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Chiesa in Delitto imperfetto ricorda che il padre aveva interpretato questo riferimento come una
concreta minaccia a lui diretta.
Nel suo diario personale, Carlo Alberto riporta di un colloquio con Andreotti, voluto da
quest’ultimo in veste informale e non come un incarico di governo. I due si conoscevano già perché
Andreotti era stato capo del governo quando a dalla Chiesa era stata affidata la struttura speciale
contro il terrorismo politico. Carlo Alberto racconta che, convocato per il suo nuovo incarico, aveva
illustrato ad Andreotti le possibili conseguenze della sua azione di prefetto a Palermo. Nando dalla
Chiesa – ancora una volta nel saggio sopracitato – ricorda che il padre, raccontandogli di questo
colloquio, ricordò come Andreotti, sentendo queste parole, fosse sbiancato. Carlo Alberto, durante il
colloquio, notò che le risposte di Andreotti erano basate sul folclore e sulla mancata conoscenza del
fenomeno mafioso per il riferimento che egli fa su Sindona e Inzerillo. Cosa aveva detto? Che sulla
questione Sindona , Inzerillo (mafioso morto per mano dei corleonesi in America nel 1981), dopo
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essere morto in America, era tornato in Italia dentro una bara con dieci dollari in bocca. Questa cosa
costituirebbe per Carlo Alberto la classica immagine folclorica tipicamente associata alla mafia.
Secondo Nando dalla Chiesa, invece, assume lo stesso punto di vista degli inquirenti del processo
contro Andreotti. Il riferimento a Sindona era stato fatto per vedere la reazione di Carlo Alberto e le
sue conoscenze su un problema che lo interessava direttamente.
Nel 1986, durante il dibattimento del Maxiprocesso, Andreotti ricostruisce questo colloquio,
dicendo che esso era avvenuto per volere di Carlo Alberto. Sostiene che la conversazione era stata
generica. A ciò si oppone Galasso, l’avvocato di parte civile di Nando, che chiede l’incriminazione
di Andreotti per falsa testimonianza e reticenza.
L’arrivo di Carlo Alberto a Palermo come prefetto era previsto per il maggio del 1982, ma si ebbe
un’accelerazione improvvisa a causa dell’assassinio di Pio La Torre nell’aprile dello stesso anno.
Ricorda: era il banchiere che era stato indagato per falso rapimento (se ne è parlato a proposito della perquisizione
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fatta negli uffici di Gelli e del ritrovamento degli elenchi degli iscritti alla P2).
Egli era tornato da poco in Sicilia come segretario regionale del PCI per rilanciarne l’azione in
Sicilia e si era impegnato nella mobilitazione popolare contro l’installazione dei missili NATO a
Comiso. Ma, secondo i più (dalla Chiesa compreso) il movente del delitto fu l’incisiva azione
antimafia da lui svolta, culminata nella proposta di legge sul reato di “associazione mafiosa”.
Dopo quest’omicidio, Carlo Alberto fu convocato in una riunione d’emergenza col capo del
governo Spadolini, che lo mandò subito a Palermo. Fu a questo punto che il nuovo prefetto capì il
rischio che correva ricoprendo questo ruolo. Sull’aereo per Palermo, egli scrisse una lettera ai suoi
figli, concepita sotto la forma di testamento. In essa e nel suo diario personale si avverte una certa
inquietudine e incertezza: si chiedeva se fosse il caso di lasciare definitivamente l’Arma. Egli era
chiaramente consapevole delle difficoltà del suo incarico e del clima sfavorevole che lo circondava.
Per questo motivo, riteneva assolutamente necessario mettersi nelle condizioni per operare con
efficacia. L’obiettivo che si poneva era quello di restituire un generale senso di fiducia nelle
istituzioni. Questo doveva essere il presupposto essenziale nella lotta alla mafia. Essendo necessario
il contributo dell’amministrazione, egli tenne incontri con sindaci di varie città, soprattutto del
Corleonese (zona a più alta densità mafiosa).
Carlo Alberto prese pure delle precauzioni per la sua sicurezza, ma rifiutò la scorta. Si affidava, più
che altro, come per la lotta al terrorismo, all’imprevedibilità → ES non comunicava mai in anticipo
orari e luoghi dei suoi spostamenti, si faceva vedere sempre in posti affollati, ecc.
Leonardo Sciascia criticò questo suo atteggiamento imprudente e lo attribuì al fatto che egli, dal
momento che non tornava in Sicilia da quasi dieci anni, non conosceva i mutamenti dell’isola
(come, per esempio, la diversa qualità eversiva dei delitti di mafia). Quest’analisi fu poi duramente
contestata da Nando dalla Chiesa, che sottolinea come questo atteggiamento (come il farsi vedere in
luoghi affollati) era frutto della volontà del padre di non apparire un’autorità troppo lontana dalla
gente comune.
Secondo Coco non è del tutto vero ciò che dice Sciascia – e cioè che dalla Chiesa non conosceva i
mutamenti dell’isola – perché era stato pur sempre chiamato in Sicilia prima del previsto proprio a
causa di un omicidio eccellente → era dunque chiaro che la qualità eversiva dei delitti mafiosi era
cambiata rispetto a prima. Piuttosto bisogna dire che, forse, non voleva accettare la cosa fino in
fondo.
Come si evince, la questione sulla sicurezza di Carlo Alberto è particolarmente delicata e al centro
di furibonde polemiche dopo la sua morte.
