La cultura non si trasmette. Il contributo teorico-pratico di Paulo Freire e Danilo Dolci
È dell’attivismo il tentativo più radicale di porre al centro dell’azione educativa il
bambino. In tempi più recenti, teorici riconducibili alle pedagogie del dialogo e della
parola hanno sottolineato l’importanza di una concezione relazionale della
trasmissione culturale. I contributi di Freire e Danilo Dolci si caratterizzano per una
produzione caratterizzata da un forte impatto sulla cultura del loro tempo e del
tempo attuale. I pedagogisti del dialogo e della parola hanno in comune la grande
importanza attribuita al possesso del linguaggio: la persona realizza sé stessa solo se
può esprimersi e dialogare con altri. Per Freire da rifuggire è la cultura del silenzio,
cioè quella in cui gli uomini rimangono semplicemente nel mondo e non con il
mondo e con gli altri. Scopo principale della sua pratica educativa rivoluzionaria era
dare la parola al popolo per superare la cultura del silenzio, fatta di assenza di
partecipazione e grave marginalità della classe operaia e contadina. La novità del suo
metodo consiste nel fatto che non è finalizzato semplicemente all’alfabetizzazione ma
alla coscentizzazione: attraverso di esso, insieme alle parole, si assume anche una
nuova visione del mondo. Alla base del pensiero pedagogico di Freire c’è la
contrapposizione tra educazione depositaria ed educazione problematizzante. La
prima è basata sull’idea di riempire gli educanti con contenuti culturali, per cui la
parola diventa un passivo bla bla bla e l’educazione un processo che riproduce le
dinamiche di potere della società. L’educazione depositaria diventa un potente
strumento di dominio, che rende le masse ancora più oppresse. L’educazione
problematizzante è quella che ha come scopo la liberazione della persona e delle
masse, come processo di appropriazione della parola e del mondo. Freire avverte in
primis un sentimento di ingiustizia e la forte istanza di liberare con la loro
partecipazione attiva le fasce più deboli della popolazione da questa condizione di
subalternità. Secondo Freire la cultura e il sapere non possono essere trasferiti da una
persona all’altra, in quanto la cultura costituisce tutto il risultato dell’attività umana,
dello sforzo creatore e ricreatore dell’uomo, del suo lavoro per trasformare e stabilire
rapporti con gli altri uomini. Egli applica questa sua concezione al processo di
alfabetizzazione degli adulti nel nord – est del Brasile, che si basa sulla scelta di temi
generatori, cioè temi che possono stimolare la discussione tra i presenti, i quali
diventano così parte attiva dell’atto di creazione della conoscenza. Il dialogo fra
queste dimensioni innesca un’azione di impossessamento della realtà e modifica della
stessa. Anche Danilo Dolci credeva fortemente nella concezione dialogica
dell’educazione. La sua sperimentazione educativa prende il nome dall’espressione
socratica della maieutica reciproca. Nel simposio di Platone si narra di un episodio
della vita di Socrate, in cui Agatone, suo allievo, ha organizzato un banchetto e nel
veder giungere il suo maestro esprime il desiderio di poter stare accanto a lui. Egli
infatti vuole farsi contenitore per ricevere tutto il sapere del maestro ma quest’ultimo
gli risponde sostenendo che il sapere non può essere travasato da una persona
all’altra. In questo modo rifiuta una concezione statica e unidirezionale del processo
di apprendimento e spinge il proprio allievo a cercare il proprio sapere. Il mestiere
del maestro non è riempire le teste vuote dei propri allievi, ma piuttosto aprire nuove
vie mai pensate prima. Per Dolci c’è un profondo contrasto tra l’idea del trasmettere
un sapere e l’idea di dare vita ad esso. Nessun soggetto è privo della capacità di
prendere parte dell’atto creativo della costruzione di una cultura e di conseguenza di
un agire concreto. Nei laboratori di maieutica reciproca che organizzava nella Sicilia
degli anni 50, segnata brutalmente da analfabetismo, povertà e disoccupazione, tutti
potevano prendere parte alla discussione per pensare insieme vie di miglioramento
della propria condizione. Questo modello di scambio e costruzione di un sapere
diviene un modello educativo. Concepire la trasmissione della tradizione di una
cultura come un processo unilaterale penalizza sia che educa sia che educato.
L’insegnamento diventa quindi un processo di oppressione in cui la cultura
maggioritaria si impone su quella minoritaria. Per Danilo dolci non bisogna quindi
temere lo scambio culturale ben segui i rapporti di potere che impediscono ad
ognuno di esprimersi.
Liberi dalla cultura di massa. Le denunce di Pierpaolo Pasolini e don Lorenzo Milani
L’individuo immerso nella cultura è sicuramente attore e creatore della stessa, ma è
anche un recettore in grado di subirla. Una riflessione sul rapporto tra persone e
cultura non può non considerare il tema del conformismo e della mancanza di
originalità nei percorsi educativi. Basta pensare alle riflessioni di Pier Paolo Pasolini.
