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Nonostante l’espressione, l’arrivo di nuovi alunni in classe non è così imprevedibile, al contrario è
un’esperienza ormai diffusa e ordinaria. Molte scuole sono ormai abituate, e dotate di documenti detti
“protocolli di accoglienza”, redatti in molte lingue e dove vengono illustrati obiettivi e programmi della
scuola, insieme ad altri materiali cartacei e multimediali per facilitare l’inserimento nelle varie discipline
scolastiche.
Gioca un ruolo fondamentale il “giorno dell’accoglienza”, dove i bambini percepiscono l’arrivo del nuovo
compagno come positivo e pieno di sorprese. Spesso viene elaborato anche un “progetto di accoglienza”,
ove vengono stabiliti fasi di inserimento del nuovo alunno (presentazione, descrizione del paese di origine,
scelta del banco, …). Ciò dimostra che l’accoglienza si può preparare con competenza e strumenti adeguati,
ma è anche vero che un margine di imprevedibilità si deve avere. Il timore più diffuso dell’insegnante è che
cambi l’equilibrio della classe avuto fino a quel momento; è opportuno dunque lavorare sulle emozioni
proprie e dei bambini, perché da queste dipendono i processi di accoglienza o esclusione tra i bambini.
Emozioni come paura, diffidenza, compassione sono da vedere come negative, mentre curiosità o stupore
portano a favorire l’accoglienza e i rapporti paritari.
La classe si trasforma così in una palestra di relazione.
5.2 Preparare i bambini all’accoglienza
Il primo passo per educare all’accoglienza, è l’atteggiamento dell’insegnante stesso il primo giorno di
scuola: un atteggiamento a priori e incondizionato. Prima ancora di prendere posto, presentarsi e
conoscere chi ha davanti, l’insegnante deve assumere un atteggiamento dell’accoglienza piena dei bambini:
è una premessa del rapporto insegnante e alunni.
Buber si è confrontato con Rogers sul tema: l’incontro tra due persone porta a stabilire una vera relazione
dialogica, in cui emergono due dimensioni diverse, accettazione e conferma dell’altro.
Con accettazione si intende la capacità di dire all’altro che viene accettato così com’è. Con conferma si
intende “accettare le potenzialità dell’altro, e fare una distinzione decisiva nelle sue potenzialità”.
L’accoglienza diviene un modo per stabilire una relazione autentica tra due soggetti, premessa per costruire
qualcosa insieme.
La letteratura pedagogica e sociologica si è concentrata sul concetto di integrazione, concentrandosi però
su un solo “polo” della relazione, ovvero sui nuovi arrivati: eppure nel processo sono coinvolti anche i
bambini autoctoni. È necessario dunque ricentrare la ricerca interculturale, ampliandola anche alla
preparazione di questi ultimi.
Una soluzione è insegnare un atteggiamento in cui non ci si accontenti dell’evidenza, ma si vada oltre (es.
analizzare le 2erbacce” del giardino come “piante di cui ancora non si conoscono i pregi” per poi guardare a
un bambino disabile e non additarlo perché non sa camminare, ma guardare a tutto il resto che è in grado
di fare”).
Investire sulla cultura dell’accoglienza significa favorire il rispetto, il sentimento di accettazione in chi viene
accolto. Al centro della missione educativa, per Vandenbroeck, vi è lo stimolo ad aprirsi all’altro, facendo
suscitare domande; se l’insegnante se ne pone, sta già trovando risposte, ed ha abbandonato l’idea di
essere l’unico detentore del sapere: è pronto a costruire nuovi equilibri nella sua classe.
5.3 Si rallenta o si impara di più?
Marie Rose Moro, di origine spagnola, immigrata in Francia, è un chiaro esempio di come l’errore linguistico
dei nuovi arrivati possa trasformarsi in opportunità concreta per imparare di più.
Il modello di insegnamento veicolato dalle principali correnti pedagogiche occidentali è centrato sul singolo
docente, considerato onnisciente, seguendo l’idea che egli detenga il sapere e gli alunni lo ricevono in
modo passivo, escludendo del tutto una relazione e scambio tra pari.
La classe è una “sottocomunità di persone che apprendono le une dalle altre, dove il docente ha il compito
di orchestrare” e ognuno impara dagli altri.
In questo modo si rinnovano le culture, e si costruiscono nuovi significati: pensare nella comunità. Essa è
infatti il luogo in cui avvengono esperienze da cui apprendere, e gli studenti prendono coscienza del valore
aggiunto all’apprendimento, così che anche gli studenti più soli possano trarre vantaggio dalle esperienze
altrui.
Domanda, errore e successo dell’altro sono stimoli per un apprendimento personale che non si può
raggiungere in solitario. Ma non tutte le comunità (classi, scuole) sono inclini a questo tipo di
apprendimento. Lipman spiega che vi sono “comunità che non pensano” e “comunità pensanti”; queste
sono contraddistinte da numerose caratteristiche:
• Cognizione condivisa: processo di elaborazione comune su un tema (es. dibattito)
• Pensiero autonomo: contro un atteggiamento di conformismo verso il pensiero comune (es.
imparare che in una classe vi possono essere punti di vista diversi, tutti validi, e ciascuno ha il suo)
• Procedura della provocazione: processo positivo in cui innescare nuovi apprendimento, se gestito e
contenuto
• Formulazione delle domande, quelle del singolo e degli altri, che possono aprire a nuovi campi della
conoscenza
• Discussione, per negoziare i diversi punti di vista, esprimendosi.
