Dibattito sul genio delle lingue
Il settecento è il secolo del dibattito sul genio delle lingue, ovvero su una particolare organizzazione,
storicamente e culturalmente determinata, dei modi espressivi che caratterizzano ogni lingua e la
differenziano da tutte le altre. In questo senso ogni lingua riflette ed esprime il carattere, le idee e i costumi
storicamente determinati, del popolo che le parla. Ad esempio lo stile coupè è caratterizzato da frasi brevi ed
essenziali, congiunzioni il più possibile eliminate a vantaggio della giustapposizione, incidentali risolte in
proposizioni autonome. Invece la tradizione prosastica italiana è tutta fondata sul modello del Decameron.
L’azione del francese non è limitata solo al lessico, ma apporta un aggiornamento anche a livello della
sintassi, mandando il sistema sintattico bembiano in crisi. In Francia, l’italiano è ritenuto Privo di un ‘genio’
tale da potersi adattare alla nuove esigenze e in più aleggia su di esso un certo pregiudizio dato dal fatto che
l’italiano è sempre stata la lingua della poesia, della musica e del melodramma. Gli intellettuali italiani
reagiscono in modo variegato in merito a tale questione, in particolare c’è chi aderisce allo stile
francesizzante, come Baretti e chi invece si pone in posizione di aperto rifiuto come Alfieri.
Nel frattempo, dal 1729 al 1738, sono in atto i lavori per la quarta impressione del vocabolario della
crusca (versione che sarà poi l’ultima ad essere completa). Infatti nel 1783 l’Accademia viene sciolta da
Pietro Leopoldo, che decide di annetterla all’Accademia fiorentina. Le novità di questa versioni sono
diverse, infatti troviamo:
1. Uno spoglio di un numero notevole di testi e la revisione di quelli usati nelle precedenti edizioni
2. Un aggiornamento delle edizioni precedenti con correzione di definizioni e citazioni 25
3. Un incremento del numero dei lemmi
4. L’inserzione di una tavola dei citati completa e ricca di indicazioni
5. L’inserzione delle escursioni diafasiche del lessico, cha va dai tecnicismi alle espressioni colloquiali.
Melchiorre Cesarotti
Una figura di particolare rilievo nell’ambito dello studio della storia della lingua italiana nel settecento, è
Melchiorre Cesarotti (1730-1808). Nel 1785 pubblica il suo Saggio sulla filosofia delle lingue, che è diviso
in quattro sezioni:
1. Idee generali sulla lingua
In questa sezione Cesarotti conclude che nessuna lingua è perfetta, tutte nascono barbare e possono
migliorarsi nel tempo. Alla base di questo concetto c’è l’idea che l’arricchimento di una lingua sia
inevitabile, costante e casuale e che questo possa accadere attraverso due fattori principali, che
sono l’attenzione verso la lingua parlata e la considerazione nei confronti del toscano. In merito
al primo punto dice che ‘tutte le lingue sono piacevoli agli orecchi del popolo per cui sono fatte, tutte
sono suscettibili di coltura e di aggiustatezza, e in qualche modo tutte possiedono un qualche pregio
particolare o hanno difetti che danno luogo a qualche bellezza’. In merito al secondo punto, invece,
racconta di come nessuna lingua sia pura, dal momento che tutte le lingue, nel loro stato primitivo, si
sono orginita dall’accozzamento di vari idiomi. Per questo motivo, la supposta purità delle lingue,
oltre ad essere falsa, e inoltre un pregio chimerico, poiché una lingua del tutto pura sarebbe la più
meschina e la più barbare di tutte quelle che esistono e sarebbe meglio definirla un gergo, più che
una lingua. Da queste affermazioni viene la sua rigida critica ai puristi. Racconta di come una
lingua che non venga mai a contatto con le altre, sia di fatto un idioma povero, che basta ai pochi
bisogni circoscritti all’area d’azione di quella lingua. Conviene che invece molte tribù si accostino
insieme e formino un popolo affinchè ne possa risultare una vera lingua. Aggiunge inoltre, andando
controcorrente a tutto quello che era stato detto fino ad allora, che la lingua scritta non deve aderire
ciecamente a quella degli scrittori approvati dal momento che non tutti gli scrittori furono
ugualmente colti, riflessivi e diligenti in fatto di lingua. Perciò permane l’idea di una distinzione
netta fra uso orale e scritto della lingua, questo perché la lingua parlata è fondata sull’impiego del
maggior numero di parlante, anche se tale impiego non è uniforme nella nazione, mentre la lingua
scritta, deve essere regolata dalla ragione e dal giudizio degli scriventi colti
2. Nascita del linguaggio
Cesarotti crede in una selezione di un dialetto dominante, e nello specifico identifica nel fiorentino il
ruolo di migliore lingua da essere selezionata. Questo potrebbe essere utile a fissare una pronuncia e
un tipo sintattico costante, oltre che a fornirne un riferimento per gli stranieri. Tuttavia rifiuta anche
la possibilità di un dialetto unico panitaliano e con ciò intende dire che le regole sono da ricavare
sulla base dei tratti toscani accolti anche da scrittori di altre regioni.
