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L’Antropocene è presentata come nuova era geologica successiva, all’Olocene, una nuova era che si
caratterizza per essere stata plasmata e dominata dall’azione umana e che vede l’uomo come
motore di trasformazione geologica. In merito alla datazione sull’ingresso in questa nuova fase, sono
emerse prospettive eterogenee tra geologi e scienziati naturali che variano dalla rivoluzione
industriale all’inizio del Novecento fino alla grande accelerazione nella trasformazione della natura a
partire dagli anni Cinquanta. Un’analisi critica della natura del concetto di Antropocene e dei relativi
processi e politiche è stata avanzata negli ultimi anni dal campo di ricerca dell’ecologia politica e in
particolare a partire dal contributo dello storico dell’ambiente Jason Moore. Moore ha sottolineato
la necessità di decostruire l’Antropocene andando a riflettere su un ampio quadro di aspetti
controversi che riguardano questa definizione: dalla sua natura etimologica ai rapporti di dominio e
subordinazione nella concezione ideologica di natura e nell’evoluzione storica dei processi socio-
naturali, fino alle origini della modernità capitalista in relazione all’estrazione di valore da nature
umane e non umane. Sulla base di queste riflessioni, Moore enfatizza la natura non tanto
antropogenica bensì capitalogenica della crisi ambientale e climatica e propone una rilettura critica
del presenta attraverso la concettualizzazione del Capitalocene.
Il pensiero sul post-sviluppo inizia a svilupparsi già negli anni Ottanta del XX secolo ma si concretizza
nel decennio successivo, quando lo sviluppo sostenibile tende ad essere assorbito all’interno del
framework neoliberista, divenendo così il paradigma di sviluppo dominante. L’approccio del post-
sviluppo raccoglie prospettive diverse, tanto che secondo uno dei suoi massimi esponenti,
l’antropologo Arturo Escobar, il post-sviluppo non può essere inteso come una teoria ma come un
insieme di idee, forse nemmeno categorizzabili come correnti di pensiero, tale è la diversità degli
approcci che raggruppa. Secondo Quijano l’eredità della colonizzazione, con la sua visione
gerarchicamente discriminante della società e una distribuzione del lavoro basata sulla
razzializzazione dei rapporti lavorativi, ha prodotto una prospettiva perversa dello sviluppo, che
tende a favorire una specifica élite sociale, a discapito della maggior parte della popolazione
mondiale. I tratti distintivi di questo insieme di idee sul post-sviluppo si possono dunque così
riassumere: (1) un atteggiamento fortemente critico nei confronti della nozione di sviluppo e di ciò
che essa ha prodotto; (2) il tentativo esplicito di superare la nozione stessa di sviluppo anziché
individuare forme alternative dello stesso; (3) la constatazione che le teorie dello sviluppo che si
sono susseguite a partire dagli anni Cinquanta hanno tutte fallito non solo nel riconoscere le cause
ma anche nell’individuare delle soluzioni efficaci a ridurre il sottosviluppo, contribuendo in numerosi
casi, ad aggravare le condizioni di dipendenza economica e politica di diversi Paesi del Sud Globale,
nonché l’esaurimento delle loro risorse. Partendo dal riconoscimento di tale fallimento, i pensatori
del post-sviluppo pertanto condividono l’opinione che lo sviluppo non ha fallito solo come insieme di
pratiche e politiche ma anche come idea in sé. Per la prospettiva post-sviluppista qualunque
alternativa allo sviluppo deve passare per la decolonizzazione dell’immaginario occidentale, la
distruzione della colonialità del potere mondiale, per usare le parole di Quijano.
Tali osservazioni si arricchiscono anche di un approccio eco-femminista, portato avanti da autrici
come Vanda Shiva, la quale osserva come il processo di greening messo in atto da diverse economie
sviluppate sia del Nord sia del Sud Globale non sia di qualcosa di positivo a prescindere. In tal senso,
Shiva nota come molte posizioni critiche che si incardinano nel quadro delle cosiddette teorie per
uno sviluppo alternativo abbiano in realtà accettato di venire a patti con le idee di sviluppo
mainstream, proponendo versioni ecologiche, sociali o locali di sviluppo, che in realtà non sono altro
che versioni più accettabili della visione neoliberista delle cause e delle soluzioni al sottosviluppo.
Vale la pena di ricordare che critiche sono state mosse anche alla teoria del post-sviluppo, in
particolare nei confronti della loro difficoltà di andare oltre la riflessione teorica e di proporre azioni
concrete per risolvere i mali dello sviluppo. Nel pensiero di diversi autori post-sviluppisti le proposte
di intervento sono in effetti presenti, ma dipendono sempre da una preventiva azione
epistemologica volta a distruggere il modo di pensare lo sviluppo “figlio” dell’Occidente.