Imparare con gli altri implica 3 dimensioni diverse dell’aprrendimento:
1. imparare gli uni dagli altri
2. imparare dall’esperienza dell’altro
3. imparare a stare con gli altri.
Partendo da questa riflessione, si può dire che l’ottica interculturale porta a pensare l’apprendimento tra
diversi come un elemento di qualità.
La presenza di un nuovo alunno con meno competenze, quindi, può creare nuove dinamiche nella classe:
prendendo confidenza con la nuova lingua, emergeranno in lui nuove domande su ciò che sta imparando
nella nuova cultura, e potrà fare così confronti tra l’educazione nel suo paese di origine e quella nel paese
ospitante. Si ottiene un affiancamento del guadagno culturale a quello umano.
Es. Abdoul arriva a Varese dal Marocco, sordomuto dalla nascita, non ha mai frequentato una scuola. In
Italia trova accoglienza, e le insegnanti per andargli incontro hanno imparato la lingua dei segni, e così
anche i compagni di classe, facendo gara a chi veniva capito prima. Hanno così imparato una lingua in più.
5.4 Nessun bambino è un “vaso vuoto”
Il bambino non è un vaso da riempire ma una fiaccola da accendere.
(Comenio, 1657)
Spesso vengono visti come contenitori da riempire. Ciò è rimasto nella riflessione su doppia e ambigua
etimologia del verbo educare: si tratta di un atto che ha come protagonista chi educa oppure chi è
educato. Ciò deriva dall’attivismo pedagogico che poneva il bambino al centro dell’educazione, perché
qualunque bambino, qualunque sia la sua condizione, può dare qualcosa agli altri. L’educazione diviene così
un processo di dialogo, e non autoritario.
La tentazione di imporre un sapere, così com’è, è sempre forte, ma penalizza sia chi educa sia chi è
educato: l’insegnamento diventa un processo di oppressione, autoritario.
5.5 L’esperienza dell’altrove: praticare l’empatia
Chi accoglie un nuovo alunno in classe diventa meno ingenuo: la radice del termine deriva da in genus e
significa stare nelle proprie origini, gruppo, famiglia, classe sempre uguale senza accedere a esperienze
diverse. L’arrivo di un nuovo compagno può diventare occasione di apertura al mondo, e non è detto sia
simpatico, indifeso, tenero: tutti gli elementi e materiali pratici facilitano l’accoglienza, ma sta anche
all’insegnante lavorare su sé e sui propri alunni per sollecitare un'altra strategia di accoglienza: l’empatia.
Spesso equivocato con termine quali “sentimento”, “affetto”, “simpatia”, il termine EMPATIA significa più
propriamente osservare, percepire, accorgersi di qualcosa che ci si trova improvvisamente di fronte:
“rendersi conto” dello stato d’animo altrui; essa non è quindi un sentimento, ma una forma di conoscenza.
Si confonde con l’esperienza dell’immedesimazione: questa significa “aver provato su sé stessi ciò che la
persona davanti sta provando”, mentre l’empatia è il contrario, è rimanere in sé stessi aprendosi all’altro e
aumentando la propria conoscenza della realtà.
Significa avvicinarsi intenzionalmente all’altro, sperimentare il suo modo di stare con gli altri, le reazioni, e
così via: un’esperienza conoscitiva, che permette di scoprire la gioia o il dolore propri tramite quelli altrui.
Nella classe l’esperienza dell’empatia si può sperimentare quotidianamente: lasciarsi sorprendere
dall’entusiasmo della compagna che vede il mare per la prima volta, scoprire sfumature di dolore e fatica
vicino al compagno disabile, provare la paura attraverso i racconti della guerra esperienze dell’altrove.
Perché l’empatia non sia un’emozione temporanea, occorre trasformarla in pratica, attuando strategie
attive per far sentire il bambino a suo agio, e non come vittima. Un esempio pratico si ha nel quotidiano,
quando passano in televisione notizie di persone arrivate in Italia su di un barcone, e si sfugge dalla
“globalizzazione dell’indifferenza” con una commozione temporanea. Comunicare la propria empatia per
ciò, invece, significa individuare strategie d’azione, come aiuti concreti o azioni d’intervento sociale e
politico.
Tre idee da portare a casa:
1. L’arrivo di un nuovo alunno nella classe, in qualunque mese, è un fenomeno ordinario.
2. Il processo di accoglienza va preparato coinvolgendo tutti nella scuola (dirigenti, alunni, insegnanti,
famiglie); gli alunni hanno il ruolo fondamentale di far entrare nel gruppo il nuovo arrivato.
3. L’insegnante ha il compito di trasformare l’evento in un’occasione di crescita umana e formativa
per la classe, mettendosi in discussione.
6.FEBBRAIO
A chi piace dare i numeri?
Febbraio è il mese in cui l’insegnante deve fare i conti con la valutazione, e la temuta PAGELLA. In questo
momento dell’anno, il pluralismo presente nella classe tende ad essere dimenticato, e s