3. Arricchimento lessicale
Un altro punto fondamentale della sua teoria linguistica riguarda la distinzione fra lingua e stile. In
particolare secondo Cesarotti la lingua è la struttura grammaticale (fonetica e morfologia) che
non è esposta ad alterazioni. Invece lo stile corrisponde al lessico e alla sintassi, i quali sono
sottoposta invece a evoluzioni nel tempo. Esiste, per così dire, una parte della lingua che è statica,
ovvero la lingua stessa, ed una invece soggetta a cambiamenti, ovvero lo stile. Da questa
considerazioni si muove la teoria del ‘genio grammaticale’ e quella del ‘genio retorico’, che lo
porta a fare riflessioni su l’ordine dei costituenti nella frase, i forestierismi e il concetto di errore
linguistico. Per quanto riguarda l’ordine dei costituenti nella frase, Cesarotti afferma che l’ordine
inverso è più naturale e permette di mettere in rilievo uno dei costituenti della frase. Riguardano ai
forestierismi, invece, parla di una loro certa legittimità, a condizione che il loro ingresso in una
lingua sia regolato da norme che ne frenino gli eccessi, questo perché i forestierismi e i neologismi
possono produrre a loro volta traslati e derivazione (accusa di lassismo, ovvero di mancanza di
rigore). Infine Cesarotti discute del concetto di errore linguistico, distinguendo tra errore
grammaticale, riguardante la struttura fonomorfologica, e l’errore di opinione, che riguarda le
infrazioni del canone imposto dalla Crusca. In merito a quest’ultimo aspetto, Cesarotti rivendica una
certa superiorità del termini che risulti ben derivato, analogo nella forma, non distacco ciò nel suono,
di qualunque autore esso sia e a qualunque data appartenga, sia esso scritto, parlato o immaginato,
sarà sempre ottimo e da preferirsi ad altri insignificanti, strani e disadatti che non abbiano altra
raccomandazione che quella del vocabolario.
4. Proposte pratiche (soprattutto in relazione alla lessicografia)
Le sue proposte operative sono contenute nell’opera Della lingua italiana, dei modi e d’ampliarla, e
perfezionarla, che rientra perfettamente nell’enciclopedismo francese e nell’illuminismo. All’interno
di quest’opera suggerisce la nomina di un consiglio nazionale per la lingua, che possa sostituire la
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Crusca, ormai sciolta dal 1783. Non solo ne suggerisce la nomina, ma specifica anche quali
caratteristiche debba avere. Infatti deve essere composto da intellettuali di tutte le regioni, il suo
obiettivo è la compilazione di un vocabolario, privo di arcaismi, con citazioni di autori non
menzionati dai cruscanti e più aperto alla registrazione di termini delle arti e dei mestieri. Infine il
vocabolario era da prodursi in due forme: una ridotta, divulgativa e pratica, per uso comune, l’altra
ampia con i lemmi ordinati per radici e con informazioni etimologiche, storiche, filologiche e
comparative.
Tensione fra classicismo e modernismo
Nella disputa tra le tendenze del classicismo e quelle del modernismo, rientra anche la questione linguistica e
una figura di primo piano in merito è Alessandro Verri, che scrive nel 1764 la Rinunzia avanti notaio al
Vocabolario della Crusca, pubblicandola sul Caffè e mostrando il suo pieno rifiuto del canone classicistico
della crusca. Nel 1792 pubblica invece Notti romane, che sono un prototipo della prosa Neoclassica, dal
colorito arcaizzante. Gli autori del Caffè erano estremamente portati a preferire le idee alle parole, ed
essendo contro qualsiasi vincolo si volesse imporre alla libertà dei loro pensieri e della loro ragione, erano
dell’idea di rinunciare alla pretesa purezza della favella toscana, per le seguenti ragioni. Innanzitutto
perché, se Petrarca, Dante e Boccaccio e altri come loro hanno avuto la facoltà di inventare parole nuove e
buone, allo stesso modo pretendevano tale libertà anche loro, visto che non c’era alcuna differenza tra
quegli autori del passato e loro. Inoltre anche perché, fintanto che non venga dimostrato che una lingua abbia
raggiunto la sua perfezione, sarebbe un’ingiusta schiavitù pretendere che non si osi arricchirla o
migliorarla. Poi anche perché nessuna legge li obbligava a venerare gli oracoli della Crusca o a scrivere
e parlare soltanto con quelle parole che ritennero adatte al vocabolario. Senza aggiungere che, nel caso in cui
avessero notato che italianizzando parole di altre lingue avrebbero potuto rendere meglio le loro idee,
non si sarebbero astenuto dal farlo, senza paura di quei grammatici troppo rigorosi, che, se avessero regolato
tutto il mondo linguistico, avrebbero finito per sopprimere gli ingegni e le scienze. L’idea di base è che le
parole servono alle idee, ma non le idee alle parole, dal momento che avrebbero voluto prendere ciò che
c’è di buono persino ai confini dell’universo, dall’India o dall’America, nel caso in cui avessero trovato
qualche vocabolo che esprimesse meglio una loro idea, meglio di quanto potesse fare l’italiano. Questo, non
tanto per capriccio, ma quanto perché è un processo che arricchisce una lingua, la rende migliore. Verri dice:
“Porteremo questa nostra indipendente libertà sulle squallide pianure del dispotico Regno Ortografico e
conformeremo le sue leggi alla ragione […] e tutte quelle regole che il capriccioso pedantismo ha introdotto
e consacrate, noi non le rispetteremo in modo alcuno.” I confini che vengono fissati come buoni per
attingere a moduli linguistici sono ‘da Reggio di Calabria sino alle Alpi’. Insomma in pieno stile
settecentesco e illuminista c’è una generale insofferenza nei confronti dell’autorità e una celebrazione della
libertà di esprimersi senza dover imitare q
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