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La pedagogia e l'importanza delle diverse culture
Nanni porta alla luce che nel campo della pedagogia vengono messe in evidenza le diverse culture, le persone con la loro cultura e che il protagonista della ricerca è l'individuo che è sia ricettore che soggetto attivo della cultura. In pedagogia, inoltre, la stessa parola "integrazione" è problematica perché fa riferimento ad "assimilazione" o "fusione" che prevedono una sorta di perdita di esperienze personali e culturali per poi aderire a quelle del contesto in cui si migra; il migrante, però, in primo luogo è una persona con caratteristiche culturali e caratteriali, un'origine, un'appartenenza di genere, un percorso di vita e aspettative sul futuro. In ottica pedagogica un ruolo fondamentale riguardo la formazione degli individui lo ricopre l'ambito scolastico, quindi, da questo punto di vista, la stessa nozione di "alunno straniero" è un ossimoro, in quantol’alunno viene introdotto in una cultura che è simbolica, quindi, fin da subito smette di essere un migrante, uno straniero, e comincia ad essere un cittadino, inoltre questi alunni dovrebbero avere sia la possibilità di mantenere la loro cultura d’origine, sia il diritto di poter essere diverso dalla loro differenza, ovvero dovrebbero avere la possibilità di costruire un’identità diversa da quella familiare. Il tema importante sia della pedagogia interculturale che della sociologia delle migrazioni è quello delle generazioni di figli di immigrati, la differenza però sta nel metodo utilizzato: la pedagogia interculturale ha tralasciato questo tema per molto tempo, motivo per il quale si ritrova a dover utilizzare categorie non proprie; la sociologia delle migrazioni, invece, ha sempre utilizzato una logica delle tipologie identitarie con cui, però, si corre il rischio di semplificare le condizioni dei figli di immigrati.sociologia delle migrazioni trova quattro tipologie identitarie:
- I cosmopoliti, che si sentono turisti anche nel luogo in cui vivono; o questo uno stato che porta sia dei vantaggi, quali l'apertura al mondo, ma anche degli svantaggi, perché coloro che rientrano in questa tipologia pagano quest'apertura al mondo con un senso di sradicamento
- Gli isolati, che si trovano in una situazione di estraneazione sia rispetto al mondo in cui sono cresciuti, sia rispetto alla cultura tradizionale dei propri genitori. Gli isolati possono diventare nostalgici quando rifiutano la società ospitante
- Infine, ci sono i mimetici, che sfuggono a situazioni in cui la loro "diversità" potrebbe essere sottolineata, in quanto vogliono a tutti i costi essere considerati appartenenti alla cultura del paese in cui sono migrati.
In risposta a queste tipologie, invece, autori come Camilleri, introducono il concetto di "strategie identitarie" che includono
dinamicità nelladescrizione di questi percorsi. Questo dialogo con la sociologia delle migrazioni porta con sé, però, delle criticità: Si corre il rischio della categorizzazione, che è dovuto alle generalizzazioni, che comporta il favorire di pregiudizi e discriminazioni. Il rischio della criminalizzazione; infatti la correlazione tra criminalità e immigrazione è dovuta proprio ad una ricerca condotta in ambito sociologico nel 1988 da Barbagli e, dopo 34 anni, nonostante le numerose confutazioni da parte di numerosi studiosi questo concetto ha fatto "scuola" in Italia. Infine, c'è il rischio della ghettizzazione che deriva dal focalizzarsi esclusivamente sulle differenze tra italiani e stranieri creando, così, nuove nicchie di diversi. - L'antropologia culturale, grazie alla quale abbiamo una prima definizione di "cultura", dovuta a Taylor, che definisce la cultura come quell'insieme di regole.norme, comportamenti, credenze, leggi e costumi che vengono utilizzati dall'uomo per vivere la propria quotidianità e quello che fa Taylor è unificare i concetti di "cultura" e "civiltà", dove per civiltà si intende quel processo di civilizzazione del genere umano e sostiene, quindi, che ogni società vive i propri tempi di civilizzazione. Dopo Taylor, l'antropologo Boas introduce il concetto di "relativismo culturale" sostenendo che ogni espressione culturale deve essere spiegata tramite un quadro simbolico della società che lo produce, il che significa che non esiste una sola civilizzazione ma esistono molti modi di interpretazione della propria umanità. Successivamente Geerz, in netto contrasto con Lévi-Strauss, il padre dell'antropologia che sostiene che ogni cultura si rifà ad un modello e che è possibile individuare culture con elementi comuni, sostiene che le culture
non esistono oggettivamente ma sono reti di simboli uniche elegate ad una realtà locale. Pensatori contemporanei, invece, sostengono che l'interpretazione di Geerz non è più sufficiente dato che le culture, in periodo di globalizzazione, sono deterritorializzate e delocalizzate, quindi, pensare che queste siano chiuse in confini appare fuori luogo e tempo.