Egli era consapevole di dover operare non soltanto sotto aspetti culturali e simbolici, ma anche sotto
aspetti tecnici e operativi. Per questo si interessò pure a questioni marginali, “ordinarie”, che
rientravano pur sempre nei suoi compiti e potevano essere funzionali nella lotta alla criminalità
organizzata → ES il problema relativo alle patenti.
Particolarmente difficile era in quel periodo la situazione palermitana riguardante lo stato delle
forze dell’ordine. Alcuni eventi drammatici – come gli omicidi di alcuni esponenti delle forze
dell’ordine → ricordiamo, per esempio, l’omicidio di Boris Giuliano, capo della squadra mobile –
diedero notevoli contraccolpi sul fronte investigativo. Nonostante ciò, si ottennero anche numerosi
successi. Infatti, nel 1981 si creò un gruppo specializzato dell’Arma, la sezione Anticrimine. Essa
prevedeva la collaborazione con alcuni funzionari della squadra mobile (ES Ninni Cassarà). Ciò
portò all’elaborazione del Rapporto «Michele Greco + 161», che avrebbe costituito la base del
Maxiprocesso del 1986-1987. A quanto pare, essi furono incaricati dai superiori di accelerare i
tempi per la deposizione del rapporto quando dalla Chiesa era assente da Palermo, anche se egli
alcuni elementi di esso li conosceva già → ES il ruolo rilevante di Catania, area tradizionalmente
ritenuta immune dalla mafia, che era stato dimostrato nella strage della circonvallazione di Palermo.
Qui era stato assassinato il capo mafia catanese Ferlito durante il trasferimento dal carcere di Enna a
quello di Trapani insieme ai carabinieri. Ovviamente, il delitto era stato realizzato con la
collaborazione o con l’assenso delle cosche mafiose locali.
Nell’intervista a Bocca, Carlo Alberto si disse colpito dal policentrismo della mafia, che costituiva
una svolta storica dal momento che essa non era più ormai limitata alla sola Sicilia occidentale. Egli
stava indagando, a tal proposito, sui possibili legami mafiosi dell’imprenditoria catanese, soprattutto
dei «cavalieri del lavoro». Coco sottolinea come qui sia evidente lo sforzo del generale di attirare
l’attenzione dell’opinione pubblica, soprattutto nazionale. Infatti, durante l’intervista diceva che la
lotta alla mafia veniva ancora erroneamente percepita come una questione circoscritta e marginale e
che fosse necessario un adeguato sostegno per un buon esito delle operazioni e per garantire
l’incolumità di chi se ne faceva carico. Aggiungeva, poi, di aver capito la regola del gioco: «si
uccide il potente quando è diventato troppo pericoloso ed è isolato». La pericolosità e l’isolamento
del potente costituiva, così, una combinazione fatale. Secondo dalla Chiesa, il problema inerente al
mancato sostegno nella lotta alla mafia non era solo da imputare all’atteggiamento della stampa, ma
anche a quello del governo, il quale doveva cominciare a fare la sua parte. A tal proposito, egli
continuò a chiedere la concessione di poteri di coordinamento così da avere una visione d’insieme
assolutamente necessaria per le indagini. Il ministro Rognoni acconsentì, ma ritenne che bisognasse
procedere con gradualità al fine di facilitare l’instaurarsi della collaborazione con gli altri prefetti.
Carlo Alberto fu infastidito da questa decisione. Seguì allora un serrato confronto tra i due:
all’inizio il generale si pentì del suo atteggiamento infastidito di fronte alla decisione del ministro,
ma poi fu addirittura sul punto di dimettersi (dicono alcuni). Ricordiamo il contesto di
quest’incontro: era in corso una crisi di governo, per questo Rognoni era cauto. C’erano, dunque,
delle difficoltà e per questo il ministro intimava di procedere con gradualità. A ciò bisogna pure
aggiungere che c’erano due precisi problemi inerenti alla concessione di poteri speciali → in
particolare, la ostacolavano da un lato quelli che temevano conseguenze autoritarie e dall’altro
alcuni settori della DC. Nando dalla Chiesa nel saggio Delitto imperfetto sottolinea che il padre ne
era consapevole. Nonostante questi ostacoli, comunque, Rognoni doveva pure fare i conti col fronte
– sempre più ampio – dei favorevoli alle richieste avanzate da Carlo Alberto, tra i quali si
annoveravano il PCI, la stampa nazionale, ecc.
Si arrivò, così, a un compromesso col governo: si dispose un rafforzamento d’urgenza di uomini e
mezzi di polizia e carabinieri, ma si lasciò irrisolta la questione del coordinamento con le altre
prefetture. Carlo Alberto si disse parzialmente soddisfatto, anche se circolarono varie voci al
riguardo (ES su possibili sue dimissioni).
In generale, gli esponenti della DC erano soliti fare dichiarazioni non amichevoli su Carlo Alberto.
Un esempio di ciò si può trovare nei duri attacchi fatti da Nello Martellucci, sindaco di Palermo e
uomo di Lima. Egli evitò lo scontro frontale col nuovo prefetto, ma ne sminuì comunque il senso
dell’operazione antimafia da lui rappresentata. Riteneva che fosse sbagliato dare troppo peso al
problema della mafia, in quanto bisognava dare priorità al miglioramento delle condizioni di disagio
non solo di Palermo, ma di tutto il Mezzogiorno. Rispetto a simili posizioni, Carlo Alberto dimostrò
in pubblico sempre grandi capacità di reazione. Secondo Coco, egli cercò in tal modo di trasmettere
agli altri un’immagine positiva e di fiducia.
In questi anni si data il secondo matrimonio di Carlo Alberto, che sposò Emanuel