L’ecologia politica è una prospettiva critica rivolta alle problematiche ambientali che emerge nel
quadro di una riflessione teorico-intellettuale delle scienze sociali d’ispirazione marxista, tra la fine
degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, e che si pone il fine di riconcettualizzare le relazioni
socio-ambientali e di riflettere sul rapporto tra capitalismo, gestione dell’ambiente e asimmetrie di
potere. L’ecologia politica si concentra sulla critica dei processi di valorizzazione, accumulazione e
mercificazione capitalista in relazione a dinamiche di accesso alle risorse, esclusione e diseguaglianza
sociale e sulla necessità di partire da una riflessione sui processi di co-produzione socio-naturale e
contribuire al superamento dei meccanismi di dominazione e oppressione socio-ambientale di
stampo capitalista. La geografia critica ha fornito un contributo determinante nella costituzione del
campo dell’ecologia politica evidenziando sia la sua natura trans-scalare e spaziale delle
problematiche socio-ambientali, sia l’importanza dell’adozione di metodi di ricerca sociali di tipo
empirico, per comprendere criticità e conflittualità a scala locale. La ricerca sul campo si focalizza
soprattutto, ma non esclusivamente, sulle rivendicazioni, sui processi di decolonizzazione e sulle
lotte contadine per la riappropriazione in vari contesti dell’Africa centrale e dell’America Latina.
Dagli anni Novanta in poi, l’ecologia politica si è concentrata sulla critica alla neoliberalizzazione
dell’ambiente e sulla necessità di ripoliticizzare la questione ambientale. Questa problematica
emerge in conseguenza dell’istituzionalizzazione dei temi ambientali che si andava caratterizzando
per un approccio neoliberista, attraverso il paradigma della Modernizzazione Ecologica. La riflessione
sulla natura politica dell’ambiente è stata approfondita dalla geografia critica e in particolare da Noel
Castree, attraverso la concettualizzazione di quelle che descrive come socio-nature. Ispirandosi
anche alla prospettiva del metabolismo socio-ecologico proposta da altri autori, queste analisi
geografiche evidenziano come la costituzione delle diverse “socio-nature” non sia politicamente e
socialmente neutrale ma influenzata in modo significativo da relazioni, dinamiche e asimmetrie di
potere. L’ecologia politica si pone in termini critici anche nei confronti della progressiva
privatizzazione e mercificazione delle risorse, conseguenza dell’attivazione di nuovi mercati globali. Il
conflitto socio-ambientale rappresenta perciò un tema centrale dell’ecologia politica. La riflessione e
il dibattito teorico, concettuale e metodologico sul conflitto vedono il contributo eterogeneo di varie
scienze sociali, tra cui la geografia. Nel contesto italiano, la prospettiva di Faggi e Turco, tra i primi a
riflettere sul tema in chiave critica, si focalizza sull’ambiente come oggetto di contesa e conflitto,
caratterizzati da controversie ideologiche, politiche, scientifiche e giuridiche e da problematiche di
marginalizzazione ed esclusione. Il sociologo Pellizzoni sottolinea come in Italia e nel resto d’Europa,
il conflitto socio-ambientale negli ultimi due decenni sia stato depoliticizzato e determinante visioni
e strategie, spesso legate ad attori istituzionali, siano state legittimate dall’expertise di tecnici e
scienziati. Ciò ha permesso la promozione di processi di policy-making contraddistinti da una natura
tecnocratico-scientifica orientata alla delegittimazione di conoscenze e rivendicazioni di attori sociali
e comunità locali e alla marginalizzazione del dissenso.
E’ importante notare come varie forme di rivendicazione e conflittualità socio-ambientale da parte di
gruppi, comunità e movimenti sociali stiano contribuendo alla decostruzione di progettualità e
visioni sostenute dalla governance globale dell’ambiente in riferimento alla crisi climatica, come
l’Agenda 2030 o gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Il movimento transnazionale per la giustizia
ambientale e climatica, emerso a partire dal 2015 e costituito da una pluralità di soggetti come
Fridays for Future, Climate Now, Climate Justice, Action ed Extinction Rebellion, rappresenta oggi
uno spazio politico che si contrappone in maniera critica alla governance ambientale e climatica
globale. Uno spazio politico contraddistinto da realtà, esperienze e pratiche conflittuali orientate
verso una riflessione sulla natura delle relazioni tra capitalismo neoliberista e ambiente, sulle
contraddizioni tra crescita verde, transizione ecologica e preservazione ambientale, volto alla
promozione di giustizia socio-ambientale e climatica.
CAPITOLO 5 Geografie della città
Molto è stato scritto sulla città, sulle origini e mutamenti nel corso della storia. Per Peter Haggett
“una città equivale a un gran numero di persone che vivono insieme a densità molto alte in una
moltitudine compatta”. A questa definizione, che l’autore presenta come “la più semplice e
basilare”, in realtà potremmo affiancarne molte altre. Uno sforzo in questo senso è stato compiuto
da Max Weber nel 1961 “è possibile definire la nozione di città in molte maniere. L’unico elemento
che tutte queste definizioni avranno in comune sarà comunque il seguente: la città è un
insediamento circoscritto, e non un mero agglomerato di un certo numero di dimore separate. La
concezione comune associa inoltre alla parola “città” un aspetto puramente quantitativo: è una
“grande” località. La città è un insediamento di abitazioni poste le une vicine alle altre che
formano una colonia così estesa che la reciproca conoscenza personale degli abitanti, dalle altre
parti caratteristica del vicinato, viene a mancare. Secondo questa definizione, però, solamente
località molto estese si guadagnerebbero la qualifica di citt&agrav