I rischi che si corrono nel dialogo con l'antropologia sono:
- Sottovalutare la cultura
- Assumere un atteggiamento di fascinazione verso culture diverse
- Il rischio del relativismo, che è causato dal timore di esprimere o giudizi di valore sul comportamento altrui.
La pedagogia interculturale deve, poi, dialogare anche con la psicologia dello sviluppo in quanto entrambe sono il risultato di un'identica preoccupazione, ovvero aiutare l'uomo a conoscersi meglio e a gestire meglio la sua esistenza; c'è, però, una diversità tra queste due discipline che è dovuta
alle diverse applicazioni. Le psicologie dell'educazione sviluppano teorie centrate sui processi mentali, al contrario, il modello pedagogico precedente si basava sulla trasmissione del sapere, infatti è promettente la lettura sulle fasi di crescita del bambino con il concetto di "zona di sviluppo prossimale" che sostiene che il bambino può raggiungere livelli di sviluppo superiori alla norma se circondato da adulti o da suoi pari che siano in grado di stimolarlo e, questo concetto, diviene ancora più interessante se applicato alla pedagogia interculturale e se, allora, viene considerata allo stesso modo anche l'identità culturale, soprattutto se il bambino viene considerato come figlio di più culture. Se si prendono in considerazione le due tipologie di famiglie, quelle stanziali da generazioni e quelle migrate da poco incarnano dei modelli alternativi esito di sintesi e negazioni di elementi sia ereditati che acquisiti, infatti quelle.Stanziali da generazioni esprimono caratteri di congiunzione tra identità individuali, di coppia, di generazioni, sociali ed etniche, quelle migrate da poco non rispettano né i canoni della famiglia contrattuale del luogo ospitante né della famiglia tradizionale del luogo d'origine.
Leggere queste situazioni con lo sguardo di entrambe le due discipline, quindi, permette di trovare equilibrio tra universalismo e relativismo, anche se, d'altro canto, anche questo dialogo, oltre tutti gli aspetti positivi, può portare dei rischi come:
- Invertire i ruoli dello psicologo e dell'educatore
- Trovare tratti comuni in culture profondamente diverse
- Vedere lo straniero come debole o sofferente dimenticando le sue potenzialità
- Trascurare l'orizzonte socioculturale in cui si cresce
La terza via, infine, è l'entrare nelle vite degli altri spogliandosi di qualsiasi pregiudizio e preconcetto che ci impedisca di vedere l'altro.
comeeffettivamente è. Il filosofo ebreo Buber riconosce nel dialogo il tratto costitutivo del genereumano, infatti nota come fin da subito i bambini cerchino il contatto e larelazione con l'altro, cosa che mette in evidenza che la percezione del "tu"viene prima di quella dell'"io"; Buber, quindi, definisce l'incontro come"esperienza della controparte", ovvero sperimentare la realtà non solo dallapropria prospettiva ma anche da quella dell'altro e sostiene che costruire undialogo autentico significa: - Mettere in gioco la propria persona in un'ottica di autentica reciprocità - Stabilire un dialogo alla pari - Accettare l'altro così com'è per accompagnarlo nello sviluppo delleproprie capacità. Oltre che "sapere" e "saper fare" bisogna allora "saper essere", che non è unmetodo, ma significa adottare una determinata postura cheè un atteggiamento verso l'altro e un lavoro costante su se stessi che ci permette di avere cura dell'altro; da qui abbiamo la nascita della cosiddetta "etica dellacura", che si affianca all'"etica della giustizia" che si basa sull'adesione a norme morali stabilite dalla società, al contrario quest'etica della cura risponde alla preoccupazione che le singole persone vengano considerate uniche e irripetibili, il che significa che lo studioso deve farsi lui stesso strumento etico quando incontra l'altro e deve tener ben presenti determinate dimensioni:
- Quella dell'affettività, in quanto nessun contesto di relazione può darsi neutro dal punto di vista emozionale
- Quella dell'empatia, che significa osservare, percepire e accorgersi di qualcosa che si ha di fronte, quindi l'empatia non è un sentimento ma una forma di conoscenza, un "rendersi conto" dello stato d'animo
altrui- Quello della vulnerabilità perché ogni persona è vulnerabile e trovarsi in una dimensione di asimmetria come lo è quella ricercatore/soggetto di ricerca la vulnerabilità aumenta, quindi bisogna sentirsi responsabili dell'altro ed essere pronti anche a rivedere i propri interrogativi, i tempi e i piani di ricerca e addirittura la fase di divulgazione, il che significa che bisogna tenere al centro sempre l'altro- Bisogna avere rispetto, dato che anche il ricercatore più attento è immerso nel clima sociale attuale in cui sono diffusi paura e odio- Bisogna avere attenzione profonda e autentica nel momento dell'incontro- Bisogna gestire pregiudizi e stereotipi che fanno parte di ogni essere umano e che rende incapaci di cogliere completamente la realtà dell'altro e significa, quindi, prendere coscienza che questi pregiudizi e stereotipi non possono essere eliminati completamente, mot