La sua denuncia è netta: l’aumento del cosiddetto benessere e la diffusione dei mezzi
di comunicazione di massa hanno omologato gli individui. Al problema
dell’ignoranza e dell’analfabetismo è subentrato quello di una mezza cultura,
incapace di orientare il giovane e dargli autonomia di giudizio. Per Danilo Dolci il
problema fondamentale è l’idea stessa di massa, che esclude l’idea del singolo, dotato
di autonomia e capacità di espressione. Intere generazioni sono state ridotte a
categorie o etichettamenti e non ci si deve stupire se oggi siano incapaci di esprimere
un pensiero critico. Molte volte ancora oggi, nei contesti educativi, i bambini vengono
considerati come parte di una massa da governare ed orientare. Anche per don
Lorenzo Milani la preoccupazione per la riduzione delle persone a massa è una
tematica centrale. Questo fenomeno è la diretta conseguenza della perdita della
cultura: solo la scuola, la parola e il sapere possono suscitare la formazione di una
capacità di pensiero critico che si distingua dalla massa. Nella sua Lettera a una
professoressa, si denuncia la responsabilità degli insegnanti che perdono i figli della
classe operaia e contadina, esclusi dalla scuola perché non dotati dei mezzi culturali
di partenza dei figli della borghesia e dell’alta società. La subcultura del mercato
monopolizza i giovani, che sviluppano così personalità standardizzate e incapaci di
formulare ed esprimere un’idea personale ed autonoma: i burattini ubbidienti per i
quali la diversità è un pericolo e la normalità un tratto da affinare e perfezionare
sempre di più. Non è un caso se sia Pasolini che Don Milani interpellano la scuola,
responsabile in primis di questo deterioramento della cultura e della società. È
proprio l’educazione ad avere il ruolo e la responsabilità più importanti nel gestire le
dinamiche di formazione di personalità conformiste. In gioco c’è sia la democrazia
del paese, che si basa sulla possibilità di avere al suo interno cittadini consapevoli,
autonomi e dotati di senso critico, sia la vitalità della cultura stessa che, in assenza
delle voci autentiche dei giovani, viene minata nelle sue fondamenta.
Capitolo 3 – La seconda via: dialogare con le altre discipline
La complessità del tempo presente richiede sicuramente l’utilizzo di più lenti di
osservazione. Accanto al dialogo con i propri classici si pone quindi una seconda via:
la necessità di mettersi in dialogo con altre discipline. Nel suo I 7 saperi necessari
all’educazione del futuro, Morin esplicita questo tema: leggere i problemi cruciali del
tempo attuale è possibile solo incrociando forme diverse di conoscenza, oggi sempre
meno diffusa in un contesto di frammentazione e settorializzazione del sapere. Un
sapere frammentato, focalizzato su un solo aspetto della propria realtà di
osservazione, è un sapere che sarà sempre inesatto e incompleto. Concentrare la
propria attenzione esclusivamente su alcuni temi di ricerca significa perdere la sfida
della complessità. La pedagogia interculturale è sicuramente chiamata oggi ad
incrociare il suo sguardo con altri settori, ampliando la propria prospettiva. Questa
disciplina infatti non può prescindere dalla questione del contesto, che rappresenta la
cornice culturale entro la quale si muove il soggetto. Non può prescindere dal globale,
essendo il fenomeno interculturale l’esito di dinamiche non più ascrivibili
esclusivamente ai territori locali e non può dimenticare neanche che il suo oggetto di
indagine è l’uomo, la cui identità è multidimensionale. Possiamo quindi individuare
alcune discipline cruciali per la pedagogia interculturale, ovvero: l’antropologia
culturale, la sociologia delle migrazioni, la psicologia dello sviluppo e il diritto
minorile. Come ogni dialogo, anche questo è soggetto a malintesi e incomprensioni.
Un rischio latente è quello di dimenticare il proprio oggetto di indagine per assumere
quello di altre discipline. Un dialogo autentico e alla pari si basa invece sulla chiara
consapevolezza della propria identità e dei propri obiettivi.
Interdisciplinarità, un dialogo alla pari
La pedagogia interculturale nasce come disciplina in dialogo con altri campi del
sapere, in modo particolare l’antropologia culturale e la sociologia delle migrazioni. Il
dialogo con questi ambiti scientifici appare fondante per la disciplina stessa. Il dialogo
interdisciplinare rimane tuttavia una sfida aperta. Da una parte la relazione con le
altre discipline pone non di rado la pedagogia in una condizione di subalternità,
dall’altra delegare completamente alcuni temi della riflessione pedagogica ad altre
discipline indebolisce la riflessione interculturale stessa. Riflettere sui rapporti tra la
pedagogia interculturale e le scienze sociali significa riconoscere il prezioso apporto
che queste ultime hanno dato al tema della diversità culturale, senza rinunciare però
alla voce della pedagogia. Il dialogo interdisciplinare dovrebbe basarsi su uno
scambio reciproco di contenuti, metodi e approcci senza prevaricazioni, alla pari.
Secondo Piero Bertolini per avviare un dialogo interdisciplinare occorre accettare tre
sfide: intendere e perseguire un’autentica prospettiva interdisciplinare, le cui
premesse sono il reale interesse per le altre scienze sociali e la convinzione della
parzialità di ogni sapere e dunque della sua non autosufficienza; fare uno sforzo
profondo di anali
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