, definendolo “Diagnosis as a Source of Money” o

“Diagnosis for Simple Minds,” evidenziando il rischio di una psichiatria piegata

agli interessi economici e di una lettura troppo semplificata dei problemi umani.

Frances, pur criticando il DSM-5 per il suo iperdiagnosticismo, continua a

sostenere la necessità di una diagnosi. Questo concetto è condiviso anche da

Freud, che considerava la diagnosi come un passaggio obbligato nell’ambito

dell'analisi. Alcuni termini diagnostici introdotti da Freud (come «isterico»,

«ossessivo» e «paranoico») sono oggi entrati nel linguaggio comune.

Le critiche di Frances al DSM-5 riguardano principalmente due aspetti:

l'abbassamento delle soglie diagnostiche e l'introduzione di nuovi disturbi che

lui considera speculativi e inutilmente patologizzanti. Questi nuovi disturbi,

come il binge-eating (abbuffate senza tentativi di eliminazione) e il Disturbo

Neurocognitivo Lieve (declino cognitivo modesto che non interferisce con la

vita quotidiana), possono portare all'inflazione diagnostica. Frances sottolinea i

rischi di falsi positivi e di medicalizzazione di persone che non sono

clinicamente malate, con un aumento delle prescrizioni farmacologiche. In

particolare, per il DNCL, Frances ritiene che senza una terapia o un potere

predittivo, sia più sensato accettare il naturale declino cognitivo legato all’età,

piuttosto che diagnosticare un disturbo.

Un altro aspetto controverso riguarda l’equiparazione tra abuso e

Dettagli
A.A. 2023-2024
36 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/01 Psicologia generale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher marilynbuscemi di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia generale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Perugia o del prof Muzi Laura.